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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 5 - Ipotesi sulla conoscenza

Paragrafo 4 - Dall’arco riflesso alla conoscenza emotiva

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Quel primo passo fatto probabilmente da una singola cellula, o anche da più cellule contemporaneamente, aprì un campo sconfinato di nuove possibilità. Iniziarono a formarsi archi riflessi sempre più complessi che coinvolgendo un numero sempre maggiore di neuroni potevano ora unificare “complessi di perturbazioni” sempre maggiori e metterle in relazioni con reazioni appropriate di altre cellule che presedevano ai più svariati compiti. Il meccanismo di verifica era costituito verosimilmente dalla sopravvivenza stessa dell’individuo, che avrebbe pagato a caro ma inevitabile prezzo le scelte sbagliate. Così a fronte di un numero cospicuo di successi si saranno avuti sicuramente anche un’enorme quantità di insuccessi, che avranno portato tanti organismi a consumarsi irrimediabilmente in strade senza uscita. In questo modo però la “sperimentazione complessiva” è sempre riuscita a trovare delle soluzioni per ogni “insieme di perturbazioni” che si presentavano ai primi rudimentali sensi, costruendo con grande tenacia risposte appropriate per  mantenere l’omeostasi e  migliorarla.
L’arco riflesso, come sistema conoscitivo, ha il grosso vantaggio di permettere una risposta reattiva molto veloce, collaudata dall’esperienza e, quindi, relativamente sicura. Ha però lo svantaggio di “costruire” organismi troppo stereotipati; inoltre,  allorché gli archi arrivano a aumentare notevolmente di numero si dà inevitabilmente corso ad una tale complessità che si traduce prima o poi in una macchinosità negativa. Per aumentare, infatti,  solo di poco la conoscenza complessiva la crescita degli archi è soggetta ad un andamento esponenziale. L’essere vivente pluricellulare, quindi, ad un certo punto non ha più potuto continuare semplicemente ad aumentare il numero e la complessità degli archi riflessi. Occorreva trovare qualcos’altro.
La soluzione di questo problema è arrivata probabilmente da una variazione di strategia significativa che è consistita nel collegare tra loro insiemi di archi riflessi, riunendoli in una sorta di modulo. Non più quindi risposte specifiche dirette, automatiche, per ogni singola situazione, ma possibilità di costruire un input più articolato, più complesso, in modo da eliminare, con una sorta di rasoio di Occam le ridondanze, organizzando meglio l’interfaccia tra i possibili input e le possibili risposte. Con questa nuova evoluzione la cattura delle perturbazioni non metteva subito in moto una serie di risposte specifiche che si dovevano comunque sommare e coordinare, ma poteva offrire un quadro più completo sommando e coordinando la cattura stessa delle perturbazioni in modo da dover rispondere a delle nuove singolarità. Il sistema conoscitivo diventava in questo modo sicuramente più elastico, magari meno veloce nella reattività, ma sicuramente più snello nel complesso e quindi con nuovi margini di migliorabilità.
Potremmo anche dire che con questo secondo stadio della conoscenza pluricellulare si è cercato di inserire nel tragitto dell’arco riflesso, tra l’entrata e l’uscita, dei sommatori, dei filtri, che hanno dato inizio alla formazione di hub (1), come si direbbe oggi, in modo da ottimizzare al massimo le possibili risposte.
