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La riduzione del "tempo" ad oggetto di banalità

di Lucio Garofalo
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Frasi trite e ritrite del tipo "che tempo fa oggi?" o "il tempo minaccia..." ecc., talvolta sono spie inequivocabili che tradiscono la soggezione emotiva, la goffaggine personale, l'incapacità di comunicare, il conformismo esistenziale e culturale, oppure indicano atteggiamenti di astuzia, di falsità, di temporeggiamento, cioè nascondono il desiderio di indugiare oltre e guadagnar tempo (appunto!), magari perché si tenta di approfittare di qualcosa o di qualcuno. Da questo punto di vista, i luoghi comuni e le convenzioni sul "tempo", inteso nella più comune accezione meteorologica, si sprecano a dismisura, e quel concetto , sì
tanto nobile e complesso, finisce per essere involgarito e banalizzato come in nessun altro caso, al solo fine di camuffare un pauroso vuoto di idee, per dissimulare propositi malvagi, per mascherare, in modo maldestro, emozioni e stati d'animo che sono spesso indice di vulnerabilità.
Dietro il facile espediente del "tempo" quale argomento di ordinaria conversazione, sovente si annidano secondi fini o cattive intenzioni, oppure motivi di timidezza ed ingenuità, magari anche un'indolenza mentale, un'abitudine al conformismo, una carenza di idee originali, uno stato di profonda immaturità culturale. Si potrebbe ironicamente osservare che, in questi casi, il "tempo" (vale a dire il "clima", quale banalissimo oggetto di conversazione) può annebbiare la mente e ottenebrare lo spirito, nella misura in cui ci si abitua (sciaguratamente) alla più deteriore condizione esistenziale, ossia alla pigrizia intellettuale, che è l'esatto contrario dell'"otium" di cui si è già spiegato il senso vero e più nobile, che non è sfaccendare o non fare nulla (ossia oziare nel senso capitalistico-borghese di non esercitare "negotium", che è l'attività per accumulare denaro, intraprendere imprese lucrose, e via discorrendo). L'"otium" non è propriamente lo stato del fannullone, quantunque si sia già spiegato chiaramente che esso rappresenta una condizione privilegiata, appartenente ad un'élite aristocratico-classista che non deve fronteggiare le difficoltà quotidiane della sopravvivenza materiale.
In un certo senso, l'"otium" (in quanto negazione del "negotium") è una virtù, un talento, che presuppone diverse qualità creative, anzitutto la capacità di impiegare il proprio tempo libero realmente disponibile, per migliorare e valorizzare progressivamente la qualità della propria esistenza, grazie ad una serie di impegni qualificanti quali la lettura di bei libri, la visione di bei film, l'ascolto di buona musica, l'amore (in tutte le sue dimensioni, compresa quella carnale), le buone amicizie, la buona gastronomia, le belle arti, il godimento delle bellezze naturali e di ogni altra gioia che la vita è in grado di offrirci, soltanto se lo volessimo, solamente se sapessimo organizzare il nostro tempo e se davvero ne avessimo la possibilità!
In altri termini, non è per nulla banale pensare al "tempo" come al principio essenziale che riesce a conferire un senso alla nostra esistenza, individuale e collettiva, in qualità di singole persone e di genere umano. Il "tempo" è stato e può essere concepito (nella storia del pensiero filosofico) in quanto "durata", "successione", in maniera "lineare" o "circolare", come "finito" o "infinito", "assoluto" oppure "relativo", "oggettivo" e "soggettivo", "unico" o "molteplice", e via discorrendo, ma una cosa è certa: senza il "tempo" , non esisterebbe nulla. Difatti, se non ci fosse ciò che definiamo "tempo" o, per meglio dire, se noi non tenessimo più conto del flusso del tempo, dell'esperienza vissuta, dei cicli stagionali, della nascita e del tramonto solari, dell'età che avanza inesorabilmente, insomma se noi vivessimo a prescindere dal "tempo", se noi fossimo ad esempio immortali, molto probabilmente non sapremmo che fare, ci annoieremmo a
morte, non potremmo e non sapremmo affatto apprezzare i veri ed essenziali valori della vita e del mondo, dunque saremmo condannati ad un cieco destino senza fine.
Immaginiamo, per un momento, che la Terra fosse circondata da una sorta di gigantesco guscio astronomico che oscurasse il Sole, impedendo così la nostra percezione del divenire e dello scorrere del tempo, che fine faremmo? Oppure, cosa accadrebbe se, per ipotesi, noi abolissimo tutti gli orologi, i pendoli, le clessidre, i calendari ed ogni strumento di misurazione temporale (per quanto relativa, storica e terrestre possa essere, secondo la teoria
