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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 5 - Ipotesi sulla conoscenza

Paragrafo 3 - Dagli esseri monocellulari all’individuo pluricellulare

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Una volta arrivati al nastro di partenza che segna l’inizio della storia dei primi esseri pluricellulari, ci coglie una domanda impellente: cosa può avere spinto delle cellule che avevano una vita propria ad associarsi, a mettersi insieme in una forma così vincolante come l’essere pluricellulare? Non avrebbero potuto semplicemente “collaborare” tra loro dando  vita solo a delle colonie, come d’altra parte avviene oggi per molti di loro?
Formulare una risposta a questa domanda sicuramente non è semplice.
Proviamo, comunque, ad azzardare un ragionamento, che come un valico impervio potrebbe portarci in una rigogliosa valle inesplorata.

Sicuramente gli esseri monocellulari più antichi, quelli che hanno anticipato le strutture degli individui pluricellulari e che sopravvivono ancora oggi con nomi come ameba, paramecio, ecc., erano già in grado di “catturare” delle perturbazioni esterne per utilizzarle come informazioni utili per originare un comportamento adeguato a mantenere e migliorare la propria omeostasi interna. A questo livello è evidente che non si può ancora parlare di conoscenza vera e propria ma di una pseudo-conoscenza, nota anche come chemiotassi, che comunque permetteva a quegli esseri semplici di mettere in relazione ambiente interno con quello esterno.
Nonostante, quindi, ci fossero già forme di conoscenza rudimentali in grado di assicurare tanto la sopravvivenza ontogenetica che filogenetica, la trasformazione verso forme più complesse quale sicuramente è un essere vivente pluricellulare ci potrebbe far supporre che l’individuo anelasse a dipendere meno dalle circostanze, dalla casualità, per diventare maggiormente artefice del proprio destino.
Per poter aumentare la propria sicurezza e stabilizzarsi maggiormente occorreva sicuramente procurarsi maggiori “informazioni” sull’ambiente esterno di quanto non era stato fino ad allora possibile, in maniera da trovarsi, attraverso la messa in opera di opportune azioni, sempre in un accoppiamento strutturale ottimale con esso. Ma in che modo ottenere queste maggiori informazioni sull’ambiente esterno? La domanda chiave sembrerebbe essere proprio questa.
L’ipotesi che si può prendere in considerazione non può essere che una: quei primitivi esseri unicellulari, nel duplicarsi per mitosi, invece di scindersi e staccarsi completamente in due esseri nettamente separati, come era sempre accaduto fino ad allora, siano rimasti legati tra loro, magari perché incorsi in un “errore” che potrebbe avere arrestato il processo un tantino prima del dovuto, o magari perché c’è stata una sorta di “volontarietà” a duplicarsi in quello specifico modo per poter diventare una “molteplicità” di possibilità conoscitive interconnesse. In questo caso il singolo individuo avrebbe potuto cominciare a contare sulla collaborazione di tanti “sé stesso” che potevano specializzarsi nell’acquisizione di perturbazioni varie: della stessa o  di una diversa natura.
Prendere in considerazione lo sviluppo di questa ipotesi da parte di un ancestrale essere unicellulare è qualcosa che possiamo permetterci solo se, come direbbe Dennet, rimaniamo consapevoli che andiamo a valutare la situazione  di allora tramite un “come se”, un “pensiero” cioè che è nelle nostre potenzialità di oggi, ma non nelle loro. In sostanza quell’antico essere unicellulare potrebbe avere agito “spinto” da un qualcosa che oggi noi abbiamo possibilità di razionalizzare nel modo ipotizzato.
Non possiamo sapere in che modo sono andate esattamente le cose, ma possiamo senz’altro ragionare su un’idea che potrebbe essersi effettivamente realizzata. Questa idea, lo ripetiamo, ipotizza che ad ogni singolo componente di questa nuova unità in formazione sia stata data la possibilità di “specializzarsi” nella cattura e archiviazione di singole perturbazioni, usando un proprio stato interno, con la possibilità di scambiarsele immettendole in un circuito comune, grazie alla possibilità di utilizzare (rimanendo attaccati tra di loro) un efficace dialogo.
In questo modo ogni singola cellula, grazie ad un interscambio di informazioni incrociate, avrebbe potuto concorrere, con il proprio stato interno, alla compilazione di una informazione complessa in grado di dare un maggiore significato ai dati provenienti dall’ambiente. Un’informazione più ricca di significato avrebbe sicuramente contribuito ad ottimizzare l’accoppiamento strutturale con l’ambiente.
Usando questa strategia, ogni singola cellula avrebbe potuto disporre, in pratica, come ogni altra,  dello stesso numero rilevante di informazioni ed essere  in grado di allineare tra loro le singole risposte e quindi di sommarle in un comportamento unitario. Da questa strategia potrebbero essere usciti fuori tutti gli esseri pluricellulari che conosciamo: dal più semplice al più complesso.
