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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 4 - Ipotesi per una corretta individualità

Paragrafo 6 - La difficoltà di accettare l’idea che la religione sia una risposta errata della razionalità all’esigenza di autentica socialità, che è la sola “spiritualità” possibile.

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Fondamentalmente, le religioni hanno costruito la propria solida impalcatura sull’introduzione sapiente di elementi fantastici e mitologici nella realtà. La combinazione che così ne deriva è quasi sempre una combinazione accettabile, verosimile, che è in grado di “completare” una realtà altrimenti arida e incompleta. La religione cerca di dare un senso soddisfacente che un semplice materialismo, un mero edonismo non può assolutamente dare.
Abbiamo sottolineato che la razionalità non è stata in grado di cogliere la natura sostanzialmente indeterminata e illimitata dell’individuo, ma ha preteso di racchiuderla in una forma ristretta e limitata.  Se la razionalità si fosse limitata a ciò, come ha anche tentato di fare con i pochi ateismi e materialismi, avrebbe provocato una reazione insostenibile da parte dell’emotività che non può accettare che si giunga ad una simile conclusione. Ed infatti dove si è tentata un’operazione del genere, con un ateismo e un  materialismo concettualizzati alla stregua di un puro egoismo,  la reazione dell’emotività è stata così potente che ha preteso e ottenuto che la razionalità completasse in qualche modo la sua interpretazione della realtà. Ovviamente, non essendo in grado di completarla con un’autentica socialità razionale, ha dovuto completarla in modo posticcio, arrabattato, coniando una spiritualità in grado di accordarsi con un’ulteriore crescita soggettiva dell’individualità. Questo lo abbiamo già sostenuto, ma è meglio ripeterlo, perché se vogliamo riprenderci il destino che ci compete dobbiamo avere la forza di buttare giù tutti i “vitelli d’oro”  che la cultura umana ha posto in opera.
Dicevamo. Tutte le religioni “prevedono” una soluzione per l’interruzione che la razionalità è in grado di cogliere nella filogenesi, passando l’essere vivente da un’ontogenesi all’altra. La soluzione, come ben si sa, è stata trovata in un apparente prolungamento spirituale della vita, nell’ipotesi di un sostrato, di un’anima che starebbe in qualsiasi corpo umano,  responsabile della sua consapevolezza.  L’anima non morirebbe! Se ce ne convinciamo allora possiamo allontanare definitivamente l’angoscia per quel baratro che prima o poi ognuno sa di dover incontrare sul proprio cammino e che,  altrimenti,  crederemmo capace di spedirci nel nulla. In realtà esso ci spedisce semplicemente nel nulla della conoscenza razionale e non nel nulla della vita. Probabilmente fra qualche anno, quando saremo diventati più maturi,  sarà più facile convincerci di questo che non del fatto che possediamo un’anima fatta con una sostanza diversa dal corpo: una rex cogitans. Per il momento però il problema esiste e bisogna capire come uscirne. Non si può semplicemente sostenere che sono tutte fantasie.  Bisogna arrivare ad interpretare correttamente il substrato su cui va ad agire la razionalità. L’interpretazione corretta è che la conoscenza emotiva, attraverso la prole, è in grado, già da sempre, di superare agevolmente la barriera della morte. In verità la morte non è neppure più in grado di spedirci nel nulla della conoscenza razionale, poiché prima con la parola e poi con la scrittura anche, la conoscenza razionale, ha trovato il  modo di portarsi oltre questa barriera che un tempo era effettivamente insuperabile. Nonostante questo la paura è rimasta la stessa dell’antichità, scomparire per sempre, come se non si fosse mai esistiti, perché noi in fondo potremmo considerarci “conoscenza”, un tempo solo emotiva, oggi anche razionale. Oggi, nessun tipo di conoscenza scompare del tutto e quindi ognuno di noi può fare in modo di non scomparire completamente. L’eternità lineare riflette il desiderio presente in ognuno di noi di sfruttare le possibilità per superare con tutto se stesso le barriere temporali, sia che esse tentino di “filtrare” l’ontogenesi che la filogenesi, sia l’emotività che la razionalità. Ma l’eternità lineare non rientra nel novero delle nostre possibilità soggettive ma in quelle individuali si, per quanto siamo ancora un abbozzo di umanità. L’umanità è in grado di superare agevolmente le barriere del tempo, almeno fino a quanto il nostro disgraziato destino non l’avrà disgregata completamente.
