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Filosofia della Medicina

Filosofia della Medicina

di Federico E. Perozziello
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Neuroscienze e mente umana

Febbraio 2012
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Nonostante l’uomo condivida con alcuni primati circa il 98% del proprio patrimonio genetico, la sua diversità da questi esseri viventi consiste non tanto in una originalità anatomica del proprio encefalo, ma in una specificità funzionale nell’elaborazione dei dati sensibili e, attraverso questa, nella capacità di modificare l’ambiente. La trapanazione rituale del cranio è stata una delle più antiche pratiche chirurgiche e mediche della storia umana. Secondo gli studi antropologici, la valutazione dei postumi dell’intervento indicherebbe una discreta percentuale di sopravvivenza, nonostante le condizioni oggettive in cui si svolgeva questa difficile pratica terapeutica. Nelle Civiltà Precolombiane la trapanazione rituale e curativa del cranio era praticata con frequenza. Venivano utilizzate delle lame affilate, ottenute da minerali come l’ossidiana, un vetro vulcanico di colore scuro e assai tagliente, utilizzato per estrarre il cuore nei sacrifici umani. Oppure si adoperavano coltelli di bronzo e di rame. (1)
Il Papiro egiziano medico, denominato Edwin Smith, viene ritenuto il primo documento scritto sugli effetti patologici delle lesioni traumatiche alla testa. La stesura del papiro è databile tra la XVI e XVII Dinastia, vale a dire intorno al 1600 a.C. Il testo rivelava la presenza di almeno tre autori, di cui il primo sarebbe stato l’estensore del testo originale. Era un medico vissuto molto tempo prima del formarsi del testo definitivo. Forse un chirurgo militare, che seguiva l'esercito nelle campagne. Un medico che doveva essere esperto nelle ferite causate da frecce, spade, lance e lesioni provocate da armi e traumi in genere. Il testo egizio illustrava quarantotto diversi casi clinici, descritti nei dettagli in modo razionale e istruttivo. Di questi oltre venti si riferivano a traumi cranici. (2, 3)
Questo medico esperto e sconosciuto classificò i casi clinici sulla base della parte del corpo lesionata, iniziando dalla testa e terminando con i piedi. La gravità della lesione veniva stabilita secondo delle affermazioni stringate e un po’ retoriche, che suonavano all’incirca così:

 

«… si tratta di un male che curerò, di un male che combatterò, di un male che non tratterò …».

 