Un’idea che non sembrerebbe per niente assurda se si riflette sul fatto che dopotutto l’”ovulo fecondato” è pur sempre un essere unicellulare in grado di avviare un  processo di duplicazione che mantiene unite le cellule-figlie, le quali vanno così a comporre un individuo di nuovo genere: non più cioè unicellulare, ma pluricellulare.
In questo modo estremamente semplice ma efficace potrebbe essere iniziata la costruzione di quello che oggi ci appare un isomorfismo perfetto tra realtà interna all’individuo pluricellulare e quella esterna; fino a giungere a quello che è l’attuale mondo variegato che tutti noi conosciamo.
Ovviamente, c’è da sottolineare che il processo che avrebbe permesso di assemblare i primi esseri pluricellulari sarà stato sicuramente lungo ed impervio; le prime cellule avranno dovuto letteralmente “inventarsi”, partendo da zero,  il modo di costruire, con le nuove possibilità di cui ora disponevano, una realtà esterna.
All’inizio, le prime cellule che hanno iniziato a collaborare tra loro devono essere state sicuramente poche e anche “poco specializzate” nella cattura e archiviazione delle perturbazioni attraverso un loro univoco e preciso stato interno. Con il tempo, il loro numero e le loro possibilità devono essersi via via affinate sempre più, giungendo a quella cellula altamente specializzata che oggi chiamiamo “neurone”.
Possiamo così congetturare che il primo essere pluricellulare possa essere stato un primo rudimentale “cervello nella vasca” (ricorrendo al prestito della nota immagine di Putnam) proprio perché verosimilmente è da ipotizzare l’ambiente acquatico come sua prima collocazione ideale.
Guardando al suo probabile sviluppo si potrebbe, inoltre, sostenere che dall’iniziale associazione di cellule specializzate (solo) nella “conoscenza” dell’ambiente si sia  passati ad un associazionismo più variegato, con altre cellule che si sono andate specializzando in altri compiti. Se ammettiamo infatti che nell’iniziale brodo primordiale, ad un certo punto, non sia più stato possibile trovare di che nutrirsi, si può anche ipotizzare che “intorno” al nucleo originario sia iniziata la costruzione di altre “strutture” in grado di provvedere ai più svariati compiti di sostegno. Così altre cellule potrebbero essersi specializzate in compiti che permetteranno al nuovo individuo di continuare a nutrirsi (in maniera autotrofa o eterotrofa), di muoversi con una certa padronanza, di difendersi dai pericoli e così via. Lo spirito collaborativo delle nuove cellule ha così permesso di costruire non solo il “primo nucleo conoscitivo” in grado di iniziare a portare l’”esterno” all’interno di un essere vivente, ma anche di costruire una serie di organi e di apparati con compiti di sostegno, logistici.
E’ in fondo quello che, con un fase molto più veloce, avviene ancora oggi dopo il concepimento di un nuovo individuo: dopo che i gameti, femminile e maschile, si sono uniti. Si sa che all’inizio comincia a svilupparsi il sistema nervoso del nuovo individuo e che, man mano che si completa, intorno ad esso si formano tutti quegli altri organi che hanno il compito di nutrirlo, di portalo in giro, di proteggerlo, di farlo comunicare con i propri simili e così via.
Da questo discorso si possono benissimo lasciare fuori per ora gli individui pluricellulari di tipo vegetale che potrebbero essere partiti all’origine da necessità diverse e fatto, quindi, strade diverse da quelli animali.
Riferendoci solo a questi ultimi possiamo quindi supporre che all’”esterno” del sistema nervoso centrale non vi sarebbero, come siamo portati a credere, delle univoche realtà materiali, dei noumeni, come direbbe Kant, poiché il mondo esterno sarebbe sostanzialmente fatto di perturbazioni che catturate (in parte), tradotte in uno stato cellulare e sommate  arrivano a dar luogo ad una rappresentazione interna. Una rappresentazione che viene grossomodo a coincidere con quello che sostanzialmente è l’individuo animale. In questo modo l’individuo non è “altro” dal proprio ambiente; e soprattutto non è altro da un ambiente arricchito dalle nuove realtà viventi. Quei confini posti dalla materialità sarebbero quindi più apparenti che reali. Di una tale scoperta va dato atto già alla filosofia orientale, che però non ha saputo sfruttarla per orientare correttamente l’uomo nella costruzione di un futuro migliore. L’individuo si è trovato diluito in una spiritualità, in una tendenza ad essere lui stesso, da solo, l’intero universo e non ha compreso che invece quel mondo occorreva costruirlo con rapporti interpersonali capaci di andare in profondità: capaci di costruire qualcosa di solido.