Uno degli scopi delle religioni è senz’altro quello di evitare che questa catastrofe si realizzi compiutamente. Essendo le religioni costruite da uomini, quelli più sensibili hanno compreso da tempo che, comunque, la divinità dobbiamo riuscire a trovarla nell’uomo stesso e, soprattutto negli altri, perché solo in questo modo ritroviamo il nostro destino naturale. Si sa che questa rivoluzione ha avuto le sue massime teorizzazioni soprattutto nel Cristaniesimo e nel Buddismo, meno nelle altre, dove ha continuato a prevalere un rapporto con la divinità, con il sacro. Nel buddismo, poi, rispetto all’induismo da cui deriva, la divinità si è venuta quasi tutta a  trasformare nell’umano. Lo sforzo di ogni religione dovrebbe essere quello di tendere verso questo obiettivo: togliere per quanto più possibile gli elementi fantastici oramai del tutto desueti e puntare sulla realizzazione di un’umanità facendo da soli, affidandoci ad una razionalità capace di investire sui legami con gli altri.
E’ l’unico modo per trasfigurare le attuali religioni in un movimento universale che ci riporti a riprendere il processo di umanizzazione, di socializzazione autentica, che da un bel po’ di tempo si è arrestato. E’ l’unico modo per far si che l’attuale “massa solitaria”, come l’ha chiamata  un noto sociologo con un’efficace ossimoro, l’insieme degli esseri umani diventi una struttura unitaria, capace di proteggerci e di valorizzarci.
Chi pensa di abolire le religioni con un sol colpo, di cancellarle dalla nostra mente con un colpo di spugna, sbaglia. Al loro posto resterebbe un cratere profondissimo, peggiore di quello che provocherebbe la più potente delle deflagrazioni atomiche. Sarebbe assurdo e inopportuno insistere nel proclamare su due piedi la morte di Dio.
Se facessimo morire tutti gli dei non cancelleremmo il problema di riuscire individuare un senso soddisfacente per il nostro esistere. E’ sull’individuazione di questo che bisogna puntare. Dopodiché tutte le divinità di oggi potranno trasformarsi dolcemente nell’unica divinità che dovremmo tenere in considerazione: l’umanità unitaria, fatta di individuo equilibrati e per questo capaci di saldarsi efficacemente tra loro.
Se non si mette in moto un processo capace di trasformare l’uomo, la sua psicologia, tutto il sistema messo in piedi dalla razionalità crollerebbe immediatamente con profonde ripercussioni sulla nostra psiche. Dostoevskij ha ragione nel sostenere che se Dio muore tutto è permesso, solo se il suo posto non viene preso da null’altro, diventando così terreno fertile per far crescere ulteriormente l’egoismo, l’assenza totale di regole, di legami. In questo caso effettivamente il non-senso dilagherebbe senza più alcuna diga, lasciandoci senza più protezione alcuna.
Se però il Dio morente lascia in eredità agli uomini una socialità degna di questo nome, una socialità capace di puntare ad un essere autopoietico di terzo ordine, la gioia potrebbe inondare i cuori di tutti, dei più umili come dei più potenti.
Dio è oggi un’idea che dovrebbe assolvere a questo compito, ma purtroppo, lo assolve in modo disastroso in quanto finisce per avallare un egoismo sempre più marcato, servendosi di maschere di bontà che non possono cambiare  il sottostante volto sfigurato.
Anche se oggi ci sono sempre meno persone disposte ad essere i creduloni di un tempo,  resta purtroppo ancora salda l’idea che la religione possa essere un’insieme di verità, di norme rivelate, dateci da una conoscenza superiore che, contrariamente a noi, saprebbe come stanno  effettivamente le cose.
