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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

La Crisi delle Scienze ed il Compito della Filosofia

di Anonimo - Settembre 2017

 

 

1. Positivismo fra storicità ed errore

Il ciclo di conferenze tenuto a Praga da Husserl reca un titolo apparentemente paradossale. Egli pronuncia, infatti, la Crisi delle scienze europee proprio all’interno di un’epoca contraddistinta dalla ricca fioritura di teorizzazioni naturaliste, da un progresso tecno-scientifico galoppante e dall’affermazione quasi indiscussa del positivismo come visione filosofica del mondo vera, all’interno e all’esterno della comunità scientifica. In che senso, dunque, si può legittimamente parlare di una crisi delle scienze? Husserl giustifica la propria posizione chiamando in causa le scienze che per secoli hanno rappresentato il modello idealtipico di rigore ed incontrovertibilità, quali la matematica pura e la fisica classica, ma anche le più recenti scienze dello spirito. Queste, argomenta, si sono dimostrate “passibili di evoluzione”. Esse hanno, cioè, ceduto il passo a nuove elaborazioni teoriche che hanno rivoluzionato dall’interno tali ambiti del sapere, superandoli e catalogandoli come erronei1. Husserl insiste in tal modo sulla storicità del sapere scientifico e alle implicazioni che ne conseguono all’interno di una visione del mondo come quella positivista. Se, infatti, esiste una realtà in sé, unica e compatta nella propria spaziotemporalità, il sapere vero conseguibile intorno ad essa è uno ed uno solo. Un quadro, ad esempio, potrà essere oggetto di un discorso estetico, storico, sociale, etc., ma contro queste discettazioni arbitrarie solo il sapere scientifico avrà gli strumenti per accostarsi alla verità del quadro in-sé, a ciò che esso è veramente. Questa ‘realtà’ del quadro, nella fattispecie, si esaurirebbe nella sua mera cosalità, cioè la sua estensione, larghezza, profondità e qualità fisiche affini. Se, dunque, il sapere scientifico contemporaneo ha un sapere intorno al mondo, per la natura stessa di questo sapere esso deve essere unico ed esclusivo. Ora: il sapere della fisica classica antecedente viene falsificato da questo; dunque, esso era falso. E, tuttavia, è proprio questo sapere falso ad aver consentito il germogliare di quello contemporaneo e a costituirne il fondamento. In altri termini, la verità proviene da un errore e su di esso si fonda. È fondamentale sottolineare che, in quest’ottica, la falsità del sapere passato non è determinata dal superamento di quello attuale, ma dalla sua mancata aderenza alle cose in sé. Il sapere passato sarebbe sempre stato falso, solo l’umanità non era sufficientemente progredita per riconoscerlo. Queste considerazioni, che parrebbero l’alveo di un progresso scientifico in perpetuo perfezionamento fino al trionfale conseguimento della Verità del mondo, celano in realtà un insanabile scetticismo. Se, infatti, la scienza è un sapere esatto, come ha potuto essere falsificata? Questo problema non rappresenta semplicemente un’isolata spina, insidiosa ma superabile. La storicità, ovvero la dialettica che identifica Concetto e Tempo, in relazione al sapere scientifico e alle sue premesse ne destituisce tout court la presunta esattezza. Ne va, cioè, della scientificità della scienza. Questo problema, evidentemente, implica una revisione integrale del significato profondo dell’operare e del sapere scientifici, poiché “la crisi di una scienza comporta nientemeno che la sua scientificità, il modo in cui si è proposta i suoi compiti e perciò in cui ha elaborato la propria metodica, siano diventati dubbi” 2. Con queste parole, Husserl tematizza esplicitamente ciò che è in questione nella crisi delle scienze: il loro metodo, il loro compito, la loro verità.

 

2. I confini del sapere triste

Effettivamente, questi grovigli irrisolti del pensiero scientifico hanno delle conseguenze manifeste e caratterizzanti il mondo contemporaneo. Gli uomini, che dovrebbero essere soggetti e destinatari del sapere scientifico, non sembrano affatto ritrovarsi nella posizione di liberi fruitori della scienza. Infatti,

 

“[n]ella miseria della nostra vita […] questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del proprio destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso.” 3

 