Una definizione in forma indiretta, ma efficace, della gravità della patologia da affrontare. (4)
L'autore o gli autori del papiro erano degli acuti osservatori, tuttavia la loro conoscenza anatomica del sistema nervoso era minore dell’abilità empirica che dimostravano sul campo e per la quale i medici egiziani erano ricercati in tutto l’Antico Oriente. Non possedevano delle nozioni sulla morfologia e fisiopatologia del Sistema Nervoso così come oggi lo intendiamo. Lo stato di coscienza e l’intelligenza erano considerate come una prerogativa del cuore, un organo che per la sua posizione centrale nel corpo sembrava rivestire un ruolo di prevalenza ideologica e funzionale.
Tale convinzione rimase immutata per secoli. Gli Egizi non facevano distinzione, nella struttura anatomica, tra i tendini, i vasi ematici e i nervi, tanto che utilizzavano per queste parti del corpo lo stesso termine metu, che significava canale. Tutti i metu confluivano nel cuore e vi trasportavano il sangue, l’aria, lo sperma, il muco, il cibo, come pure i prodotti di scarto che vi giungevano da tutto il corpo. (4)
Il cervello venne pertanto relegato dagli Antichi Egizi in un ruolo non ben definito e di secondaria importanza, trattato quasi con indifferenza. Erodoto di Alicarnasso (484-425 a. C.) racconta nel II libro delle sue Storie le modalità con cui veniva praticata la mummificazione nei defunti di alto livello sociale. Apprendiamo dallo storico greco che il cervello veniva rimosso dalle narici con un apposito attrezzo metallico, munito di uncini e quindi gettato via. Ai polmoni, al fegato, allo stomaco e ai reni era riservato un trattamento di maggiore riguardo. Dopo essere stati estratti dal cadavere, questi organi erano conservati in quattro contenitori appositi chiamati Canopi. Il cuore era considerato troppo importante per essere rimosso e veniva di norma lasciato nel petto del defunto.
Nell’Antica Grecia le cose cominciarono a cambiare per quanto riguardava la considerazione del cervello come organo di senso.
Alcmeone, un medico di Crotone, vissuto nella Magna Grecia all’inizio del V secolo a.C., iniziò a praticare delle semplici dissezioni dei cadaveri, arrivando a individuare la connessione degli organi di senso, in particolare degli occhi e delle orecchie con il cervello. Secondo Alcmeone, l’encefalo rilevava le sensazioni fornite all’uomo dal mondo esterno, poteva analizzarne il contenuto e conservarne la memoria. Il processo conoscitivo assumeva pertanto le caratteristiche di un’attività cosciente e diretta nei confronti dell’oggetto dell’indagine, mentre l’idea del cervello come sede dell’elaborazione razionale, che oggi diamo per scontata, iniziò timidamente a farsi strada, anche se era in contrasto con tutta la tradizione del pensiero orientale e di buona parte di quello greco.
Nella concezione di Empedocle di Agrigento, nato intorno al 490 a.C., l’uomo pensava attraverso il sangue, che si muoveva a partire dal cuore, la sede del principio vitale dell’organismo. Il sangue risultava essere un liquido formato da una commistione perfetta dei quattro elementi fondamentali da cui era costituita la materia. Elementi di base, che vennero definiti come le radici materiali e precisamente: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. Secondo un altro filosofo della Natura, Anassagora (496-428 a. C.) di Clazomene, originario di una città dell’Asia Minore vicino all’odierna Smirne e vissuto ad Atene al tempo della dittatura illuminata di Pericle, il processo conoscitivo si basava sull’attività sensoriale dell’encefalo. In questa parte del corpo aveva sede l’intelletto, in grado di mediare attraverso i sensi l’immagine del mondo alla coscienza. Ne derivava un sapere che era il risultato di un confronto e di una interazione con la realtà, che veniva influenzato e diretto dalla memoria e dall’esperienza appresa in precedenti occasioni. (5)
Tra i principali allievi di Anassagora nelle sue lezioni ateniesi vi furono Socrate, che ne derivò probabilmente il proprio scetticismo umanistico e disincantato e il giovane medico Ippocrate di Coo (Kos). Anassagora era un esponente del ricco ceto mercantile e artigianale che si era formato nella Ionia, la costa dell’Asia Minore sull’altra sponda dell’Egeo, rispetto ad Atene. Territori in cui le colonie greche lottavano da anni per affrancarsi dalle ingerenze persiane. Il filosofo apparteneva ad una classe sociale che si batteva per raggiungere l’egemonia politica in quelle città greche, più ricche ed evolute della madrepatria. Nuclei urbani animati da una società portatrice di idee di integrazione commerciale e di tolleranza multiculturale che erano naturalmente portati a contrastare l’aristocrazia conservatrice degli Spartani e la loro influenza sulla madrepatria. Gli insegnamenti di Anassagora e la sua razionalità nei confronti della natura conquistarono quella parte della società ateniese più spregiudicata economicamente, che rivendicava la propria egemonia sulle tradizionali famiglie patrizie. (6)
IppocrateIgnoriamo fino a che punto le lezioni di Anassagora influenzassero Ippocrate (460-370 a. C.). Quel che è certo è che con lui nacque una medicina animata dalla trasmissione dei suoi insegnamenti attraverso una scuola, cui venne riconosciuta un’autorità tecnica e morale. Nei libri del Corpus Hippocraticum e attraverso le osservazioni sull’epilessia, la malattia sacra, Ippocrate sostenne la centralità dell’encefalo come organo del pensiero. Tuttavia questa interpretazione funzionale dell’organo rimase poco considerata per molti secoli, se si eccettuano le osservazioni di Erofilo di Calcedonia (335-280 a. C.), il fondatore della Scuola Medica di Alessandria. Erofilo riuscì a distinguere anatomicamente i vasi sanguigni dai nervi, ma non fu in grado di sovvertire gli antichi pregiudizi sul ruolo del cervello, rimanendo inascoltato. IppocrateTuttavia, così scriveva Ippocrate di Kos:

 

“… Da null'altro si formano i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo se non dal cervello. Così pure vi troviamo i dolori, le pene, la tristezza e il pianto. Soprattutto grazie ad esso pensiamo, ragioniamo, vediamo e udiamo. Giudichiamo sul brutto e sul bello, sul cattivo e sul buono, sul piacevole e sullo spiacevole. [...] E’ a causa del cervello se perdiamo il senno o deliriamo, se ci colpiscono incubi e fobie, insonnia e smarrimenti strani, paure senza motivo e incapacità di comprendere le cose consuete …”

 

Ippocrate, Sulla malattia sacra, (7)

 

Aristotele di Stagira (384-322 a. C.) era convinto che fosse il cuore ad essere la sede dell'intelletto, della percezione e delle funzioni correlate.
Una ragione dell’adesione di Aristotele alla teoria cardiocentrica poteva risiedere nella diversa temperatura presentata dal muscolo cardiaco all’esame anatomico degli animali a sangue caldo, la quale appariva più elevata rispetto a quella del cervello, un organo umido e relativamente freddo. Il caldo veniva istintivamente associato alla vita e il freddo alla morte. Questo fatto rendeva il cervello funzionalmente meno interessante da studiare. Aristotele potrebbe aver collocato il pensiero razionale nel cuore perché il battito cardiaco era la prima cosa in movimento che fosse riuscito a vedere in un embrione di pollo, durante una delle sue esperienze di osservazione diretta della natura. Il filosofo greco tuttavia non sottovalutò completamente il cervello. Attribuì all’encefalo una funzione importante nel raffreddare il cuore. Le maggiori dimensioni relative dell’encefalo umano rispetto a quello animale potevano essere giustificate dal fatto che l'uomo gli appariva più caldo rispetto agli altri animali. Avrebbe avuto pertanto necessità di un sistema di raffreddamento di maggiori dimensioni. (8, 9)
GalenoGaleno di Pergamo (129-201 d. C.), insieme ad Ippocrate il più importante medico dell’Antichità, concepiva il cervello come una specie di pompa che attraeva il pneuma psichico, una sorta di corrente d’aria che giungeva dagli organi di senso nei ventricoli anteriori dell’encefalo. Da questi veniva spinta lungo i nervi motori, piccoli canali adibiti a stimolare la contrazione dei muscoli da essi innervati. Questa funzione sarebbe stata promossa grazie a delle contrazioni attive esercitate dall’encefalo, il quale avrebbe funzionato come una specie di mantice. I movimenti del cervello sembrarono essere possibili a Galeno grazie allo spazio esistente tra la dura madre e l’organo. Una supposizione questa mai provata, che trovò incredibilmente credito fino a tutto il XVIII secolo. GalenoNella parte anteriore dell’encefalo avrebbero avuto sede le funzioni sensoriali e immaginative, nella parte centrale le funzioni razionali e nel terzo ventricolo sarebbe stata collocata la memoria, un tipo di memoria particolare, in grado di richiamare i ragionamenti e i ricordi più complessi. Il cervello poteva inoltre espellere attivamente delle sostanze di scarto e nocive, come il muco. Questa era una supposizione molto antica, probabilmente risalente ai medici ippocratici, i quali ritenevano si trovasse nel cranio una ghiandola secernente il muco, prima che questo venisse poi espulso attraverso le fosse nasali. (10)
I teologi cristiani guardavano favorevolmente alle dottrine ereditate dall’Antichità, che privilegiavano il cuore, purché fossero compatibili con le affermazioni ebraiche e cristiane enunciate nelle Sacre Scritture. Non credevano che lo spirito fosse innato o fosse il risultato di complessi processi fisiologici, come avevano affermato Aristotele e Galeno, ma sostenevano che provenisse dal respiro di Dio. Un Dio che secondo la Genesiaveva donato la vita e l’anima all'uomo, plasmato con la terra, pervadendo di queste forza l’insieme corporeo. Il cuore restava pertanto l'organo egemonico dell’organismo e la sede dell'intelletto e della forza vitale. Nell'Europa medievale il termine spirito finì con il ricevere una varietà di significati, sia teologici che fisiologici. La sorgente dello spirito era nel cuore, che risultava essere anche la sede dell'anima.