Questo tipo di evoluzione è in fondo scritta nella moderna struttura dello stesso neurone, dove, sia in entrata che in uscita, troviamo delle folte ramificazioni che permettono di abbinare tra loro un alto numero di segnali percepiti con un certo numero di possibili risposte: Risposte che diventano a loro volta nuovi segnali in entrata che originano una sorta di cascata di output. Grazie alle sinapsi, poi, l’architettura complessiva che ricalca le esperienze maturate nel tempo, è suscettibile di essere modificato velocemente qualora le nuove esperienze ci portassero a verificare che qualcosa nelle situazioni esterne è mutato. In questo modo è possibile combinare efficacemente filogenesi e ontogenesi in un’esigenza di continuità che deve ripassare continuamente nel collo di bottiglia della unicellularità.
Il sistema conoscitivo ha rincorso in tal modo uno snellimento che ha potuto portare con sé anche un aumento di potenza. Tanto più che per certi aspetti conoscitivi, dove la velocità della risposta è rimasta determinante per il successo dell’azione e la sopravvivenza stessa dell’individuo, sono rimasti in funzione i “vecchi” archi riflessi.
Pensiamo, ad esempio, ad una mano che si ritrae in maniera completamente automatica di fronte ad una scottatura.
Per altre situazioni, dove è stato possibile derogare dalla velocità della risposta, il sistema ha imparato a “costruire” quadri il più possibile ricchi di informazione, in maniera da affrontare meglio, complessivamente, la risposta.
La psicologia ci ha abituati da tempo a definire un tale cambiamento, come il passaggio da un modello conoscitivo di tipo ( S-R) stimolo-risposta a quello (S-S-R) ovvero stimolo-stimolo-risposta.
L’esigenza che ha portato ad un tale cambiamento non è ravvisabile solo nella maggiore complessità raggiunta dal sistema originario, ma anche nel fatto che con l’entrata sulla scena di uno stuolo sempre maggiore di nuovi esseri viventi pluricellulari l’ambiente stesso era divenuto enormemente più complesso. Le perturbazioni, ad un certo punto, non erano solo quelle relativamente semplici delle origini. Si erano maledettamente moltiplicate ed intersecate in un habitat complesso e variegato. Soprattutto da ciò è nata la necessità di riunire le informazioni in “pacchetti” che in un primo momento potevano dare un’informazione più grossolana, ma che potevano  essere via via affinati per arrivare addirittura ad una migliore qualità dell’informazione.
Con l’avvento del sistema S-S-R si è forse perso la velocità in talune risposte, dove tra l’altro l’esperienza ha potuto dimostrare che non era necessaria; in compenso si è acquisita una maggiore capacità di mettere in comunicazione somme di stimoli con risposte maggiormente adeguate.
E’ come se l’informazione, per non farla crescere troppo in complessità, è stata diluita nel tempo e questo in pratica ha portato alla creazione di una strumentazione da collocare tra le informazioni in entrata e la risposta in uscita. Strumentazione che oggi possiamo identificare come “scale di emozioni”  che, effettivamente, ci consentono di valutare la condizione in cui veniamo a trovarci.
Le emozioni e quelli che chiamiamo qualia (la rossità del rosso, la sonorità dei suoni, ecc) sono venuti fuori in questa fase proprio come possibilità di valutare le situazioni esterne sommando tra loro vari tipi di perturbazioni che venivano catturate.

