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Umana-mente di Eliana Macrì

Umana-mente

di Eliana Macrì - indice articoli


Giordano Bruno

Febbraio 2021


Il 17 febbraio del 1600 qualcuno a piazza Farnese lamentava puzza di carne bruciata. A bruciare, a Campo di fiori, era il corpo del filosofo Giordano Bruno condannato al rogo dal Tribunale dell’Inquisizione. La lingua inchiodata per impedirgli di urlare contro Cristo. Non fu facile per la Chiesa della Controriforma emettere una sentenza di condanna, secondo quanto risulta dagli atti dei due processi, uno a Venezia e l’ultimo a Roma. Bruno aveva imparato l’arte della dissimulazione per tenere salva la pelle, come afferma lui stesso nello Spaccio de la bestia trionfante, bisogna dissimulare per salvare la verità, vivere nell’ombra celando il proprio volto pur di difendere la verità. Il filosofo Tommaso Campanella, contemporaneo di Bruno, trascorse 27 anni della sua vita nelle carceri dell’Inquisizione durante i quali si finse folle per non cedere di fronte alle inumane torture. Potremmo chiamarla arte del sapersi arrangiare. Bruno avevo lo spirito dell’uomo di teatro, autore di opere teatrali, ma soprattutto regista della sua vita. Mai come in Bruno biografia e filosofia sono legati, in un moto a spirale che li avvicina e li allontana continuamente. Era stato scomunicato da tutte le chiese operanti a quel tempo in Europa: quella calvinista a Ginevra, quella puritana ad Oxford e quella protestante in Germania. Ma durante il primo processo disse di essere disposto a piegarsi pur di difendere la verità. Non però come fece Galileo Galilei, inchiodando la libertà di pensiero alle porte di Villa Arcetri sede del suo confino in seguito all’abiura. Bruno sapeva di essere ormai fuori pericolo, non così durante l’ultimo processo a Roma, dove non c’è più spazio per dissimulare. Stretto in un angolo il cardinale Bellarmino lo pone dinanzi ad un bivio: rinunciare alla verità o morire pur di affermarla. Non ci sono più dissimulazioni che tengono, il cardinale lo incalza sui principi stessi della sua filosofia e Bruno risponde che non ha nulla di cui pentirsi.

La sua morte diventa testimonianza della sua ricerca filosofica, della responsabilità che ha l’uomo e soprattutto il filosofo di cercare e onorare la verità, per poterla mettere al servizio della comunità. Il prigioniero del mito della caverna di Platone, dopo essersi liberato dalle catene ed avere visto con i propri occhi la vera realtà al di fuori della caverna, sente il bisogno o meglio percepisce il dovere morale di tornare all’interno della caverna per annunciare ai suoi compagni che ciò che loro vedono sono solo ombre, distorte e riflesse dalla luce sulle pareti della grotta, della vera realtà che sta fuori. Bruno per circa ottanta mesi combatte all’interno del carcere, lui stesso si ritrae come un gallo che ha dato dura battaglia, ma che alla fine ha perso. Di fronte alla libertà di pensiero, di fronte alla verità non ci sono maschere per Bruno ma solo fiamme che attraversano il suo corpo da cima a fondo come aveva già fatto l’esperienza filosofica, nell’esperienza della verità. Anticipando in qualche modo Schopenhauer, Bruno afferma che solo coinvolgendo direttamente il corpo, l’uomo può accedere alla verità, ne Degli eroici furori l’esperienza della verità è vissuta come un’esperienza di nervi, di muscoli e quindi del corpo.

Qual è questa verità di cui Bruno è portavoce?