Contemporaneamente l’afflato vitale che si formava nel cuore, originariamente concepito dalla medicina greca come un nutrimento per il corpo e il substrato per la produzione dello pneuma psichico, acquistò una posizione privilegiata come oggetto di emanazione divina, l'anima appunto, che conservava una supremazia su tutto l’individuo. Il pneuma psichico fu ritenuto agire in modo intermittente, secondo la volontà non meglio precisata dell'anima e il cervello divenne uno degli oggetti di questa attività vitalizzante. Le dottrine mediche che si affermarono nel Medioevo ebbero conseguenze negative sul progresso delle scienze naturali, perché si riducevano allo spiegare i fenomeni fisiologici attraverso una causa soprannaturale, anziché sulla base di meccanismi biologici di cui si poteva avere esperienza. La successiva versione in latino delle opere aristoteliche, avvenuta nel XII secolo per merito di grandi eruditi come Gerardo da Cremona (1114-1187), aprì nuovi orizzonti agli studiosi occidentali anche nel campo della medicina e delle scienze naturali. (11)
Gli insegnamenti di Aristotele e quelli del filosofo, medico e suo commentatore arabo Averroè, Ibn Rush (1126-1198), provocarono un fiorire di teorie e di scuole di pensiero che vennero prima tollerate e poi represse con determinazione dal pensiero ufficiale della Chiesa e dalle sue
autorità. Nel 1277, a tre anni dalla morte di San Tommaso d’Aquino, il vescovo di Parigi Stefano Tempier pronunciò una dura condanna di 219 tesi aristoteliche e averroiste che i professori dell’Università di Parigi avevano incautamente adottato nei loro insegnamenti. Le due maggiori tesi eretiche che vennero messe sotto accusa affermavano che il mondo e la materia fossero eterni e che vi fosse un’unicità dell’intelletto, vale a dire della capacità di comprendere la realtà valida per tutti gli uomini. Una possibilità questa preesistente alla creazione della natura, di tipo immortale ed eterno. (12)
Una condotta altrettanto rivoluzionaria nei confronti dell’indagine sul corpo umano e quindi sulla sua struttura anatomica, fu quella intrapresa da Andreas van Wesel, il cui nome latinizzato venne reso con Andrea VesalioAndrea Vesalio (1514-1564). La ricerca scientifica di questo scienziato costituì il punto di svolta e di non ritorno nella concezione del corpo che segnò l’avvento dell’Età Moderna. Vesalio era originario delle Fiandre. Era nato a Bruxelles da una famiglia ricca e nobile. Dopo la laurea in medicina, conseguita giovanissimo a Lovanio, venne in Italia a studiare e a perfezionarsi tra l’Università di Bologna e quella di Padova. Il suo campo di ricerca fu l’Anatomia, una disciplina che risultava abbandonata da secoli dagli studi innovativi, sia per l’idea aristotelica che ciò che fosse osservabile negli animali potesse tranquillamente essere applicabile anche agli uomini, sia per l’enorme monumento costituito dalle osservazioni compiute da Galeno. Insegnamenti questi ultimi su cui si erano formati generazioni di medici, ma che erano state effettuati per lo più attraverso la dissezione di animali, come i cani, i maiali, le scimmie e solo raramente gli uomini. Le lezioni di anatomia nelle università al tempo di Vesalio erano condotte da un magister, che rimaneva seduto alla sua cattedra, come si trattasse di un piccolo trono, con il testo di Galeno davanti agli occhi. Da quel posto elevato rispetto all’auditorio l’insegnante dava disposizioni agli inservienti, i quali il più delle volte erano semplici barbieri o cerusici, perché sezionassero i cadaveri di uomini o animali a scopo didattico. Non era possibile dissentire dall’interpretazione galenica che veniva mostrata agli studenti e che era stata rigidamente codificata ed ingessata da oltre mille e trecento anni di ripetizioni acritiche. (13)
