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Vecchio 15-03-2007, 08.59.26   #11
MAGDA
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Riferimento: Genesi: ...e il settimo giorno?

Citazione:
Originalmente inviato da paperapersa
La preghiera rimane bellissima perchè ci è stata consegnata da Gesù Cristro e tuttavia c'è una grandissima differenza fra questa che è la forma più usuale di richiesta, di orazione per ottenere
e quella proposta che è anche la mia versione in cui c'è la piena fiducia e la
sicurezza che tutto nel dirlo si compie: Non dacci ma tu ci dai sempre
non venga ma il tuo Regno viene e si realizza qui ed ora sulla terra come in cielo, tu ci rimetti i debiti sempre ogni volta che noi ci perdoniamo e perdoniamo e quindi noi non chiediamo ma affermiamo....
ed infine tu non induci i tuoi figli in tentazione ma li liberi dal male.
Noti ora la differenza???


Grazie.....ora mi è più chiara la differenza.
MAGDA is offline  
Vecchio 15-03-2007, 09.16.49   #12
MAGDA
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Riferimento: Genesi: ...e il settimo giorno?

Citazione:
Originalmente inviato da paperapersa
e se invece il settimo giorno deve ancora venire?
e se invece la creazione è sempre in atto? un processo che finirà
quando tutti entreremo nel Gran Riposo di cui parla in altri passi la Bibbia e il Nuovo Testamento? (Non entreranno nel Gran Riposo......)
Se così fosse siamo solo all'inizio di un lungo periodo evolutivo che porterà....dove?


Io penso che la creazione, si sia completata con l' uomo. Da questo momento, Dio lo ha fatto " signore e padrone ", attraverso il libero arbitrio,
della Terra e della propria esistenza.
Mi spiace contraddirti, ma in questo caso, l' interpretazione del settimo giorno, va inquadrata nell' ambito che ho descritto.
Spesso, noi uomini..... amiamo argomentare, fantasticare, ipotizzare soluzioni
complicate.... ostinandoci nel voler ricercare chissa' che cosa, quando la verità è permeata di cose semplici e fatte con il cuore.
MAGDA is offline  
Vecchio 15-03-2007, 11.29.36   #13
visechi
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Riferimento: Genesi: ...e il settimo giorno?

1 Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2 Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. 3 Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. 4 Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.


Credo che la consacrazione del settimo giorno abbia un significato ben più profondo rispetto alla semplicistica necessità di assicurare alla creatura – direi alla Creazione tutta - un tempo al riposo dalle fatiche. In effetti, se letta attentamente, Genesi fornisce una chiave di lettura ben diversa. L’uomo, prima del peccato, non era soggetto a fatiche fisiche, queste furono comminate da Dio solo successivamente ed in conseguenza della disubbidienza di Adamo ed Eva. Genesi 3: 17-19 racconta del castigo divino conseguente al peccato d’origine: «17 All'uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare,
maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.
18 Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l'erba campestre.
19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!».