Poiché il nostro ragionare è puramente discorsivo e non ha pretesa di scientificità, per introdurre un minimo di credibilità, abbiamo ritenuto opportuno far riferimento ancora una volta a due validi scienziati come Maturana e Varela. Essi escludono che la conoscenza debba essere intesa come una rappresentazione interna di una realtà esterna e dunque “rappresentazionista” o come una faccenda tutta interna e dunque “solipsista” e ritengono che sia dovuta all’instaurarsi di un accoppiamento strutturale tra essere vivente e ambiente al fine di mantenere un’operatività logico-strutturale. In questo modo due realtà, come Io e Ambiente, che all’origine potevano anche presentarsi separate, sono divenute una sorta di realtà unica legate con un doppio vincolo. E’ questa anche la nostra idea, anche se crediamo sia opportuno legarla più ad una fase precedente a quella attuale. Una fase dove ancora non è entrata in gioco la razionalità.

La metafora del sommergibile usata da Maturana e Varela per esplicitare il concetto di Contabilità Logica è molto interessante per cogliere bene la fase di costruzione dell’emotività e, quindi,  riteniamo utile proporla.
[…Un osservatore posto sulla riva del mare vede avvicinarsi un sommergibile che schiva abilmente gli scogli e ogni genere di ostacolo, finendo per  attraccare con successo. Al pilota del sommergibile lo spettatore, che ha osservato l’abile manovra, fa infine le sue congratulazione per l’abilità con cui ha  schivato gli ostacoli. Il pilota però a quelle parole sembra mostrarsi  stupito, chiedendo di quali scogli e di quali ostacoli parla. Egli spiega all’osservatore che tutto quello che ha fatto è stato semplicemente rispondere alla strumentazione di bordo, manovrando secondo le necessità che questa di volta in volta dettava. Egli dichiara così di non sapere di scogli e ostacoli esterni che il suo interlocutore dichiara di aver  visto...].
Ovviamente, va aggiunto che il pilota è nato e vissuto sempre all’interno del sommergibile, e non ne è mai uscito. La sua “conoscenza” è affidata agli strumenti che l’evoluzione gli ha fornito e che forniscono gli elementi per approntare una risposta valida alla situazione. Con la “Contabilità Logica” ma forse sarebbe più corretto chiamarla “Contabilità Emotiva” proprio perché gli strumenti del sommergibile sono vengono lette come scale di emozioni, l’uomo e tutti gli altri esseri viventi riescono a conoscere meravigliosamente il mondo che li circonda e a mettere così  a punto risposte in grado di risolvere gran parte dei loro problemi.
Indirettamente, però, Maturana e Varela, tirano in ballo un altro tipo di possibilità conoscitiva quella dell’osservatore che si trova a terra, che non  vede gli strumenti e non “sa” in che modo abbia operato il pilota. Forse si potrebbe sostenere che questo osservatore, che probabilmente un tempo è stato a sua volta pilota di sommergibili, ma che ora vive a terra, non “ricorda” più le vecchie istruzioni di un tempo. Nelle sue relazioni con l’ambiente sicuramente continua ad usarle ma non se ne rende conto perché nell’osservare l’altro egli trasforma il contesto, non avendo da risolvere  problemi di navigazione. Proprio perché egli ora è giunto a navigare per certe esigenze completamente in “automatico”  e così può rivolgere la sua attenzione ad altri problemi che vanno risolti in altri contesti.
Il pilota, quando è nell’acqua e deve schivare scogli e ostacoli, deve evidentemente usare strumenti che gli consentono di attuare una Contabilità Logica e rimane, quindi,  un essere puramente emotivo. Una volta uscito fuori però può permettersi di fare l’osservatore e per certe avvenute esigenze deve rivolgersi ad altre possibilità che non è detto debbano essere ancora solamente degli strumenti emotivi: potrebbe trattarsi di un metodo completamente diverso.