Chi non riesce proprio a credere nella divinità, oggi sta spostando le proprie convinzioni, la propria fede, verso la possibilità che creature extraterrestri ci possano contattare e indirizzarci ad azioni  meritorie. Sicuramente possiamo sostenere che la conoscenza, ciò che siamo, non è sicuramente un’entità stabilizzata e definitiva. Noi mutiamo perché la conoscenza è in grado di mutare. Se fossimo rimaste la conoscenza espressa dalla singola cellula  di ieri sapremmo sicuramente meno cose di quanto ne sappiamo oggi. Trasfigurandoci in una società potremmo però riuscire a “saperne” molto più di oggi. La società degli scienziati ce lo dimostrerebbe in modo inconfutabile. Non che uno scienziato di oggi non possa essere un egoista nella sua vita privata. In quella pubblica però ha davvero poche possibilità di mentire, e se lo fa, se bluffa, viene prima o poi smascherato.
Con una socialità razionale corretta messa al posto di qualunque Dio noi possiamo aspirare davvero a nuova vita, a risorgere per l’eternità.
Se oggi fossimo capaci di calarci in una situazione del genere, di cogliere la bellezza e la gradevolezza di diventare dei potentissimi  neuroni capaci di tenere relazioni con gli altri, capaci ognuno di formare un hub (1) per la costruzione di una nuova realtà, non credo che potremmo avere il minimo dubbio sul da farsi. Punteremmo tutto sulla ristrutturazione interiore dell’individualità e su una spiritualità in grado in futuro di materializzarsi,  di diventare visibile, concreta. Più ci “ingrandiamo” come possibilità conoscitiva e più aumentiamo i nodi, le articolazioni della realtà che possiamo utilizzare, manipolare. Una società autentica è sicuramente in grado di conoscere meglio e non solo di sapere di più come accade con una società non autentica come l’attuale, dove ognuno è convinto che basti solo preoccuparsi dei propri interessi. Se gli uomini, dal più umile e povero al più potente e ricco, non comprendono la necessità di fondersi in una struttura unitaria, attraverso un processo storico che li tuteli come soggettività e sia, in questa maniera, davvero democratico, non sono che “cose” destinate a scomparire prima o poi dalla scena della vita. Non ci si continui ad illudere di potersi tutelare convenientemente con la ricchezza e il potere! Per la vita stiamo diventando immondizia che prima o poi dovrà essere depositata in un cestino.
Se la falsa socialità dovrebbe necessariamente sparire dalle nostre esistenze, le religioni dovrebbero invece tendere verso una completa ristrutturazione poiché il loro scopo esplicito non è assecondare la soggettività, l’egoismo, ma combatterlo. Il loro scopo è permettere all’amore di potersi esprimere nella maniera più ampia possibile. E per ottenere ciò non ci si può più accontentare della socialità emotiva che oggi è diventata una conoscenza debole. Occorre affidarsi alla conoscenza razionale, che però, per funzionare bene, deve riuscire a fare a meno degli elementi puramente fantastici.  Perché continuando a mischiare possibilità effettivamente possibili e possibilità assolutamente improbabili non si riuscirà mai a vedere chiaramente la strada da percorrere.
Non possiamo accontentarci di alcun compromesso! Neppure di quello Kantiano che dopo aver fatto uscire Dio dalla porta sostenendo con validi argomenti che non v’è alcun modo per la ragion pura di dimostrare la sua esistenza,  lo fa poi rientrare dalla finestra postulando la sua necessità pratica; argomentando soprattutto che il senso di giustizia interiore dell’uomo può essere soddisfatto solo in una eventuale vita dopo la morte. Per la nostra ragion pratica, secondo Kant,  Dio diventa, così,  necessario e insostituibile.
Non è questa una strada che possiamo continuare a percorrere!