E’ chiaro che nel comminare il castigo all’uomo, Dio intese estendere la punizione all’intera progenie umana. Se quindi la fatica fisica fa la sua comparsa solo in un momento successivo rispetto al peccato, cosa significa il riposo del settimo giorno? Inammissibile pensare che Dio avvertisse la necessità di trovar ristoro da una sua fatica. Il termine fatica, in riferimento a Dio, è utilizzato in chiave allegorica, solo per significare il compimento di un atto concreto. Allora non può che essere rivolto alla Creazione o alla creatura. La consacrazione del settimo giorno non assume qui il significato di tempo di ristoro, ma Dio stabilì che questo giorno fosse a Lui dedicato. Il termine sacro è di derivazione indeuropea e significa ‘separato’; ovverosia il sacro è un ambito ben distinto e ‘separato’ da quello profano, il cui significato etimologico stà ad indicare qualcosa che ‘sta’ al di fuori’, che ‘non è all’interno’. La dimensione umana, quella quotidiana, è sostanzialmente una dimensione profana, cioè che è fuori e separata da quella divina. Consacrare qualcosa o qualcuno significa far entrare nell’ordine del sacro, quindi immettere nella sua area o sfera d’influenza, più specificamente ‘comunicare’ le due dimensioni. L’aver voluto statuire che il settimo giorno sia il tempo dedicato al sacro, evidenzia la necessità che la Creazione destini parte del proprio tempo alla comunicazione con il Creatore. In Esodo è sancita con chiarezza la consacrazione a Dio del sabato, che è segno e cifra del particolare rapporto fra il Creatore e il suo popolo: «12 Il Signore disse a Mosè: 13 «Quanto a te, parla agli Israeliti e riferisci loro: In tutto dovrete osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno tra me e voi, per le vostre generazioni, perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. 14 Osserverete dunque il sabato, perché lo dovete ritenere santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno farà qualche lavoro, sarà eliminato dal suo popolo. 15 Durante sei giorni si lavori, ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro di sabato sarà messo a morte. 16 Gli Israeliti osserveranno il sabato, festeggiando il sabato nelle loro generazioni come un'alleanza perenne. 17 Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti, perché il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo ha cessato e si è riposato».

Il sacro, soprattutto nell’Antico Testamento, assume le connotazioni di una dimensione ove si scatenano forze disgreganti, terrifiche, ciò fin dall’epoca della Grecia Classica ma anche in tempi ben più remoti. L’intera spiritualità Egizia, quella babilonese, le spiritualità primitive (nel senso di originarie o delle origini) delle culture precolombiane recano in sé questa concezione. La stessa Bibbia, nel racconto del Sinai – il Dio del roveto – evidenzia questo aspetto: il volto di Dio non può essere visto, la finitudine umana non ne reggerebbe la terribile forza e l’uomo perirebbe: «19Rispose: "Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia". 20Soggiunse: "Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo". 21Aggiunse il Signore: "Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere"».
Anche l’intera disputa fra Giobbe e Dio, soprattutto la teofania, è testimonianza di questa terribile potenza insita nel sacro. Il sacro è dimensione divina ove sono racchiuse le potenze e i misteri divini, entrarvi in contatto senza particolarissimi accorgimenti rituali comporta l’esposizione ad un rischio tremendo, per questo motivo la ‘manipolazione’ del sacro era attribuita a specifiche caste sacerdotali; la religione, che significa recingere, con le sue particolarissime e complesse pratiche rituali, garantisce tanto il contatto e al tempo stesso ne preserva la separazione, tenendo così in sé raccolta l’area del sacro, in modo che non vi sia una sua espansione salvaguardandone così anche l’inaccessibilità.
visechi is offline  
Vecchio 15-03-2007, 11.30.15   #14
visechi
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Riferimento: Genesi: ...e il settimo giorno?

«Non c’indurre in tentazione»
Non so quale delle due versioni del credo Cristiano sia la più corretta. Matteo 6 riporta la versione sopra evidenziata. Il fatto poco mi sorprende, propenderei per questa versione, anche se la sua interpretazione può essere poco gradita ai più. I Vangeli, almeno per quel che consta al cristianesimo, s’innestano, senza soluzione di continuità, nella tradizione giudaica, e quindi attingono da essa; sono così da leggere alla luce del complesso pensiero spirituale del tempo che li precedette e li influenzò. L’antico Testamento è ricco d’episodi che raccontano della tentazione cui il Creatore sottopone l’uomo: val la pena ricordare la tentazione di Abramo, quella cui sottopose Giobbe, anche Genesi racconta della primissima tentazione dell’uomo Adamo; neppure i Vangeli sono esenti da istigazioni al peccato cui Dio non può essere estraneo: le tentazioni di Cristo nel deserto (sempre in Matteo 4, e non si tratta di un caso) ne rappresentano un evidente esempio, la tentazione sulla croce, quando uno dei due ladroni lo esorta a liberarsi dai chiodi. La tentazione è allora uno strumento utilizzato da Dio per perseguire un Suo particolare disegno, a noi del tutto sconosciuto, che coinvolge il singolo uomo o l’umanità tutta. La preghiera insegnataci da Gesù è un’invocazione rivolta a Dio affinché ci preservi dalla tentazione, perché, coscienti della nostra limitatezza e della nostra debolezza, abbiamo il fondato sospetto che in essa potremmo cadere. Ciò rende palese anche un altro ordine di considerazioni: il peccato o il male non sono resi concreti e reali in conseguenza delle scelte dell’uomo, ma sono due entità o dimensioni ben presenti nella vita e nel creato, ci avvolgono, la nostra esistenza è un continuo lambirne e violarne i limiti, le nostre determinazioni c’introducono in questa funesta dimensione. A tal proposito, credo che una digressione letteraria spieghi meglio di mille arzigogoli mentali quanto il peccato e il male possano essere intesi come una dimensione a sé stante parallela e con-fusa con la realtà quotidiana. Val la pena, dunque, riprendere i versi di Dante, l’incipit della sua memorabile ‘Comedia’:

