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Riflessioni sulla Mente

Riflessioni sulla Mente

di Luciano Peccarisi -  indice articoli

 

L'illusione di noi

marzo 2012

  • La perdita dell'io

  • Ineffabilità dell'io

  • La narrazione

  • Allora chi siamo?

“Fra una voragine celeste aperta sul nostro capo e una voragine celeste coperta sotto i nostri piedi, noi siamo capaci di sentirci tranquilli sulla terra come in una stanza chiusa. Sappiamo che la vita si perde nelle lontananze disumane dello spazio come nelle disumane strettezze del mondo atomico, ma nello spazio intermedio trattiamo come cose del mondo tutta una serie di immagini, senza lasciarci turbare dal fatto che ciò significa soltanto dar la preferenza a impressioni ricevute da una certa distanza media”
(R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1966, p. 599)

 

L’evoluzione ha creato animali in grado di affrontare la vita e le sue difficoltà, dotandoli del senso di identità di se stessi e della comprensione della realtà a loro intorno. Anche l’uomo possiede questo senso di ‘essere’ con cui si rapporta alla vita sociale, etica e spirituale. Nasce armato dunque di questo senso innato e geneticamente determinato, solido e centrale, col senso della stabilità e della sostanzialità dei processi naturali. Poi il suo io, grazie al linguaggio e alla comunicazione, all'addestramento, all'educazione si trasforma e diventa un Io umano, molto lontano da quello animale, che tuttavia su quelle basi si è formato.

 

La perdita dell'io

“Che cosa la porta nel nostro ospedale?” chiese il Dr. Ramachandran a Yusuf Alì, un trentenne scarmigliato e depresso con la barba di due giorni, un uomo intelligente e non un malato di mente. Io sono un cadavere, non esisto, sono un guscio vuoto, a volte mi sento un fantasma che esiste in un altro mondo, disse l’uomo. Alì aveva uno dei più strani disturbi della neuropsichiatria: la sindrome di Cotard. Che cosa può causare questo disturbo Kafkiano? Rachamandran ipotizza che il sistema dei neuroni specchio non solo serva a elaborare un modello del comportamento altrui e dell’empatia, ma anche a rivolgersi ‘verso l’interno’ per analizzare i propri stati mentali. Un malfunzionamento di  alcune connessioni provoca una perdita del senso del sé. Se si perde se stessi, si perde il mondo, ed è l’esperienza più simile alla morte che si possa fare nella vita. Secondo Rachamandran la sua ipotesi spiegherebbe perché alcuni pazienti sottoposti a cure antidepressive si suicidano. Nella sindrome, essendo il soggetto ‘già morto’ non c’è nessuno che possa essere liberato dalla sofferenza. Un antidepressivo invece può restituire abbastanza autocoscienza perché il paziente giudichi privi di significato la propria vita e il mondo e, dopo una simile constatazione, ritenga il suicidio l’unica via di scampo.
(V.S. Ramachandran  ‘L’uomo che credeva di essere morto’ Mondadori, trad. it. 2012, p. 305)

 