Anche perché, se ci pensiamo un po’ più attentamente, se il pilota è davvero un tutt’uno con il sommergibile non potrebbe uscirne fuori e non potrebbe assumere il punto di vista di un osservatore che è uomo come lui. Se poi il rapporto tra l’indicazione della strumentazione e la risposta del pilota fosse completamente automatica, il pilota neppure servirebbe. Gli esseri viventi pluricellulari sarebbero sistemi completamente automatici come gli uomini-macchina di La Mettrie. Ci sono oggi neuro-scienziati che sono ritornati a sostenere questo punto di vista per via di certi esperimenti fatti in laboratorio che dimostrerebbero che la coscienza non sarebbe altro che una specie di fantoccio con il compito di registrare dei cambiamenti che vengono  determinati nel sub-cosciente, al di sotto, quindi, della consapevolezza.
A me pare evidente che non si è superata la fase emotiva gettando via i vecchi strumenti che permettevano di fare il punto della situazione. Piuttosto sembrerebbe plausibile che da questi strumenti non siano più state ricavate solo impulsi che mettevano in moto delle risposte motorie, ma anche qualcosa di diverso, come vedremo.
La modalità conoscitiva di cui parlano Maturana e Varela sembrerebbe, dunque, stata superata dall’uomo è oggi si può solo riferirla ad un’ampia parte del mondo animale. L’altra parte, sicuramente più esigua e ristretta ai mammiferi ed ancor più ai primati, ha già cominciato l’esplorazione delle stesse possibilità già raggiunte dall’uomo.
In natura. Ancor oggi, è vero, si possono osservare molti comportamenti stereotipati che testimoniano proprio della possibilità di dover adeguare, con pochissimo margine valutativo, una precisa risposta ad una data situazione. Pensiamo, per esempio, al caso della vespa che trascina nella propria tana il ragno paralizzato da un ben assestato colpo di pungiglione per depositarvi le proprie uova e farne nutrimento per le proprie larva. Degli scienziati sperimentali gli hanno fatto lo “scherzetto” di spostargli il ragno in quei pochi attimi in cui la vespa lo lascia incustodito sull’uscio della tana per andare a fare un giro di ricognizione dell’interno. Al ritorno, la vespa non trovandolo ha iniziato un loop comportamentale, costretta a ripetere per molte volte movimenti senza senso apparente, perché impossibilitata a chiudere lo schema mentale nel modo che le esperienze precedenti  avevano previsto. Sono occorsi vari tentativi a vuoto perché evidentemente quella situazione venisse resettata e il programma mentale potesse tornare a cercarsi un nuovo “inizio” e ripercorrere le sequenze previste dall’istinto, dalla filogenesi. Con uno studio mirato del sistema nervoso della vespa forse si potrebbe stabilire se in essa agiscono solo una serie di archi riflessi o ci sono già una serie di strumenti, magari ancora abbozzati, che implicano un minimo di  “lettura emotiva” da parte del sistema neurale che si è incaricato di “effettuare” la risposta. Nel caso di animali superiori come ad esempio, nei mammiferi, possiamo essere sicuri che sono rimasti pochi archi riflessi in funzione, mentre la gran parte di loro è confluita a formare il complesso dell’ampia  strumentazione emotiva che offre un panorama molto vasto di tonalità, come avrebbe detto Heidegger.
La “tonalità emotiva” rimane infatti anche per l’uomo un elemento originario importante del quale avvalersi per stabilire se le nuove tipologie conoscitive riescono ad armonizzarsi e a sincronizzarsi sugli scopi precedenti. Peccato che non è questo l’uso che di solito ne facciamo, ma che dovremmo farne per evitare che non si creino, come nella realtà accade, pericolose scissioni tra settori mentali.
Con il superamento degli archi riflessi e lo sviluppo crescente del sistema emotivo possiamo congetturare che l’essere vivente abbia cominciato a tenere in considerazione, non solo la sua mera sopravvivenza, ma anche la possibilità di  superarsi, di trascendersi, unendo le singole conoscenze in un sistema più complesso.
 