Per orientarci in questo senso è importante non “diluirsi” troppo, ma anche evitare di chiuderci come, invece, ci ha portato a fare la filosofia occidentale. Sarebbe bastato avere chiaro che nella realtà non vi sono, come ci ha fatto credere una certa razionalità, delle realtà materiali esattamente come noi le vediamo o ascoltiamo o fiutiamo o quant’altro, ma solo non meglio precisabili perturbazioni che vengono organizzate dalle nostre cellule neurali in “pacchetti” più o meno modulari, componibili  ed utilizzate come input per innescare determinati comportamenti. La materia sarebbe sì una costruzione di convenienza ma certamente non un’invenzione di sana pianta della nostra mente e il realismo ingenuo di certo non sbaglia nel valutare gli effetti della materialità.
Tutto il variegato mondo che ci appare davanti in tutta la sua splendida suntuosità è però pur sempre solo un insieme mutevole di perturbazioni in grado di informarci, di volta in volta, delle opportunità che possiamo sfruttare o dei pericoli che ci conviene evitare.
Il mondo delle nostre origini come esseri pluricellulari non era certamente lo stesso che oggi rileviamo con un cervello ben più complesso di quello di allora. Il cervello si è dovuto accrescere e perfezionare attraverso un costante relazionarsi con l’ambiente, attraverso continue verifiche che ci hanno lasciato in eredità tutta una serie di verità e di comportamenti che non lasciano dubbi. Evitiamo la caduta di un masso che potrebbe colpirci o siamo in grado di lavorare i più svariati materiali proprio perché non ci sfiora il dubbio che i nostri sensi ci informano male. E questo perché noi non saremmo tanto degli esseri viventi dotati di un sistema conoscitivo, come in fondo abbiamo sempre erroneamente creduto,  quanto piuttosto un sistema conoscitivo dotato di una serie di strutture di supporto.
Siamo, cioè, fondamentalmente un sistema conoscitivo, quindi conoscenza e poi tutto il resto!
Che le cose stanno in questo modo lo ha sottolineato Dennett facendo rilevare  che “abitualmente siamo portati ad identificarci più con la nostra mente che col il nostro corpo”. Questo accade perchésostanzialmente noi siamo la mente di oggi: la risultanza di un fraseggio durato millenni, di un dialogo fra cellule specializzate a costituire con il proprio stato un qualcosa che viene proiettato all’esterno per opportunità. Per capirlo però ci sono voluti secoli di riflessione, finché anche in occidente non si è iniziato a capire con Husserl che non aveva senso scindere soggetto-oggetto in due realtà nettamente separate.
Noi, quindi, dobbiamo considerarci più propriamente quell’iniziale “grumo di neuroni” che ha imparato con il tempo a sommare sempre meglio le perturbazioni esterne in entità  univoche, trasferendole opportunamente in un ambiente esterno come enti modulari. In quell’ambiente esterno noi arriviamo addirittura a collocare pezzi di noi stessi quasi ci fossero estranei. E’ così che riusciamo a sopportare psicologicamente un trapianto d’organo anche se c’è, giustamente, una reazione dell’apparato immunitario: perché anche gli apparati logistici che ci permettono di nutrirci, di muoverci, di scambiarci riflessioni, sono parti integranti della mente stessa.
Quello che è invece un “non senso” è il trapianto del cervello stesso. L’operazione di un trapianto del cervello, ammesso che fosse possibile come sembrerebbe, si ricondurrebbe in pratica ad un trapianto completo di tutto il corpo. Che il nostro corpo possa, quindi, essere assimilato ad una macchina e costruito con materiali diversi è più che una certezza oramai; che anche il nostro cervello possa essere assimilato ad una macchina, come da decenni stanno provando a dimostrare i sostenitori della I.A. è ancora tutto da vedere. Il problema è capire se il neurone è effettivamente sostituibile con altro materiale: e precisamente con materiale altrettanto complesso come lo è la cellula così altamente specializzatasi in un arco di tempo lunghissimo.
Personalmente, non credo che si possa sostituire il neurone con qualcos’altro ed ottenere gli stessi risultati: sensazioni, emozioni, idee. Se il neurone fosse sostituibile con qualcosa di più semplice probabilmente ci avrebbe pensato la natura stessa che avrebbe tagliato, con il noto “rasoio di Occam” le parti non indispensabili.
Sostituire anche un solo neurone è problematico e mettendo al suo posto o al posto di un gruppo di questi dei circuiti elettronici, come si tende a fare oggi,  si deve sicuramente rinunciare a qualcosa.
L’unicità di ogni individuo è dovuta in fondo alla irrepetibile possibilità che miliardi di neuroni disposti in modi sia pure leggermente diversi fin dalla nascita formano a loro volta miliardi e miliardi di sinapsi in conseguenza di esperienze dirette che non saranno mai le stesse per tutti noi. Eventualità improbabile anche per gemelli omozigoti, anche se l’architettura iniziale dei loro cervelli è praticamente dettata dallo stesso DNA.
La sindrome dell’”arto fantasma” sembra poi offrirci un valido riscontro di quanto affermato finora. Dopo l’amputazione di un arto, infatti, si continua ad avere la “sensazione” che quella parte del corpo sia ancora lì. Segno evidente che all’arto corrisponde una precisa area del cervello che resta comunque in comunicazione con il resto dell’apparato conoscitivo.