einsteniana della "relatività" del "tempo oggettivo", matematicamente misurabile)?
Probabilmente, non ci sarebbe progresso e noi non avremmo mai potuto realizzare tutto quanto l'umanità ha saputo compiere: l'invenzione della scrittura; la scoperta del fuoco e dell'agricoltura; la lavorazione dei metalli; la costruzione delle piramidi in Egitto, del Partenone, del Colosseo, dei grattacieli; l'invenzione dell'energia elettrica e dei calcolatori elettronici; la scoperta della matematica; la creazione di immensi capolavori nella pittura, nella scultura, nella poesia, nella musica, nel romanzo, nel teatro, nel cinema (perché no, anche nel fumetto) ecc. ecc.; l'invenzione della ruota, del motore a scoppio, dei sottomarini, degli aerei supersonici, delle astronavi spaziali, dei satelliti artificiali; l'invenzione del telegrafo, del telefono, della radio, della televisione, del fax, della trasmissione via Internet; l'invenzione dell'aria condizionata, di tutti quegli elettrodomestici che hanno alleviato e reso più comodo l'impegno quotidiano delle massaie e delle casalinghe (svolto sempre più anche dagli uomini); la scoperta dell'America, l'esplorazione degli oceani e degli spazi interstellari; la scoperta della penicillina e degli antibiotici, l'invenzione dei vaccini immunizzanti e tutti i grandi, preziosi sviluppi avvenuti nel campo medico-sanitario (legati non solo alla medicina farmacologica occidentale, ma anche ad altre scuole di medicina, di matrice orientale, in particolare quella araba, quella cinese e quella indiana); è così via, l'elenco non avrebbe termine. In altre parole, non esisterebbe alcuna traccia di civiltà, di
cultura, di intelligenza dell'uomo, e non vi sarebbe alcun segno della nostra stessa presenza sulla Terra. Perciò, grazie di esistere al "tempo" (a ciò che convenzionalmente definiamo tale), alla vita ed alla morte, nella misura in cui senza la morte, ovvero senza il "tempo", non potrebbe esserci nemmeno la vita, e noi non sapremmo riconoscere ed apprezzare i valori, i beni, le bellezze e le gioie che l'esistenza medesima è in grado di offrirci, proprio in virtù del fatto che possiamo e sappiamo riconoscere e disprezzare il male, la violenza, l'ingiustizia, la malvagità, il dolore, la morte. Da quanto detto può discendere un'estrema (ma non conclusiva) valutazione. Ciò che conta veramente, non è tanto la durata, ossia la quantità del nostro tempo vissuto, bensì la sua qualità. A riguardo, mi sovviene un altro, diffusissimo luogo comune, il quale si può tradurre nella seguente formula: "Ho cinquanta anni, ma me ne sento venti". In verità, potrebbe essere l'esatto contrario: "Ho venti anni, ma ne sento cinquanta". Forse, la soluzione del dilemma risiede (banalmente?) nel mezzo, nel senso che le risposte ad ogni domanda dell'esistenza, richiedono una sintesi tra due opposti estremi, per sanarne le contraddizioni, anche per ricomporre le più irriducibili fra le antitesi.
Questo ragionamento (di matrice
hegeliana) ha sicuramente senso, quantomeno per il quesito posto in precedenza. Voglio dire che, indubbiamente, l'età anagrafica esiste, nella misura in cui il tempo scorre ed avanza in modo implacabile. Ma è altrettanto innegabile che non sempre l'età mentale e soggettiva (cioè il tempo interiore, spirituale, qualitativo) corrisponde all'età anagrafica, vale a dire al tempo cronologico, esteriore, oggettivo, assoluto, matematicamente misurabile. Ed è altresì vero che tutto ciò che ha a che fare col "tempo", è assolutamente relativo, personale, transitorio e mutevole, nel senso che io potrei avere (anagraficamente parlando) trent'anni e sentirmene, in un dato momento, appena diciotto, mentre in un altro contesto o in un altro frangente addirittura settanta. Tutto è assolutamente relativo e storicizzabile, soprattutto il "tempo". Ciò che appare oggettivo e reale, può diventare soggettivo, grazie al "tempo", ed è sempre il "tempo" che rende finito e mortale ciò che appare o crediamo infinito ed immortale, e viceversa. Il "tempo" costituisce, dunque, la misura del valore che ha la nostra esistenza, che è unica e sola, fino a prova contraria (nel senso che possiamo vivere una volta sola), a meno che non sia vera la dottrina della "metempsicosi". Tuttavia, il "tempo", quantunque possa apparire un problema oltremodo astratto e cerebrale, quasi incomprensibile per certi versi (pensiamo, ad esempio, all'analisi heideggeriana di "Essere e tempo"), non può assolutamente essere banalizzato, perché rischieremmo di banalizzare la nostra stessa esistenza, il che vuol dire rischiare di vivere inconsciamente, ciecamente, banalmente.

 

Lucio Garofalo

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