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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 6 - Cosa possiamo  fare individualmente e politicamente

Paragrafo 6 - Svincolarsi dalla tendenza mondiale ad aumentare indiscriminatamente potere

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L’azione individuale, dopo un robusta presa di coscienza sull’effettiva condizione della nostra individualità e dopo avere iniziato timidamente a sfruttare ogni forma di dialogo per iniziare una necessaria trasformazione, iniziando magari anche ad assaporare una gioia sempre più corposa, deve fare di tutto per svincolarsi dalla tendenza generalizzata ad aumentare indiscriminatamente il proprio potere. Cosa certamente non facile da attuare!
Aumentando, infatti, le energie spendibili nel dialogo occorre inevitabilmente  sottrarle allo sviluppo della soggettività. Ed è a questo punto che ci si può rendere realmente conto di come siamo praticamente accerchiati da individui che, al contrario di noi, sono impegnati nello sviluppo pressoché esclusivo della loro soggettività, del loro egoismo.
Non sorprende, quindi, che ci si possa sentire come un Arapesh smarritosi nella boscaglia che si ritrova nel bel mezzo di un villaggio Mundugumor, che già  vede  le sue misere membra disposte su una tavola imbandita, azzannate da bocche fameliche. Occorre, dunque, evitare di smarrirsi! Evitare di rimanere senza difese in simili frangenti è possibile solo se ci si trova compattati in un gruppo, possibilmente il più grande possibile. L’azione solitaria, quindi, deve necessariamente confluire in una azione collettiva per due motivi essenziali: perché è agendo nella collettività che noi possiamo cambiare la personalità della nostra individualità rendendola più sociale; e poi perché è nella collettività che possiamo ritrovare quelle difese individuali a cui abbiamo rinunciato per diventare individui più aperti. E del tutto evidente che mano mano che la socialità di questo tipo diventa un modo di essere generalizzato di nemici a cui dover far fronte ce ne saranno sempre meno e quindi anche l’ansia derivante da simili preoccupazioni.
Un destino di essere superiori si può contrappone in questo modo ad un destino di mostriciattoli pieni zeppi di denaro e di avidità. Un destino di amore si può contrapporre ad uno squallido e cinico egoismo. Gli interessi della collettività possono essere efficacemente contrapposti a quelli individuali.
Al giorno d’oggi, senza un’idea adeguata che spieghi come e perché dovremmo evolvere la nostra natura, non vi è dubbio che le sorti della battaglia sarebbero segnate e la disgregazione e la rovina continuerebbero a condizionare pesantemente la vita di tutti. Il disordine, l’entropia universale aumenterebbero incessantemente anche nell’ambito circoscritto delle vicende umane. La vita che si oppone all’aumento di entropia, che costruisce strutture ordinate andando controcorrente, non trova oramai più corrispondenza nel genere umano proprio perché il processo di compattazione nell’uomo si è invertito da quando un certo tipo di mala razionalità è diventata la conoscenza dominante. La mala razionalità, come la mala sanità, ci fa morire. Perciò conviene a tutti capire come da una mala razionalità si può passare ad una buona razionalità che a guisa di una buona sanità riesce a curarci  e renderci sani, efficienti.

 

