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Una visione del mondo
di Shoshin - Maggio 2006
Immaginiamo di essere al centro di una scala di valori che procede contemporaneamente verso l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
Ora prendiamo a modello una cellula del nostro corpo, anzi, uno dei tanti atomi che compongono una cellula del nostro corpo, anzi uno dei tanti quark che si trovano all’interno di un atomo racchiuso in una delle miliardi di cellule che compongono il nostro corpo, e prendiamo al capo opposto il sistema solare come parte di una struttura più grande, ad esempio la via lattea (circa 150 miliardi di stelle). Prendiamo ora tutte le galassie osservabili e vediamole come un insieme, finito per quanto grande.
Se teniamo presente che il limite attuale dell’universo osservabile è di 50 miliardi di anni luce (4,7 X 1023 km), niente ci vieta di pensare che il sistema solare sia un semplice atomo componente tale immensa struttura.
Cosa ci impedisce, a questo punto, di vedere noi stessi come quark, o atomi, o cellule, di un mega-organismo di cui non conosciamo i confini? Tali confini non possono essere misurabili dall’interno, proprio per una questione legata alla difficoltà di osservazione. Sarebbe come se un globulo rosso all’interno del nostro corpo, perso nel vorticoso flusso sanguigno, volesse esaminare le unghie di una mano per stabilirne grandezza, distanza e consistenza. Si potrebbe obiettare che il paragone non calza, in quanto noi non siamo sballottati come un globulo rosso… o no? Veramente, la terra ruota su sé stessa (e noi con lei) ad una velocità di 1.668 km/h (ai poli un po’ meno), inoltre ruota attorno al sole (e noi con lei) ad una velocità di 106.000 km/h. Il sole, a sua volta, si muove all’interno della galassia ad una velocità di 19,7 km/sec.
Fantascienza? Può darsi. Ma, si potrà obiettare, noi abbiamo una coscienza ed una capacità di ragionamento che esula dalle possibilità delle cellule o degli atomi. Davvero?
Perché, le cellule staminali non hanno una coscienza o un’intelligenza? Forse che ogni singola cellula del nostro corpo non sa perfettamente quello che deve fare e come farlo? In effetti sembrano essere molto più coscienti di noi in certi momenti… Un esempio? Chi non si è mai ubriacato? O, senza ricorrere agli eccessi, chi può dichiararsi cosciente mentre dorme (a parte i pochi fortunati in grado di fare sogni lucidi)?
Per trovare altre affinità, il nostro desiderio di immortalità assomiglia molto a quello della cellula cancerogena, che non si adegua al normale ciclo di nascita/riproduzione/morte di tutte le altre cellule, e si riproduce senza morire mai, fino al caso estremo - qualche volta - che conduce alla morte l’essere umano.
In natura tutto pare avere il proprio posto, come in una partita a scacchi dove le possibilità di movimento di alfieri, cavalli e pedoni sono relativamente poche o comunque strutturate da regole ben precise. La vita dell’essere umano, al contrario, sembrerebbe un insieme di colpi di fortuna/sfortuna, capacità personali e casi fortuiti.
Alla fine di ogni esistenza, o di ciclo di avvenimenti che riguardano specie, continenti, ere geologiche, ogni tassello del puzzle va al suo posto, tranne che per una variabile di non trascurabile rilevanza: l’intervento dell’uomo. Chissà se è davvero così, ossia se l’intervento dell’essere umano è sempre volontario, cosciente e autonomo, o se in realtà le cose non sarebbero potute andare in altro modo da quello che racconta la storia…
Come accettare di non conoscere i motivi più profondi che ci fanno vivere? Come accettare che stiamo interpretando il ruolo di pedoni, alfieri e cavalli su di una scacchiera, inconsapevoli di quello che ci spinge e ci comanda, senza conoscere la strategia del giocatore, senza poter uscire dai solchi già tracciati per noi, o dalle regole decise da qualcun altro al posto nostro? Come?
Una delle possibili risposte parte da un’altra domanda: avete mai guardato un neonato negli occhi?
Ricordo come fosse ora quando nacque mio nipote - cinque anni fa - e il suo sguardo appena uscito dalla sala parto in braccio al papà.
Quello sguardo possedeva la consapevolezza di essere una parte del tutto. Guardava il mondo senza distinguere sé stesso dal resto. Non conteneva alcuna traccia di paura, nessuna domanda, ancora nessun bisogno.
Durante la vita siamo sballottati fra desideri, paure, domande, incertezze, senza renderci conto che quando siamo nati era già tutto dentro di noi: ce ne siamo solo dimenticati, spinti da mille impulsi che ci fanno sì crescere, ma a prezzo - a volte - di smarrire la strada, e col rischio di non ritrovarla se non attraverso mille sacrifici.
Non a caso Socrate chiamava la sua dottrina “maieutica”, l’arte di far nascere i bambini: insegnava a trovare dentro di sé, a “tirar fuori”, quello che già c’è in ognuno di noi. Nessuno ci può dire qual è il nostro compito su questa Terra, semplicemente perché ognuno ha il proprio, come ciascuna cellula di ogni nostro organo, ad un certo punto dello sviluppo fetale, si è differenziata dalle altre per adempiere a quel particolare e unico scopo.
I bambini piccoli non sanno distinguere sé dall’altro: fino a un certo mese di vita, infatti, non riconoscono neppure la propria immagine allo specchio. Con lo sviluppo cerebrale, del linguaggio e dei processi logici, il mondo viene inquadrato dalle regole imposte dagli adulti preposti alla loro educazione, cosa certamente indispensabile per la convivenza e la sopravvivenza all’interno di una società, ma spesso troppo repressiva del lato creativo e/o sensitivo.
Mia nonna, ormai divenuta inferma, passava le giornate ad aspettare il suo momento, quello del grande salto. Un giorno in cui era abbastanza lucida le ho chiesto: “Nonna, ma tu cos’hai capito della vita?” Mi ha guardato come se si sentisse in colpa di non avere una buona risposta da darmi, una buona eredità spirituale da lasciarmi. “Non lo so” mi ha risposto.
Novantuno anni, trascorsi fra mille tribolazioni, passando attraverso due guerre mondiali, malattie, sopravvivendo al marito morto quando lei non era ancora trentenne e con due bambine piccole che ha dovuto crescere da sola. Una vita piena di messaggi importanti, al termine della quale chissà se rimarrà qualcosa, a parte il ricordo nelle due generazioni successive.
Sarebbe bello poter arrivare a novant'anni con lo stesso sguardo dei neonati, ritrovandosi parte del tutto, anzi, ritrovandosi ad essere il tutto, senza partizioni, conflitti o divisioni, e poter dire ai propri nipoti: “Ho capito che la vita è accettare di essere tutto, accettare ciò che accade come quello che doveva essere e che in effetti è stato, senza rimpianti né rimorsi, senza colpe né meriti.”
Forse intendeva questo Gesù con le sue parole: “In verità vi dico: chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino piccolo, non vi entrerà.”
Per tornare da dove siamo venuti, dopo aver affrontato il cammino che ci è dato percorrere, dovremmo forse guardare il mondo come abbiamo fatto appena nati, per ritrovarci parte di un grande organismo che chiamiamo Universo, dove abbiamo svolto, secondo le nostre possibilità, il ruolo che ci è stato assegnato fin dalla nascita, senza più paure, domande o bisogni.
Shoshin
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