In questo paragrafo si è voluto iniziare a porre l’accento sulla sostanziale identità di un essere unicellulare e di uno pluricellulare, poiché se quest’ultimo deriverebbe effettivamente dalla possibilità di una singola cellula di “clonarsi”, costituendo poi una comunità compatta in una dimensione esistenziale superiore, allora può passare anche l’ipotesi che sia possibile un’ identità tra individuo pluricellulare e  società di individui, se capaci di collocarsi opportunamente su un livello superiore.
Basterebbe fare i dovuti parallelismi tra i differenti piani di contiguità. Infatti, come è pensabile che un essere monocellulare abbia in origine cercato, attraverso una cooperazione e un  serrato dialogo con dei suoi cloni (all’inizio indifferenziate cellule staminali specializzatesi poi in compiti diversi) di incrementare una limitata conoscenza iniziale, così sarebbe ugualmente pensabile che un essere pluricellulare possa ulteriormente incrementare le proprie capacità conoscitive ricorrendo ad un autentico dialogo con altri suoi simili (anche se non necessariamente cloni) predisposti a cooperare e ad operare un altro salto trascendentale.
Ovviamente, al pari dei neuroni, gli individui dovrebbero specializzarsi non solo a scambiarsi le informazioni inerenti ad una propria condizione ma anche a formare un “corpo” in grado di supportare il nuovo apparato conoscitivo vero e proprio.
In realtà tutto questo sembra che stia proprio avvenendo da quando la filosofia si è trasformata in scienza. Usando le possibilità dialogiche della matematica, che è una sorta di linguaggio macchina e la sperimentazione per verificare la validità delle idee, gli scienziati stanno sempre più formando un nucleo compatto a cui la rimanente parte della società dovrebbe però dare un supporto logistico adeguato.
Nonostante stia avvenendo questo, le ultime possibilità conoscitive, quelle che chiamiamo razionali, non sembrano però rendersi conto di tutto ciò, lavorando assurdamente contro un tale progetto, obbedienti a quel genere di forze che remano costantemente per un aumento di entropia. Occorre che queste possibilità conoscitive vengano domate e poste al servizio della vita, affinché il progetto ordinato dei primi esseri viventi possa continuare a perfezionarsi.

L’obiettivo di questo capitolo diventa così principalmente quello di mostrare che ad un’iniziale modalità conoscitiva ne è subentrata un’altra molto più potente che può effettivamente fare i nostri interessi  solo se riesce ad entrare in sintonia con la prima. Altrimenti, il rischio che stiamo correndo è ritorcere tanta potenza contro noi stessi, come sembrerebbe stia accadendo. La conoscenza, infatti, sembra avere ampliato le proprie possibilità interpretative e costituito le possibilità per un Libero Arbitrio che non significa possibilità di scegliere tra opportunità paritetiche, ma piuttosto possibilità di scegliere tra percorsi che possono avere degli sbocchi e percorsi che invece diventeranno una sorta di vicoli ciechi.
Ma procediamo con ordine e continuiamo a congetturare sull’evoluzione di quel primitivo nucleo neurale composto di cellule intercomunicanti che cercano di portare l’ambiente esterno all’interno, fissandolo con una significativa architettura tramandabile alle generazioni future.

 

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Bibliografia

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