Dagli atti del processo di Roma, apprendiamo che il tema che ha fatto vibrare l’aula del tribunale è stato quello della materia universale. Bruno non crede nel Dio cristiano che crea il mondo ex nihilo. La realtà è un continuo esplicarsi della materia universale, una materia-vita, che si muove e da cui tutto nasce attraverso una produzione infinita, per cui in ogni parte del mondo sorgono uomini, animali e piante. Caravaggio sosteneva che dal punto di vita del pittore non c’è alcuna differenza fra il dipingere un uomo o una pianta. Allo stesso modo gli uomini, per Bruno, sono tutti uguali in quanto prodotti da un’unica materia universale che come li produce in America, li produce in Europa o in ogni altra parte del mondo. L’unica cosa che li differenzia è il colore della pelle, ma ciò è dovuto al clima. Dal punto di vista materiale, non c’è alcuna differenza anche fra l’uomo e gli animali. Ciò che permette all’uomo di creare civiltà e governare il mondo è il possesso della mano che gli altri animali non hanno. Anticipa per certi versi Marx, che vede nel lavoro il motore della civiltà e il tratto distintivo dell’uomo, ma anche Bergson che vede nell’intelligenza umana la capacità di costruire strumenti artificiali per sopperire alla deficienza di quelli naturali. Ma l’uomo non ha un primato nel mondo rispetto agli atri esseri viventi, Bruno rifiuta l’antropocentrismo cristiano che in termini astronomici si traduce nella teoria geocentrica della concezione tolemaica del mondo. Va molto oltre Copernico, il quale aveva affermato che non è più la Terra ad essere il centro dell’universo bensì il Sole, Bruno afferma che l’universo è infinito e la Terra è solo uno degli infiniti mondi e sicuramente non il migliore. Con la scoperta dell’infinito, il filosofo nolano non relativizza solo la Terra, rendendola uno degli infiniti mondi che nascono e muoiono, ma relativizza anche l’esperienza cristiana che diventa l’esperienza di una specifica regione dell’universo che coesiste accanto ad altre. Ma allora come può l’uomo ridotto a un mero dettaglio nel dipinto dell’universo fare esperienza del divino e quindi della verità? L’uomo inchiodato alla sua finitezza non può attingere alla visione diretta di Dio che è infinito, per Bruno, infatti non c’è mai relazione fra finito e infinito, ecco perché la stessa figura del Cristo è inconcepibile: l’infinito che entra nel tempo attraverso il ventre di Maria e si fa carne. Come può allora l’uomo avvicinarsi alla verità e guardare dio? Nel grande specchio della natura. Gli Egizi sapevano comunicare con la divinità attraverso la natura, operando magicamente su di essa. Ed è proprio alla religione egizia che si rifà Bruno quando si presenta come il fondatore di una nuova religione magica e naturale che considera tutti gli uomini uguali.

“Noi siamo ombre e rispecchiamo la verità, rispecchiamo la divinità, ma non siamo né la verità né la divinità”. La verità esiste ma l’uomo non è in grado di vederla proprio per la sua limitatezza, la stessa limitatezza che rese corto il dire e fioco il concetto di Dante alla visione dell’eterno.

Qual è geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,

allo stesso modo si trova l’uomo di Bruno. Non esiste un’unica via valida per tutti e per sempre per raggiungere Dio, ogni uomo deve costruire la sua strada, deve fare la sua esperienza di Dio. Un po’ come l’uomo kierkegaardiano che in assoluta solitudine deve scegliere senza avere alcun appiglio morale o razionale se dire sì o no a Dio. Il cammino che l’uomo deve compiere verso la verità per Bruno non è ripetibile, perché tutto è in continuo movimento e mutamento, compreso l’uomo che non è mai lo stesso, si arricchisce via via delle esperienze di vita che lo trasformano e con esso cambia anche il mondo che lo circonda, in un vortice energetico che non lascia esenti niente e nessuno.

Gli atti processuali contengono un’immagine meravigliosa che Bruno usò per spiegare meglio il concetto di materia-vita: “esiste una grande anima del mondo, che si rompe in un’infinità di frammenti di specchi che sono le singole anime. Questi frammenti, una volta esaurita l’esperienza di vita di ciascuno, ritornano al grande specchio e da esso nuovamente ritornano al mondo come frammenti di anima nei singoli individui”. Il filosofo nolano credeva nella metempsicosi, lui stesso aveva ricordi di vite vissute in altre forme e non necessariamente in un corpo umano. Un suo compagno di carcere racconta di essere stato rimproverato da Bruno per avere ucciso un ragno, perché nessuno poteva sapere chi era stato quel ragno e chi sarebbe potuto diventare, se in lui si celava l’anima di un uomo passato o di un uomo futuro.

Questa circolarità delle anime che trasmigrano dal cielo alla terra e di nuovo al cielo e ancora alla terra, in un processo all’infinito, metteva in crisi la concezione lineare del tempo propria del Cristianesimo per cui esiste un inizio e una fine e ciò che avviene una volta non può ripetersi infinite volte.


Eliana Macrì


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