Ineffabilità dell'io

Se uno si guarda dentro non trova un principio unificatore, il nostro interno è una cosa in movimento, come il mare che lo possiamo nominare e lo possiamo vedere e descrivere, ma non è mai uguale a un momento prima. Se uno si chiede: “Chi sono?” comincerà a raccontare una storia fatta di tanti episodi, lontanissimi o più vicini. Alcuni aspetti saranno sottolineati come importanti, altri meno. Può indicare un motivo principale, un leitmotif, ‘io sono testa dura’ oppure ‘sempre stato troppo timido’ per spiegare meglio l’idea che abbiamo di noi. Possiamo indicare aspirazioni e idee, e le mostriamo agli altri per avere riconoscimento o approvazione. Tuttavia se vogliamo adesso descrivere il contenuto della nostra coscienza e prestiamo attenzione a ciò che è dato, non troviamo nulla di ben definito, strutturato, organizzato. Non disponiamo di un modo per individuare la nostra interiorità rispetto al flusso delle azioni, per isolare un nucleo indipendente, all’interno della propria mente, rispetto al susseguirsi di immagini e pensieri che si inseguono incessantemente. Ecco perché il racconto che ci facciamo è il nostro principio unificatore. E’ un racconto che leggiamo e rileggiamo per identificarci e avere ognuno la propria identità. Forse noi siamo il racconto che ci facciamo. Con la separazione dell’io dal corpo che l’accoglie l’uomo ha compiuto un’artificiale ma sublime, e forse tragica nello stesso tempo, operazione. Ha perso la cognizione del tempo. Con una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori dal tempo. “Ulisse aspettava una cosa sola, che gli dicessero finalmente ‘racconta!’. ..Per vent’anni non aveva pensato che al ritorno.. Ma quando fu di nuovo a casa capì, con stupore, che la sua vita, l’essenza stessa della sua vita, il suo centro, il suo tesoro, si trovava fuori da Itaca, in quei vent’anni di vagabondaggio. E quel tesoro l’aveva perduto e l’avrebbe recuperato solo raccontando”
(M. Kundera, L’ignoranza, Gli Adelphi, 2001, p. 38)

 

La narrazione

Gli animali non umani non sembrano avere nomi propri. Non si chiamano fra loro, eppure si riconoscono individualmente. Basandosi sulle caratteristiche sonore,  dall’odore, dalla forma, ogni individuo possiede una sua impronta che lo rende unico e riconoscibile come tale. Entità comunicative come l’io o il tu non servono, è il contesto a sciogliere possibili dubbi sugli interlocutori. Le interazioni comunicative sono in genere assai semplici, stereotipate, brevi e vertono su entità del mondo esterno, non su propri stati interiori. Entità presenti sul posto, su cui rivolgere l’attenzione. L’io e il tu nascono come conseguenza di una comunicazione che diventa più complessa, e per evitare eventuali equivoci comunicativi. Una volta acquisito il linguaggio, la narrazione modifica e articola ulteriormente i contenuti che sono rilevanti per la costituzione dell’identità personale. Narrare un evento non significa solo esprimerlo, ma sottoporlo a certi vincoli che permettono di pensarlo in modo diverso. Gli individui impiegano un quinto del loro tempo da svegli nella conversazione spontanea e parte significativa di queste conversazioni riguarda eventi passati. L’impegno a raccontare storie è così forte perché coloro i quali riescono a suscitare l’interesse altrui sono preferiti per instaurare legami di solidarietà, in quanto manifestano maggiori capacità informazionali ed esperienza ad affrontare eventi inaspettati. Forse anche la nostra auto-rappresentazione, il nostro io, è una narrazione. A cercarlo non c’è una sede dell’io nel cervello. L’io appare perciò costituito in larga parte da materiali sociali, in particolare da quel mondo di parole, dialoghi, discorsi, racconti che popolano l’ambiente umano, e costituiscono la nostra identità narrativa.

 

Allora chi siamo?

Sicuramente abbiamo un “ io nucleare” o “io primario”, come quello degli animali, prelinguistico. Gli animali con questo io, estendendolo con lo sviluppo e l’esperienza e trasformandolo in un “io esperenziale”, vivono benissimo. Tuttavia, rispetto alla nostra, hanno una vita povera che è sempre uguale; il gatto dei Faraoni faceva la stessa vita del gatto di oggi. Vivono senza arte, religione, sport, musica, letteratura, scienza. Noi siamo animali diversi, con le parole abbiamo trasformato il mondo. Con la ragione costruito macchine che ci fanno volare come gli uccelli, solcare i mari come i pesci, scavare la terra come le talpe e vivere più a lungo come le tartarughe. Con l’immaginazione dalle semplici e passeggere emozioni abbiamo creato i sentimenti, belli, brutti, tragici, visionari, angosciosi. Questa è la vita creata dal linguaggio. E questo è l’Io o il , che sentiamo come nostro, unico, indivisibile ma “la neurologia ci dice che il sé consiste di molte componenti, e l’idea che sia unico ed unitario potrebbe benissimo essere un’illusione”
(Ramachandran, p. 271)

 

      Luciano Peccarisi

 

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