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Gottfried Wilhelm Leibniz

 

Biografia

Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo e scienziato tedesco (Lipsia 1646 - Hannover 1716). Figlio di un professore di diritto dell'Università di Lipsia, si formò attingendo ai copiosi mezzi fornitigli dalla biblioteca paterna, dimostrandosi un ingegno precocissimo; seguì gli studi giuridici ad Altdorf: contemporaneamente, però, frequentò corsi di filosofia a Jena e nella stessa Lipsia, dove fu allievo di Jacob Thomasius. Laureatosi in entrambe le discipline, Gottfried Wilhelm Leibniz si trasferì a Norimberga dove entrò in rapporto col barone von Boineburg e fu da questi introdotto alla corte dell'elettore di Magonza. Non ancora ventenne diede inizio alle proprie ricerche logiche e giunse alla prima redazione di un progetto che tentò anche in seguito di realizzare: la derivazione degli enunciati sugli eventi complessi a partire da quelli sugli eventi semplici mediante un calcolo logico combinatorio che presenta una sostanziale identità di struttura con quello aritmetico, nonché un sistema di notazione che permetta di esprimere ogni cosa attraverso simboli rigorosamente definiti. Leibniz ambiva a costruire un metodo capace di scoprire tutti i possibili concetti implicati in tutte le possibili esistenze e quindi a scoprire tutte le possibili verità, in altri termini egli pensava per tale via di poter edificare le basi di un sapere universale. Entrato in diplomazia, fu inviato a Parigi, dove rimase quattro anni (1672-76). Messosi in contatto con i circoli culturali della capitale francese, studiò la filosofia cartesiana e le discipline scientifiche e matematiche (seguendo Huygens) sino alla scoperta - insieme e indipendentemente da Newton - del calcolo infinitesimale. Gli anni parigini impressero una svolta al pensiero di Leibniz, che modificò infatti completamente le sue vedute sui fondamenti della dinamica e pose le basi per la sistemazione metafisica del suo pensiero. Anche allo studio della fisica Leibniz si era dedicato sin dalla giovinezza nel tentativo di dare spiegazione di due nozioni fondamentali: il moto e il continuo. Accogliendo i principi fondamentali di Huygens per la spiegazione del moto dei corpi e in particolare gli argomenti usati a proposito della relatività del moto, Leibniz fu indotto a ritenere che nel moto vi sia qualcosa di fenomenico e quindi di non completamente reale e che pertanto la natura della sostanza ci rimandi a qualcosa di diverso dal corpo. In obiezione alla tesi prevalente fra i suoi contemporanei, influenzati dalla fisica cartesiana, che figura, estensione e moto rappresentassero altrettante determinazioni sostanziali della realtà, egli ritenne che figura, estensione e moto siano necessari per spiegare il corso dei fenomeni ma che per spiegare la natura ultima del corpo sia necessario far ricorso "a un'azione che si riferisce all'estensione" e che pertanto l'attività sia un attributo essenziale della sostanza. Abbandonata Parigi, compì viaggi in Inghilterra e in Olanda, dove ebbe un incontro con Spinoza, e tornato in Germania entrò al servizio della corte di Hannover in qualità di storiografo, bibliotecario e consigliere politico. Continuò ad agire anche di sua iniziativa esorbitando dai suoi compiti - specie nella sfera politica -,sono di questo periodo i suoi contatti con lo zar Pietro il Grande e con l'imperatore d'Austria e i suoi vasti e utopistici progetti, prima di riunione fra i protestanti e i cattolici, quindi fra la Chiesa occidentale e orientale; sicché il suo atteggiamento indipendente lo portò alla rottura con la corte di Hannover. Di qui passò a Berlino - dopo un breve periodo a Dresda - dove fu fondatore e primo presidente dell'Accademia prussiana delle scienze: quindi il declino, la rottura con la corte berlinese e una fine solitaria, con in più l'amarezza di vedersi contestata dai matematici inglesi, seguaci di Newton, la paternità del calcolo infinitesimale. Pur attraverso le movimentate vicende della sua esistenza, che certo impedirono a Leibniz di dare un assetto rigoroso e sistematico alle sue ricerche, egli giunse a elaborare le sue fondamentali vedute filosofiche. Determinanti a tale riguardo furono, oltre agli studi