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Il ‘ché’ dantesco è stato scaturigine di mille interrogazioni e dubbi, può essere tradotto con ‘poiché’, quindi assumerebbe valore causale, oppure con ‘cosicché’, con valenza determinativa. Vediamo le due diverse interpretazioni possibili.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
(poi)ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!


Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
(cosic)ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!


Ogni qualvolta si legge qualcosa è necessario porsi la domanda: <<che ci ha voluto dire il suo autore?>>. Anche questi versi non si sottraggono alla regola che dovrebbe informare ogni corretta interpretazione di uno scritto.
Analizzando i versi appare subito evidente che il poeta descrive una condizione: egli si trova smarrito all’interno di una ‘selva oscura’. Cosa sia questa selva oscura è abbastanza noto e chiaro, Si tratta, evidentemente, di un’allegoria che descrive l’antro dell’Inferno, cioè l’antro del ‘Male’.
Proseguendo: se il primo periodo e di semplice lettura, perché vuol significare “più o meno a metà dell’ipotetica età raggiungibile da un uomo contemporaneo dell’epoca di Dante”, i problemi, per un occhio attento, dovrebbero sorgere di fronte alla particella ‘ché’. Io ho suggerito due possibili chiavi di lettura che, fra l’altro, sono quelle che hanno innescato una disputa letteraria, ma non solo, tale disputa ne ha suscitato altre sia in ambito filosofico sia teologico. Il motivo è semplice.

Se il ‘ché’ dantesco dovesse essere tradotto in ‘poiché’, quella descritta sarebbe una situazione conseguente ad un evento che l’avrebbe determinata. Ovverosia, “nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai in una selva oscura in conseguenza del fatto che ebbi smarrito la diritta via, cioè poiché caddi nel peccato”. Quindi peccai e mi ritrovai preda del ‘Male’. Il male sarebbe, in questa concezione, scaturito da un atto o da comportamenti che, appunto, lo porrebbero in essere. Il male sarebbe dunque conseguenza del peccare, dell’errare di ciascuno di noi. Ciò dà luogo all’insorgere di una precisa e diretta responsabilità in capo all’uomo e al suo agire.

Viceversa, ritenere che il ‘ché’ dantesco sia traducibile con ‘cosicché’, postula che la diritta via fu smarrita a seguito del mio penetrare nell’antro del Male. Il verso dovrebbe essere letto nel modo seguente: “Nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai smarrito all’interno di una selva oscura, cosicché perdetti la diritta via, cioè peccai”. Quindi, pare evidente, che in questo secondo caso il Male sia inteso come una forza immanente, non posta in essere dal nostro contegno, ma entro cui, vivendo, è possibile precipitare, e questo accadimento determina il nostro peccare. Ovverosia, per dirla meglio, il peccare è conseguenza dello sperdersi fra i labirintici meandri di un male immanente. Ciò assolve l’azione dell’uomo.

Le due concezioni sono abbastanza antitetiche e innescano, come ben intuibile, divergenti punti di vista teologici e filosofici. Evocano entrambe il soffertissimo incipit della Bibbia: <<In principio Dio….>>.