Vesalio rivoluzionò questo mondo insegnare la medicina. Scese dalla cattedra e iniziò a sezionare personalmente i cadaveri. Utilizzò unicamente cadaveri umani, che si faceva procacciare in grande quantità.
Il risultato di questo lavoro, durato alcuni anni e condotto con l’energia che la giovane età del medico poteva suggerire, fu un testo fondamentale e innovativo per l’anatomia umana e la visione epistemologica della cultura europea, pubblicato a Basilea nel 1543: il De humani corporis fabrica. L’effetto di tale pubblicazione fu devastante. Per una di quelle apparenti casualità, che risulta difficile giustificare razionalmente, il libro di Vesalio uscì nello stesso anno di un altro volume rivoluzionario per la scienza moderna: il De revolutionibus orbium coelestium di Nicolò Copernico (Norimberga, 1543). In questo secondo volume l’astronomo polacco affermava che il Sole fosse il centro del Sistema solare al posto della Terra e che tutti pianeti ruotassero intorno alla stella.
I colleghi di Vesalio criticarono senza risparmio il De humani corporis fabrica, ma la fama raggiunta e la sapienza dimostrata procurarono invece al suo autore l’incarico ambitissimo di medico di corte dell’imperatore Carlo V, l’uomo più potente dell’Europa del tempo. L’importanza del pensiero di Vesalio nella storia della medicina consistette nel discendere dalla cattedra del magister che commentava, senza sporcarsi le mani, l’opera del cerusico. Da questo comportamento pragmatico era derivata una conseguenza ideologica importante, l’aver messo in risalto la necessità di coniugare le teorie anatomiche e funzionali sul corpo umano con la dimostrazione concreta di quanto si poteva osservare nel cadavere.
L’avere affermato che solo ciò che si poteva vedere e provare attraverso l’esperienza diretta poteva divenire oggetto di studio e d’insegnamento.
Vesalio ipotizzò un legame diretto tra le dimensioni del cervello e le capacità psicologiche e funzionali dell’organo. Continuò a credere nell’esistenza di un struttura cavitaria delle fibre nervose, sebbene dichiarasse di non essere mai riuscito ad osservarla. Ritenne difficile attribuire un’attività ideativa ai ventricoli cerebrali, che gli apparvero desolatamente vuoti alla loro sezione, concludendo come fosse impossibile spiegare concretamente, attraverso le conoscenze disponibili il pensiero razionale, che pure pareva scaturire da qualche recesso misterioso della scatola cranica. Per far compiere un salto qualitativo alla ricerca scientifica e per poter ricavare da questa delle informazioni e una cultura condivisa era necessario adottare una metodologia nuova, uno strumento teorico e pratico che facesse uscire le scienze naturali dalla pura esercitazione ideologica dei filosofi e dall’attività intensa, ma solitaria e spesso frustrante, quale era stata quella degli studiosi di anatomia del Rinascimento e del XVI secolo.
L’Europa della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) era un mondo violento. La medicina ufficiale insegnata nelle università contemplava sé stessa nella ripetizione delle formule ippocratiche e aristoteliche, magari sostenute dal medievale Canone di Avicenna. Tuttavia, fuori dalle mura delle istituzioni, la situazione era drammaticamente diversa.
Proliferavano i maghi e gli evocatori di energie soprannaturali, che utilizzavano il loro sapere in modo ciarlatanesco e fumoso, ammantandolo con l’utilizzo di espressioni astruse e cortine verbali fantasmagoriche, basate sull’approssimazione e la malafede. Archetipo di tali figure di millantatori scientifici può essere considerato il Dottor Purgone, eroe negativo e personaggio della commedia le Malade Immaginaire di Molière. L’ultima opera questa del grande uomo di teatro francese, che morì realmente sulla scena nel febbraio del 1673, durante una delle prime rappresentazioni di questa sua pièce. (14)
In anni solo di poco precedenti, attraverso il pensiero di René Descartes (1589-1650), era nata la Dicotomia Cartesiana, vale a dire la distinzione operata da questo filosofo tra la res extensa e la res cogitans.