Ci stiamo ovviamente riferendo alla possibilità di realizzare un  “sistema sociale”, dove tanti singoli cervelli possono oggi lavorare in parallelo, aumentando notevolmente, con un ritorno sull’individuo, le possibilità di ognuno. Stiamo qui parlando di una sorta di “egoismo integrato” dove la sicurezza del sistema precedente viene tutelata dalle maggiori potenzialità del sistema successivo, a patto, però che di vero sistema sociale si tratti. E’ questo il punto che bisogna rendere il più chiaro possibile.
Se, infatti, la società è fatta da furbi che cercano di sfruttare per sé stessi le potenzialità del sistema, la cosa, alla lunga, non funziona. Finisce per venir meno l’interesse comune e, quindi, quel DNA culturale che tutti dovrebbero possedere allo stesso identico modo. Il grosso problema che il processo di socializzazione ha incontrato sul proprio cammino è stato proprio questo! Il non aver saputo conciliare due obiettivi paralleli come la soggettività e la socialità, poiché il cambio di tipologia conoscitiva, che si è reso necessario per dialogare con maggiore efficacia, avrebbe dovuto riempire concettualmente il solco tra individuo e individuo per trarne una realtà in fieri ma pur sempre una realtà di riferimento costante. Se l’essere vivente fosse rimasto alla tipologia conoscitiva emotiva non avrebbe probabilmente posseduto le grandi potenzialità di dialogo della razionalità, che per il momento vengono neutralizzate dalla possibilità della menzogna di realizzarsi. E la menzogna oggi regge soprattutto per il fatto che non si è riusciti a concettualizzare efficacemente la socialità. La socialità non può essere percepita semplicemente come lo stare insieme, il colloquiare, l’interagire, ma dovrebbe essere concepita come l’obiettivo comune di uscire fuori, di andare oltre, la soggettività; di ampliare la “conoscenza” sulla formazione di un sistema di individui pluricellulari.
Solo se gli interessi della soggettività vengono relegati sullo sfondo si può esprimere una vera socialità e, quindi, realizzare un’autentica stabilizzazione.
L’esistenza umana, invece, dimostra inequivocabilmente che l’uomo può provare emozioni come la rabbia e l’odio e tuttavia sfoggiare o tentare di sfoggiare, per convenienza,  il più amabile dei sorrisi. Questa capacità ci consente una “doppiezza” che ci fa dribblare con una certa facilità l’ambivalenza originaria, per focalizzare il solo obiettivo della soggettività e tendere ad un suo maggiore sviluppo.
Il grosso problema da risolvere allora è di messa a punto della razionalità per adeguarla alle esigenze dell’emotività, come abbiamo sempre sostenuto. La consapevolezza che dobbiamo, quindi, avere è che le “istruzioni” fornite dagli “strumenti emotivi” non ci forniscono solo le soluzioni per i tanti problemi legati alla sopravvivenza, ma anche la soluzione a problemi di rapporti affinché si possa approntare una realtà comunitaria. Se questo obiettivo viene tenuto fuori dagli scopi che deve prefiggersi la razionalità, la quale è  utilizzata solo per capire come evitare il conflitto, estremo e drammatico, tra soggettività, viene a cadere tutto ciò che l’emotività ha realizzato finora nel tentativo di realizzare un nuovo “sistema società”.
Grazie all’evoluzione degli antichi archi riflessi in un sistema coordinato di emozioni l’apprendimento associativo può passare da quello che è stato definito condizionamento classico al condizionamento operante, in cui l’azione non è più una risposta meccanica ad uno stimolo ma comincia ad essere compiuta in vista di un momento piacevole che può essere raggiunto di lì a poco.  Ha così inizio una fase in cui l’azione non viene solo sollecitata da condizioni esterne, ma anche dalla possibile  realizzazione di aspettative interne. Questo stadio della conoscenza è stato studiato per primo da Edward Thorndike che osservò ripetutamente un gatto in gabbia che per raggiungere il cibo all’esterno doveva imparare a sollevare una levetta. Ancora non siamo giunti ad un vero e proprio apprendimento cognitivo  come quello umano solo perché ancora le sollecitazioni provenienti dall’esterno rimangono preponderanti su quelle provenienti dall’interno. Nella ricostruzione interna dell’habitat esterno, quest’ultimo non si trova più “spalmato” nel tempo come una successioni di eventi, ma riunito in una nuova e più ampia dimensione. E’ il mondo nel quale  noi uomini oramai abitiamo e che ci consente di ritornare indietro solo traslando ogni situazione nel “come se” di oggi.  Siamo, cioè,  obbligati a rimanere su un livello più alto e non possiamo più ridiscendere a valle come una volta. Se tentiamo di farlo, rimaniamo comunque legati alla condizione odierna, che ci costringe ad avere, comunque, una traduzione, una interpretazione, della fenomenologia che osserviamo.
Così, ad esempio, nell’interpretare il comportamento di un alveare potrebbe essere sbagliato pensare che le api lavorino in vista di un obiettivo a lungo termine, che noi siamo effettivamente in grado di valutare grazie alle nostre capacità. Un “come se” che non è detto sia una traduzione corretta di quello che effettivamente accade per le api. Queste potrebbero semplicemente agire facendo un passettino alla volta nella giusta direzione e riuscire così a “disegnare” comunque una scena che a chi la compie non è detto che debba per forza apparire.