Ciao
visechi is offline  
Vecchio 15-03-2007, 18.33.19   #15
Brucus
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Riferimento: Genesi: ...e il settimo giorno?

Citazione:
Originalmente inviato da paperapersa
...c'è una grandissima differenza fra questa [...]
e quella proposta che è anche la mia versione. Noti ora la differenza???

Insomma, il Vangelo come un divino menù à la carte dove si può scegliere la versione o interpretazione che più piace, non importa che ci siano grandi differenze. Non è una critica a Paperapersa, ma qualcosa che è sempre successo con i testi sacri, tra traslitterazioni, traduzioni, interpretazioni delle traduzioni, traduzioni delle interpretazioni, compromessi, manomissioni, concili, errori in ogni passaggio, ecc., ecc. C'è da chiedersi se resti qualche traccia che rispecchi fedelmente il messaggio e la vita del Messia.


Citazione:
Originalmente inviato da visechi
«Non c’indurre in tentazione» [...] La tentazione è allora uno strumento utilizzato da Dio per perseguire un Suo particolare disegno...

Ci sono molti dibattiti e discussioni su questo punto, infatti il verbo 'indurre' non lascia dubbi, il suo significato è chiarissimo. Malgrado questo, alcuni teologi insistono in malabarismi e forzature linguistiche per sostenere che quella frase sta a indicare che non è Dio che induce in tentazione, ma il maligno. Ma tutto questo avviene solo nella versione ufficiale italiana, che è una traduzione abbastanza corretta del testo originale in greco di Matteo: "Kai me' eisenenken emas eis peirasmon".

Nella versione spagnola (la mia madrelingua, perciò sempre ho notato questa differenza) sono stati molto più pratici e hanno evitato ogni tipo di discussione adottando questa versione:

"Y no nos dejes caer en la tentaciòn y lìbranos del mal"

che tradotto letteralmente significa:

e non lasciarci cadere in tentazione e liberaci dal male...

Quindi nella versione italiana il 'tentatore' è Dio stesso, mentre in quella spagnola, molto simile all'inglese, il tentatore è Satana. Ecco una forma di manipolazione grossolana per evitare domande scomode. Se questo succede nell'attualità, cosa non sarà successo in questi 2000 anni!!!
Brucus is offline  
Vecchio 19-03-2007, 08.47.27   #16
MAGDA
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Riferimento: Genesi: ...e il settimo giorno?

Citazione:
Originalmente inviato da visechi
E’ chiaro che nel comminare il castigo all’uomo, Dio intese estendere la punizione all’intera progenie umana. Se quindi la fatica fisica fa la sua comparsa solo in un momento successivo rispetto al peccato, cosa significa il riposo del settimo giorno? Inammissibile pensare che Dio avvertisse la necessità di trovar ristoro da una sua fatica. Il termine fatica, in riferimento a Dio, è utilizzato in chiave allegorica, solo per significare il compimento di un atto concreto. Allora non può che essere rivolto alla Creazione o alla creatura. La consacrazione del settimo giorno non assume qui il significato di tempo di ristoro, ma Dio stabilì che questo giorno fosse a Lui dedicato.

La fatica fa la sua comparsa solo dopo il peccato dell' uomo, quindi giustamente ti chiedi, se il significato del settimo giorno, può in qualche modo, ricollegarsi a questo concetto.... a mio parere, la risposta la si può trovare nelle parole di Sant' Agostino, che sostiene l' onniscienza di Dio; il Creatore conosce in anticipo le scelte dell' uomo e non interviene per lasciare all' uomo, la possibilità di autodeterminarsi. Quindi io, non escluderei, anche l' interpretazione del riposo del settimo giorno, visto in funzione dell' uomo, come riposo dalle fatiche quotidiane e in funzione di Dio, come giorno da consacrare al Signore. Perchè escludere una correlazione fra le due cose.....
in fondo l' uomo è anche un concentrato di spiritualità e materialità, fusi armonicamente fra loro ,che ritroviamo nel concetto di anima e corpo.
MAGDA is offline  

 



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