fisici cui si è accennato, alcune tesi logiche, esplicitate nel Discours de Métaphysique ma già presenti in scritti precedenti, in base alle quali Leibniz dà una rigorosa definizione della sostanza. Dal punto di vista logico la realtà è definita in termini di possibilità: tutto ciò che è non-contraddittorio è possibile; la sostanza è il soggetto della proposizione e in tutte le proposizioni affermative vere, siano esse contingenti o necessarie, il predicato inerisce al soggetto; le proposizioni necessarie hanno la forma dell'identità e sono verità di ragione; le proposizioni contingenti sono soltanto verità di fatto per l'intelletto umano finito che non riesce nel mondo degli eventi e dell'esperienza a comprendere l'inerenza necessaria fra il soggetto e il predicato, quale essa appare invece sempre alla mente infinita di Dio. Gli sviluppi metafisici della filosofia di Leibniz trovano in tali assunti logici, nonché in quelli fisici già ricordati, la loro spiegazione: in particolare è la relazione logica di inerenza fra il predicato e il soggetto a giustificare la tesi metafisica per cui ogni sostanza contiene in sé nella forma della rappresentazione tutto l'universo e non interagisce con le altre sostanze. Gradualmente, Leibniz giunge alla convinzione che i primi principi della realtà non sono esperibili fisicamente, ma sono al contrario del tutto semplici, assolutamente inestesi ed estranei alle determinazioni spazio-temporali: forze che nello spazio si manifestano, ma che non gli appartengono e che non sono conoscibili sulla base di esso, fondamenti della realtà fisica, ma non di ordine fisico, bensì metafisico: le monadi, che non costituiscono la materia, ma che ne sono il fondamento metafisico: "centri di forza", che vanno ben distinti dagli "atomi" delle dottrine atomiche tradizionali. Queste monadi, vere e proprie "sostanze individuali", fondamento non solo dell'essere del mondo fisico, ma anche del suo ordine logico e razionale, sono enti assolutamente semplici e singoli, "centri di rappresentazione" in cui è contenuto tutto l'universo, ma appunto sotto forma di rappresentazione, cioè in relazione alla singola monade: sicché, pur nella loro singolarità, è data fra le monadi una relazione, che consiste nell'esser ciascuna rappresentazione di tutte le altre; un insieme, quindi, di "rappresentazioni reciproche", anche se, come dice Leibniz, "le monadi non hanno finestre", cioè non è possibile fra di esse alcun altro tipo di relazione. Alla delineazione completa di questa sua teoria Leibniz dedicò un'opera breve e tarda, la Monadologie (1714): ma essa compare, sia pure in forma meno esplicita e tematica, in quasi tutte le altre sue opere di metafisica, anche anteriori, quasi mai però da lui direttamente pubblicate, ma rimaste per lo più allo stato di saggi o di opuscoli preparatori (grande, ancor oggi, è la massa degli inediti: articoli, lettere, appunti). Alla dottrina delle monadi è strettamente legata, nel pensiero di Leibniz, la sua dottrina della conoscenza. L'universo è tutto contenuto in ogni sostanza individuale o monade, nella forma della rappresentazione: ma questa rappresentazione non è sempre e immediatamente chiara ed evidente, bensì vi è nella monade un divenire, un movimento dall'oscurità alla chiarezza o, come dice Leibniz, dalla semplice "percezione" all'"appercezione", o "coscienza della percezione" (è la dottrina delle "piccole percezioni", le quali, pur entrando a costituire le percezioni maggiori, non sono di per sé chiare). La capacità di "appercepire" è propriamente ciò che distingue, per Leibniz, un intelletto razionale dalla pura sensibilità animale e dalla materia bruta; e in ogni organismo, quale centro superiore di riferimento, regna appunto una "monade dominante", che nell'uomo è l'anima. Con questo, Leibniz pensa di aver anche risolto la spinosa questione che si presenta circa la possibilità che la materia bruta e incosciente abbia alla sua base centri di rappresentazione: in essa, semplicemente, la "percezione" non è giunta né può giungere all'"appercezione". E insieme appare a Leibniz risolto l'arduo problema - divenuto dominante dopo Cartesio - del rapporto fra psichicità e materialità: risoluzione tuttavia che il suo sistema non può realizzare