La vita continua a fendere con la sua solida prua qualunque mare, anche quello delle avversità, e cerca i rimedi necessari per non essere sconfitta. Prima che l’ontogenesi  si ritrovi davanti al muro dell’”impossibilità di essere”, quel muro, in realtà, è stato sapientemente aggirato da nuovi noi stessi: i nostri figli, i nostri nipoti, che stanno viaggiando al nostro posto verso il futuro. Se però questa direzione ci porterà ad incontrare un profondo precipizio, un abisso davvero mortale, potremmo non riuscire a frenare la nostra corsa inerziale una volta arrivati troppo vicino. Per questo non possiamo aspettare di vedere chiaro l’orrido: dobbiamo prevederlo.
La nostra unica possibilità per ritornare ad andare controcorrente è che un numero sempre maggiore di individui diventino persone autenticamente sociali, con in “testa” un’idea chiara della direzione corretta, dell’obiettivo da conseguire.
Occorre che un numero sempre maggiore di uomini comprenda chiaramente il motivo per cui oggi siamo spinti ad aumentare il nostro potere, la nostra ricchezza; perché siamo convinti che essa è indispensabile, insostituibile,  per non veder “soccombere”, per tutelare, delle ontogenesi che non hanno mai cercato con la conoscenza razionale di trasformarsi in un tipo di società che garantisse ad ognuno una maggiore sicurezza.
E’ per questo che il denaro, il potere, è diventato la divinità egemone, anche se non esplicita, ma nascosta, che ognuno finisce inesorabilmente per venerare.
Se la razionalità ci avesse portato già da parecchio tempo addietro (ma forse non ne aveva ancora i mezzi) a migliorare le relazioni sociali al punto da traghettarci da un’unità autopoietica di secondo ordine, ad una di terzo, è probabile che oggi ci troveremmo in tutt’altre condizioni: e non nello stato di solitudine e isolamento in cui versiamo che qausi quotidianamente ormai ci fanno compiere gesti di autentica follia. Madri che ammazzano figli, vicini di casa che trucidano intere famiglie, e quant’altro c’è di più orrendo, sono il risultato sempre più evidente che valori di facciata hanno preso il posto dei veri valori che avremmo dovuto coltivare insieme.
La vera intelligenza, a questo punto, è riuscire ad invertire il processo. E’ capire ciò che sta effettivamente succedendo; che il denaro e il potere in genere non sono altro che elementi divisori che ci isolano e fanno di una folla una “massa solitaria”. La vera intelligenza è trovare il coraggio per tirare fuori la mano e cercare quella di un altro nostro simile che ce la possa stringere, per cominciare insieme un nuovo cammino. Da due arrivare a tre e poi a quattro e così via in un crescendo che cominci a diventare una realtà visibile e non risibile come accade oggi.
Il problema da risolvere per riuscire a sviluppare diffusamente un modello di vita alternativo è la reazione, il ripensamento, che potrebbe indurci facilmente a gettare tutto nella spazzatura, se non troviamo sul nostro cammino altre persone disposte come noi a riequilibrarsi, a percorrere mano nella mano il restante cammino da percorrere.  Se vediamo il vicino che si è dato da fare per coltivare i suoi interessi ed ora possiede più potere di noi per nutrirsi, per curarsi, per divertirsi, perfino per avere più amicizie (non importa a questo punto se interessate), che è in grado attraverso il consumismo di inanellare uno appresso all’altro momenti piacevoli anche se non dovessero essere propriamente felici, mentre noi, per mancanza di opportunità, siamo comunque costretti a starcene soli, a non avere possibilità di amare, nonostante tutti gli sforzi, beh, allora si può anche rischiare un tracollo psichico, una disfatta. Il rischio c’è ed è alto. Il rimedio, come dimostra tristemente la storia, a questo punto,  può essere solo quello di rivolgersi a un puro altruismo, ad un donare unilateralmente che ci sovrapponga all’altro, che nella nostra mente ci rifletta comunque l’immagine di una qualche unità di individui. Se non possiamo sperare, allora è comprensibile che ci si rivolga momentaneamente ad un’illusione che comunque può fermarci e non permetterci di “guastarci” interiormente  ancora di più.
E’ ovvio però che questa alternativa non può che essere un palliativo. Per questo non possiamo improvvisare! Occorre diventare professionisti dell’amore e della felicità, della realizzazione di un’autentica società, applicandoci costantemente su un progetto razionale che ne preveda lo sviluppo e la realizzazione.
La storia della socialità, della costruzione corretta della società va reinventata completamente. Occorre lasciarsi alle spalle la vecchia immagine delle collettività socialiste e comuniste, in cui si è inseguito l’eguaglianza intendendola demagogicamente come livellamento del potere e dunque del reddito! Come luogo anonimo dove gli individui devono essere costretti ad essere tutti uguali, ma dove non possono esserlo per le motivazioni razionali che sono costretti a sviluppare.
Se continuiamo a strutturare la società così come l’abbiamo immaginata fino ad oggi non abbiamo scampo! Spingerà inesorabilmente l’individuo verso l’accrescimento dell’egoismo, in quanto la necessità di non soccombere spingerà sempre più gli individui ad una competizione sfrenata.
La sfida che l’uomo ha davanti a sé è quella di riuscire a portarsi collettivamente in una condizione nella quale diventi davvero possibile amare, diventare cioè elementi modulabili desiderosi di “legarsi” in modo forte agli altri, in una dimensione quadrimensionale resa finalmente percorribile da una rivisitata razionalità.