 

René Descartes

 

Questa distinzione concettuale ha influenzato tutto l’itinerario conoscitivo dell’Occidente europeo. Per Cartesio la capacità del pensiero era legata alla res cogitans, la sostanza che pensa. Cartesio la concepì come un'entità non materiale, priva di estensione fisica e impossibile da localizzare nello spazio. Diversamente dal corpo, considerato come res extensa, non poteva essere descritta in termini concreti di dimensioni, peso, consistenza e via elencando. La res extensa si poteva considerare come una qualità della corporeità, che rispondeva alle leggi della fisica e della meccanica e poteva essere indagata attraverso la fisiologia e le scienze naturali. La res cogitans si definiva invece come un’entità pensante, propria della condizione umana, cui si attribuiva la consapevolezza del proprio sé. Era pertanto immateriale, non-misurabile e poteva essere scrutata e compresa solo attraverso la psicologia e le scienze umane. (15)
Con il passare degli anni Cartesio modificò questa iniziale concezione dualistica di tipo radicale. Dopo un lungo percorso di elaborazione e verso la fine della propria vita giunse alla conclusione che le due differenti sostanze non interagissero tra di loro nel cuore o nel cervello, ma nella ghiandola pineale, l’epifisi, un piccolo organo endocrino situato in prossimità del terzo ventricolo cerebrale, che oggi sappiamo essere legato alla produzione della melatonina. Cartesio fu colpito dalla sua unicità, rispetto alla maggioranza degli altri organi del corpo umano, che si presentavano anatomicamente e funzionalmente come duplici ed anatomicamente simmetrici.


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Bibliografia

1. Finger S., Origins of Neuroscience, Oxford University Press, 1994.
2. BreastedJ.H., The Edwin Smith Surgical Papyrus, Chicago, University of Chicago Press, 1930.
3. Ghalioungui P., Magic and Medical Science in Ancient Egypt, New York, 1965.
4. Allen J. P., The Art of Medicine in Ancient Egypt, New York, 2005.
5. Abbagnano N., Storia della Filosofia, Torino, 1966.
6. Musti D., Manuale di Storia Greca, Bari, 1994.
7. Littré E., Oeuvres complète d’Hippocrate, Paris-Amsterdam, 1973-1978.
8. Adorno F., La filosofia antica, Milano, 1990.
9. Aristotele, Opere, Roma-Bari, 1973.
10. Geymonat L., Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano,1970.
11. Seyyed Hossein Nasr, Scienza e civiltà nell'Islam, Milano, 1977.
12. Fumagalli Beonio Brocchieri M. T., Parodi M., Storia della Filosofia Medievale, Bari, 2005.
13. Perozziello F. E., Storia del pensiero medico. Il Rinascimento, la nascita della scienza nuova e il secolo dei lumi, Fidenza (PR), 2008.
14. Molière, Commedie, Milano, 2006.
15. Cartesio, Discorso sul metodo, Roma, 1986


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