Il nostro senso di giustizia può essere benissimo soddisfatto con una democrazia fondata su una socialità autentica che si ponga come obiettivo la realizzazione di un essere autopoietico superiore, perché la possibilità di realizzare una tale unità dipende proprio dal senso di giustizia che ognuno riesce a realizzare mettendo in equilibrio la propria soggettività con la propria socialità. L’alternativa, quindi,  può essere benissimo costituita da un percorso tutto terreno: basta saperlo individuare e perseguire.
Dobbiamo riuscire a convincerci non solo, come sostiene Le Deux, che noi siamo le nostre sinapsi ma che noi stessi, attraverso il dialogo, siamo in grado di costruire le sinapsi di una nuova creatura super-individuale.
Se anche Dio ci fosse, ma come sembra non vuole mostrarsi, vuole farci fare da soli, allora che se ne stia davvero in disparte: le capacità per camminare con le nostre gambe, le abbiamo, soprattutto ora che abbiamo delle splendide gambe che ci consentono di camminare anche nella dimensione temporale. Cosa esattamente voglio dire con ciò lo vedremo meglio nel prossimo capitolo.
Se ieri un’alternativa seria all’egoismo su questa terra non sembrava proponibile e bisognava ricorrere all’idea di un altro mondo, di un Paradiso, di un Iperuranio, per completare il cerchio, oggi basta introdurre una semplice, schietta, naturale idea di socialità autentica per chiudere il cerchio ed assaporare il gusto di una vita nuova.
La frammentazione del mondo può essere di nuovo ricomposta efficacemente per soddisfare quell’esigenza di unione, di amore, che è la chiave di una vera evoluzione,  di un effettivo progresso.
Se la frammentazione rimane e continuiamo a considerarla una realtà immodificabile il bisogno di approdare ad una nuova individualità e, quindi, ad una nuova società non riuscirà mai ad accendersi. Dio rimane allora una necessità insostituibile. E la nostra religiosità naturale, che corrisponde ad un  bisogno di socialità autentica, non riuscirà  mai ad emergere fino in fondo alla consapevolezza.
Se proprio la parola  “ateo” ci fa paura poiché sembra ci privi della nostra religiosità naturale, che avvertiamo come una necessità insostituibile, possiamo sempre dare ascolto a Beltrand Russell che può consolarci con questo aforisma: vero ateo è solo colui che non crede nel sentimento. E credere nel sentimento significa, ovviamente, essere capaci di tradurre la loro bellezza nella loro utilità. Significa cogliere il sentimento come legame insostituibile con gli altri, con il mondo, con il tutto.
In questo caso il sentimento può diventare il nuovo Dio e non certo un Dio minore.
Solo togliendo Dio senza sostituirlo opportunamente si rischia di ritrovarsi con una baratro interiore che sarebbe impossibile da sopportare.
E’ sicuramente per questo motivo che molte persone non riescono a considerarsi autenticamente atee, pur essendo supportati da una fede per niente cieca e totale. Finché rimane Dio, il vuoto non riesce ad emergere, ad apparire, e si sposta sempre più in avanti il problema della completezza, che in una convinzione generale finisce per essere accettata.
Per molti Dio rappresenta anche quella responsabilità che dovremmo accollarci in prima persona, ma che preferiamo demandare a qualcun’altro. Responsabilità significa impegno, lavoro, chiarezza, che solo pochi riescono ad accollarsi perché in preda allo sconforto della solitudine, della limitatezza. Se si riuscisse nell’intento di iniziare anche con una piccolissima socialità razionale si potrebbero capire meglio le sue grande potenzialità per svilupparle sempre di più. Si riuscirebbe a capire che Dio è una reale necessità solo laddove manca l’amore, la realizzazione della nostra intima natura.
Anche se a volte si rileva uno scarto reale davvero minimo tra certi aspetti posti in essere dalle religioni e la socialità autentica, rimane comunque difficile per tutti compiere l’attraversamento di questo autentico Rubicone.
Forse lo si potrebbe mettere tra parentesi e congelarlo per un certo tempo, per il tempo sufficiente a provare sul serio l’alternativa di sostituire una sacralità “esterna”  con una “interna”.