Per ricapitolare brevemente questo stadio della conoscenza passata, diciamo che l’entrata in campo di possibilità sommatorie ed evocative hanno trasformato gli stimoli elementari dell’inizio in stimoli molto più complessi tradotti poi   in risposte più articolate e precise. Possibilità sommatorie che hanno intrecciato nei vari modi possibili i fili che ci legano al mondo esterno e che evocano indubbiamente il famoso “telaio incantato” di Sherrington, […dove milioni di sfavillanti navette (i neuroni) tessono un disegno che si dissolve, un disegno sempre fornito di significato ma che non rimane mai lo stesso; un’armonia fugace di variazioni sul tema..]. Disegni di incomparabili bellezza che in una mai sopita meraviglia devono pur essere visti e letti da qualcuno o da qualcosa. Non si potrebbe spiegare altrimenti il loro emergere alla consapevolezza anche se questa soluzione comporta far rientrare sulla scena qualcosa di analogo al vecchio homunculus che sembrava essere andato definitivamente in pensione. Nel prossimo paragrafo ipotizzeremo quale volto attribuirgli.

Per ora soffermiamoci ancora un po’ sulla tipologia conoscitiva che ci ha portato alle soglie del razionalismo. Anche con l’aggiunta di filtri e di strumenti di monitoraggio, l’idea iniziale di mettere in relazione diretta ambiente ed essere vivente per fonderli in una sorta di blocco rimane invariata. L’azione, che poi è una reazione a determinati input, pur in una sopraggiunta complessità è rimasta per milioni di anni quasi del tutto relegata a quel “qui ed ora” che consiste praticamente nella limitata possibilità di un “eterno presente”.
In questa possibilità si può tranquillamente portare avanti il progetto dell’essere autopoietico di secondo ordine, dell’individuo pluricellulare come “società di cellule”. Dello stesso avviso è Kant che in Fondazione della metafisica dei costumi, così si esprime: […] Ora, se in un essere fornito di ragione e di una volontà lo scopo vero e proprio fosse la sua conservazione e il suo benessere, in una parola la sua felicità, la natura avrebbe fatto male i suoi calcoli  a scegliersi la ragione  della creatura come esecutrice di questa intenzione. Giacché tutte le azioni che l’uomo deve compiere  a questo scopo e l’intera regola della sua condotta gli sarebbero indicate più esattamente dall’istinto. […]La natura avrebbe impedito che la ragione sconfinasse nell’uso pratico e avesse la presunzione di rappresentare a se stessa con le sue deboli vedute il quadro della felicità e dei mezzi per conseguirla; la natura stessa avrebbe assunto non solo la scelta dei fini ma anche dei mezzi e li avrebbe affidati, gli uni e gli altri, con saggia previdenza unicamente all’istinto (pag.27).
La posta in gioco, quindi, è difficile che possa essere valutata come una mera sopravvivenza dell’essere vivente, ma  occorre, quanto meno, inquadrarla in una definitiva stabilizzazione che non si può rivolgere a chiusure complete che l’annienterebbero ma deve necessariamente mirare ad aperture adeguate, compensate da opportuni legami. Solo così sembrerebbe possibile mantenere in piedi l’enorme equilibrio dinamico che coinvolge l’insieme degli esseri viventi, dai più semplici ai più complessi.
Proprio per originare questi forti legami potrebbe essere nata la razionalità: per potenziare ulteriormente i sentimenti  ed aumentare le forze centripete coesive di Gaia.

 

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Bibliografia

(1) Hub: termine inglese il cui significato letterale è mozzo, perno.
In informatica il compito del hub è quello di mettere in comunicazione le macchine per creare una rete.
Il termine è usato anche in senso figurato.

 

Questo saggio è un testo in fieri, l’autore offre ai lettori l’occasione di partecipare alla sua composizione e quindi al suo sviluppo. Per proporre correzioni, miglioramenti o altro, scrivere a suggerimenti@riflessioni.it verranno presi in considerazione solo scritti sostenuti da valide spiegazioni.

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