appieno, sì che egli stesso è costretto a ricorrere alla dottrina teologica dell'armonia prestabilita, posta da Dio fra anima e corpo, fra spirito (le monadi come centri di rappresentazione) e natura fisica, nonché fra le infinite monadi raccolte in un unico sistema di relazioni reciproche fondate dalla monade suprema che è Dio. Qui s'innesta il discorso più propriamente teologico di Leibniz, da lui sviluppato particolarmente in opere come gli Essais de théodicée (1710) e i Principes de la nature et de la grâce (1714). Questo discorso muove dall'assunto fondamentale che la realtà nel suo complesso sia razionale, e possa quindi essere conosciuta dalla ragione. La realtà è il mondo concreto in cui viviamo: ed essa è creazione di Dio, che ha in sé infinite possibilità di attuazione della sua volontà nella creazione di un mondo e che, fra tutte queste infinite possibilità primigenie contenute nella sua mente, ha scelto questo mondo, liberamente, come "il migliore dei mondi possibili". L'ottimismo di fondo della concezione del mondo leibniziana emerge nel modo più vivo da questa sua conclusione; e viene riaffermato là dove Leibniz, costretto dall'evidenza a meditare sull'effettiva presenza del male nel mondo - presenza che sembrerebbe a tutta prima incrinare il suo "ottimismo metafisico" -, tenta nella teodicea (Essais de théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine du mal, 1710) la soluzione di questo problema giungendo all'idea che il male non è creazione di Dio, ma qualcosa che è da Lui permesso, in quanto un mondo perfetto e privo di male non sarebbe stato veramente un mondo, ma una reduplicazione di Dio. La presenza del male è dunque direttamente relativa, per Leibniz, al concetto stesso di "creatura": ma, in ogni caso, la scelta di Dio è stata tale che il male esistente è il "minore possibile". Tali concezioni leibniziane aprono il varco a numerose aporie e difficoltà sul concetto di libertà divina e sul problema della contingenza e della libertà umana. Per quanto riguarda la volontà divina, Leibniz, in base alla fondamentale distinzione da lui operata fra "verità di ragione" e "verità di fatto", le prime relative alle leggi eterne della matematica e della logica, e le seconde invece riguardanti i singoli e contingenti avvenimenti mondani, afferma che le verità di ragione non dipendono dalla volontà di Dio, ma hanno valore in sé, immutabili ed eterne, e che lo stesso Dio, nel creare il mondo, non può che riferirsi a esse. Così le "verità di ragione" sono anche quei rapporti eternamente sussistenti secondo cui si muove e opera l'intelletto umano, e che a esso sono innati (Nouveaux essais sur l'entendement humain, postumo, 1765): il loro principio fondamentale è di non-contraddizione (che distingue il possibile dall'impossibile), mentre il principio basilare delle "verità di fatto" è quello di ragion sufficiente, che distingue l'esistenza reale dalla semplice possibilità. Pur fra alcune contraddizioni e debolezze, in parte realmente presenti nella filosofia leibniziana e dovute tanto al suo spirito conciliante quanto alla mancanza di una sistemazione completa da parte del suo autore, ma dipendenti anche dal fatto che molti suoi scritti devono ancora essere riscoperti e studiati, il suo pensiero non mancò di esercitare un influsso vasto e profondo su tutta la filosofia posteriore, tedesca ed europea; e le sue conquiste scientifiche e matematiche restano incancellabili e decisive. Per quasi un secolo il panorama filosofico tedesco "ufficiale" restò saldamente ancorato al pensiero di Leibniz, che ha trovato in C. Wolff e nella sua scuola interpreti e continuatori fedeli anche se in forma scolastica e spesso rigida e chiusa. Kant ne ha trattato nella sua "filosofia critica", Voltaire ne ha confutato l'ottimismo; gran parte dello "spiritualismo" europeo ha guardato, con manifesta simpatia, a Leibniz quando si è trattato di confutare il pensiero hegeliano: fra le maggiori eredità di Leibniz restano infatti la rivendicazione e la fondazione metafisica del concetto di "sostanza individuale". Altre opere: Meditationes de cognitione, veritate et ideis (1684), Système de Méthaphysique (1686), Système nouveau de la nature (1695).

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