Alla fine degli anni settanta il best-seller di Eric Fromm Avere o essere aveva sostenuto la necessità per l’uomo di “Essere”, accendendo in tanti animi la speranza che potesse davvero essere possibile proporre un’alternativa al desiderio di “Avere”, diventata oramai una sorta di norma accettata universalmente. Fu un fuoco di paglia che si spense di lì a qualche decennio. Le ragioni di un tale insuccesso fu dovuto probabilmente al fatto che Avere o essere fu una formula ad effetto che pur riuscendo a dare l’idea di quel cambiamento radicale che avrebbe dovuto realizzarsi, non riuscì a spiegare in modo sufficientemente chiaro in cosa esattamente dovesse esattamente consistere. Forse una formula più banale come Avere = (Essere soggettivi) o Essere = (essere sociali) avrebbe potuto rendere meglio l’idea del cambiamento di cui abbiamo realmente bisogno. In sostanza Avere è un modo di essere che punta tutto sul singolo, il quale è così costretto a vedere ogni cosa al di fuori dell’Io (anche gli altri esseri viventi e perfino i suoi stessi simili e consanguinei) come “merce”, come enti utilizzabili, insieme ai quali non si deve costruire nulla. Neppure con i propri figli che pure non dovrebbero essere considerati “altro” da noi.
Se si lascia immutata questa convinzione, se ci si lascia scoraggiare da coloro che sostengono che qualsiasi altra soluzione rappresenta solo un’utopia, non c’è effettivamente modo di uscire dalle attuali sabbie mobili.
Fino ad oggi, in mancanza di interpretazioni valide, il meno abbiente guarda all’abbiente, al ricco, al facoltoso, come soluzione per uscire fuori da una condizione precaria e tenta, a volte in tutti i modi, di sostituirsi a lui.
Bisognerebbe convincersi, il ricco come il povero, l’abbiente e il poveraccio, che non è sulla differenza di censo, di ricchezza, di potere, di agio, che si costruisce una vera felicità, ma su un aumento reale di socialità dell’individuo; condizione che sarà più facilmente perseguibile dal povero solo perché la sua condizione è spesso meno chiusa, più vicina a quella naturale, emotiva, e quindi più “trasformabile”.
La felicità dovremmo concepirla come un avvicinamento progressivo ad una condizione ideale nella quale possiamo realizzare le nostre aspettative più intime, più profonde.
Per questo mi risulta difficile credere a quanto sostengono pensatori come Stefan Klein per il quale la felicità è la condizione di un momento, da contrapporre alla soddisfazione che, invece, sarebbe ciò che della felicità conserviamo nella memoria.
Per essere felici non si può ricorrere a “tecniche” che, ad esempio, ci consentono di stivare quanti più momenti piacevoli, magari senza incappare in “assuefazioni”, in “rifiuti emotivi”.  Queste tecniche consentono solo di non renderci conto che abbiamo creato uno squilibrio interno abnorme e, quindi, di riuscire a continuare in un’”abbuffata” di piacere anche quando dovremmo esserne disgustati, come quando si continua a ingurgitare cibi pur essendo sazi.
Se, invece, avessimo della felicità l’idea di una somma di “piaceri gioiosi”, legati alla variabilità dell’aspetto soggettivo come di quello sociale, potere e denaro perderebbero il loro attuale significato, poiché con essi si può rincorrere solo una variazione soggettiva e non una sociale.
Oggi per cercare di ottenere una variazione indefinita e incessante di soggettività, oltre che al potere e al denaro si può perfino ricorrere alle droghe, che riescono a scombussolare, a mettere fuori uso quello che rimane di un sistema di equilibri internamente al cervello. Con le droghe si riesce ad entrare nei cosiddetti “paradisi artificiali” che però, passato l’effetto,  si tramutano nel più terribile degli inferni.
Con l’attuazione concreta dell’ambivalenza la felicità può diventare un obiettivo raggiungibile, o perlomeno, avvicinabile; poiché occorre pur sempre tener conto di quegli elementi perturbanti che non si potranno mai eliminare del tutto.
Se la felicità diventasse una condizione a portata di mano, gli attuali dolori e le paure non scomparirebbero, potremmo però farle rimanere sullo sfondo come elementi secondari, impossibili da eliminare del tutto.
Avvicinandoci sempre più ad una condizione ideale, riusciremmo ad allontanare, con la produzione di endorfine, quelle sofferenze, quelle ansie, quei dolori che oggi accusiamo con violenza; li trasporteremmo talmente lontano da riuscire a sentirne solo un cupo brontolio, come di temporale che si allontana.

 

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Bibliografia

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