Con questo scambio potremmo iniziare a mettere la parola fine all’insoluto problema di come valutare correttamente il Bene e il Male.
Infatti, dalla nostra ipotesi è facile derivarne il seguente corollario: dovrà essere considerata benevola  ogni azione che consente di realizzare l’essere autopoietico di terzo ordine, comprese quelle azioni che hanno il compito di salvaguardare l’esistenza di quelle di secondo ordine. Senza infatti una minima soggettività l’essere autopoietico di secondo ordine non esisterebbe e senza di esso neanche quello di terzo ordine. E’ infatti ipotizzabile un individuo pluricellulare senza le cellule?
Per contro, le azioni malevole saranno quelle che tenderanno a bloccare l’essere di secondo ordine in una situazione di eccessiva chiusura. Condizione questa di cui possiamo renderci conto per una cronica mancanza di gioia, anche se si rendesse possibile approdare a dei piaceri, anche intensi.
Ultimamente Marc D. Hauser, biologo dell’università di Harvard, ha avanzato l’ipotesi che gli individui nascano con una grammatica morale che l’evoluzione ha integrato nei loro circuiti nervosi. Egli scrive, inoltre, che alcuni giudizi morali sono comuni agli atei e ai fedeli di tutta una serie di credo religiosi. Sembrerebbe una conferma indiretta di quanto abbiamo finora sostenuto. Che la razionalità potrebbero essere apparsa sulla scena proprio per permettere all’uomo di diventare più morale, nel senso di trascendersi in un essere superiore, ma che per un incidente di percorso avrebbe invece innescato un processo involutivo facendoci collassare verso quell’essere inferiore che grazie alla conoscenza emotiva stavamo abbandonando. Un boomerang lanciato male che è ritornato su di noi colpendoci alla nuca e tramortendoci. Ora non ci resta che raccoglierlo e tentare di nuovo, imparare a lanciarlo con più maestria. Solo  così la razionalità ci sarà davvero utile.
E’ in questo modo che io stesso sto cercando di trasformare un’iniziale e giovanile religiosità educata al cristianesimo, in una  religiosità del sentimento, razionalizzato e indirizzato alla creazione di un’autentica società. Basta mettersi in testa di “trasformare” l’amore altruistico per l’altro, in un amore per la sintesi che possiamo realizzare con gli altri. Ovviamente, non basta per far questo una sola volontà: ce ne vogliono almeno due, per iniziare, e poter sperare che in seguito diventino tante.
Alla volontà occorre sommare il dialogo. Occorre che gli altri siano “visti” come esseri viventi dalla visuale limitata e circoscritta come la nostra. Solo così può nascere il rispetto necessario per iniziare nel modo corretto una vera fusione, e non una prevaricazione con conseguente sottomissione dell’uno o dell’altro.
Se non saremo in grado di considerare lo schema ideale a cui dovremmo tendere, per noi  non c’è salvezza: siamo destinati, prima o poi,  a sparire dalla scena come è accaduto per i dinosauri e per chissà quante altre specie. E’ solo questione di tempo.
Non lasciamoci, quindi, scoraggiare dalle difficoltà! Continuando a cercare una migliore verità, un nuovo senso per progettare le proprie azioni, si arriverà per trovarlo, se prima non sarà accaduto l’irreparabile.

Con la speranza di riuscire un giorno non troppo lontano a “maneggiare” con maggiore maestria la razionalità per ritrovare la nostra unità interna, cerchiamo ora di analizzare un utilizzo della razionalità come trasduttore, cioè come mezzo per mettere in comunicazione diretta le socialità emotive che con la razionalizzazione della mente, stanno sempre più abbandonando gli antichi mezzi di comunicazione come la mimica facciale, la postura del corpo ed altro ancora. Un utilizzo multimediale che possiamo condensare nella parola “arte”.

 

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Bibliografia

(1) Hub: termine inglese il cui significato letterale è mozzo, perno.
In informatica il compito del hub è quello di mettere in comunicazione le macchine per creare una rete.
Il termine è usato anche in senso figurato.

 

Questo saggio è un testo in fieri, l’autore offre ai lettori l’occasione di partecipare alla sua composizione e quindi al suo sviluppo. Per proporre correzioni, miglioramenti o altro, scrivere a suggerimenti@riflessioni.it verranno presi in considerazione solo scritti sostenuti da valide spiegazioni.

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