Quello scientifico è, insomma, un sapere triste. Esso sembra aprirsi ad un indefinito avanzamento, eppure non si muove d’un passo sulle questioni esistenziali di un’umanità mendicante. Queste esigenze verrebbero fatte rientrare dalla scienza nel novero della ‘superstiziosa’ metafisica, ambito conoscitivo che non conosce progressi nel tempo e che affabula soluzioni provvisorie di comodo, senza giungere ad alcun approdo concreto o stabile. Si tratterebbe delle celebri domande cui l’uomo non può rispondere, ma che non può evitare di porsi – con un’eco esplicita alle prime righe della Prefazione alla kantiana Critica della Ragion Pura, la quale recava ben altro spirito filosofico. Ebbene, è fondamentale sottolineare che queste domande non costituiscono un vezzo umorale ed idiosincratico per intrattenersi nei piaceri dell’otium; esse sono, al contrario, l’esigenza concreta e cruciale della collocazione dell’uomo nel mondo e del senso del suo vivere ed agire. Questi tarli del pensiero, tanto stringenti ed incalzanti, non possono che essere liquidate dalla scienza, in quanto ad essi non esiste, né può esistere, una risposta fattuale. Nessuna immagine, proposizione o calcolo risponde alla domanda “da dove veniamo?”; eppure non tutte le risposte si equivalgono: al contrario, il significato delle risposte qualifica il senso effettivo dell’agire. Questa mancanza è intrinseca al sapere che procede dal metodo scientifico, che, come nota Husserl, di principio non può pervenire ad una soluzione. “Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto” 4. Quale sapere, dunque, può farsi carico di questa mancanza? Apparentemente, sembra non esservi spazio che per la superstizione e lo spiritualismo. Se la scienza è l’incarnazione più rigorosa della ragione, le domande cui essa non può fornire risposta saranno rimesse inevitabilmente a ciò che razionale non è affatto. È questa, infatti, la tendenza della filosofia coeva ad Husserl, che “minaccia di soccombere alla scepsi, all’irrazionalismo, al misticismo”5. Ecco in modo esemplare come le tendenze storiche irrazionaliste non siano affatto eccezionali e slegate dal razionalismo, ma ne sono al contrario il prodotto. Ma Husserl non si stanca mai di ripetere come l’alternativa al razionalismo non sia la mistica, bensì la Ragione, della quale il razionalismo moderno è solo un’appendice storica. È a questo punto che fa il proprio ingresso la Filosofia, essa stessa ‘malata’ della visione ontologica del mondo positivista, ma la sola a poter assumere su di sé il peso di una rifondazione razionale del sapere.

 

3. La matematizzazione del mondo

Prima di definire i compiti di una Filosofia storicamente consapevole, Husserl si impegna in una genealogia attraverso la quale denunciare i peccati del sapere scientifico. L’origine del pervertimento di quest’ultimo viene collocato nella fase terminale del Rinascimento. In quell’epoca, gli intellettuali condussero una vera e propria rivoluzione contro la tradizione medievale, disattendendone i principi di autorità immutabili. Gli uomini vollero allora definire liberamente e attraverso la propria ragione le proprie forme di esistenza individuali, sociali e politiche - dunque pratiche e tali da trasformare il mondo oggettivamente – a partire da una revisione teoretica autonoma dell’eredità passata6. Nella lettura di Husserl, che sembra proiettare retrospettivamente il più recente immaginario illuminista, l’atteggiamento rinascimentale attinse con rinnovato interesse alla classicità greca, vera e propria fucina dell’homo philosophicus, ed in particolare al platonismo7. A partire da questo contesto antico, dove era assente una disciplina come la scienza modernamente intesa, Husserl individua una continuità che si protrasse fino al Rinascimento: l’universalità, l’onnicomprensività e l’unità del sapere vero. Questi tratti specifici della filosofia greca classica furono entusiasticamente ereditati e fissati programmaticamente come vocazione della nuova conoscenza razionale. Quest’ultima, tuttavia, venne esercitata ed indirizzata in modo totalmente dissimile dall’esperienza greca, pur senza metterne in discussione le premesse, e, anzi, ritenendo di rispettarle e vederle attuate nella prassi. L’itinerario che condusse ad un pervertimento inconsapevole della vocazione filosofica della scienza può essere abbozzato nei seguenti termini.   Le uniche scienze ritenute vere ed incontrovertibili, secondo i criteri di verità ereditati dalla classicità, erano la matematica e la geometria. Esse, infatti, non erano mai state falsificate nel corso della storia e, anzi, prosperavano attraverso quelli che Kant avrebbe definito ‘giudizi sintetici a priori’, ovvero la deduzione di nuove informazioni universali e necessarie, ma non visibili come autoevidenti dalle loro premesse. Una tale efficacia riposava effettivamente su una visione del mondo di ascendenza platonico-pitagorica, la quale riteneva essere il numero il principio ordinatore della realtà. Il numero, infatti, era considerato un’oggettualità ideale della quale il reale avrebbe partecipato per metessi e alla luce della quale esso sarebbe stato accessibile in termini conoscitivi. Ciò, in ogni caso, non implicava in alcun modo che la realtà potesse esser riducibile a ciò che fosse numerabile. Nell’alveo di queste considerazioni, il ‘prurito’ della verità manifestata dalle scienze geometrico-matematiche spinse l’evo moderno al tentativo di trasferire ed applicare tale modello di esattezza alla conoscenza empirica, ritenuta ormai fonte di errore ed inganno dalle varie teorie più o meno esplicitamente rappresentazionaliste (secondo le quali, cioè, ai sensi si offrirebbero solo i fenomeni apparenti ed illusori del mondo, e non le cose stesse). Si tentò così di ‘naturalizzare’ la natura – cioè l’essere tout court –, attraverso una sua matematizzazione, con l’ambizione di accederne all’essenza e spiegarla attraverso questo processo. Evidentemente, la significativa componente teologica della modernità tendeva a calmierare la vanità di una spiegazione della totalità dell’essere attraverso le sole formule. Ma in questo passo accorto era già contenuto un salto qualitativamente fatale: se attraverso la matematica è spiegabile anche solo una regione dell’essere (nel senso in cui la formula lo riflette integralmente, lo restituisce senza perdita di contenuto essenziale), allora la totalità della natura è spiegabile in termini scientifici almeno di principio ed il conseguimento della conoscenza esaustiva intorno ad essa non sarà che una progressiva appropriazione. Proprio da questo origina, come Husserl nota, la specializzazione scientifica come ci viene presentata dalla modernità: affinché possano svilupparsi delle scienze locali e specializzate, affinché ciò abbia senso, la natura dev’essere già stata sminuzzata in ‘porzioni d’essere’.

Il processo della ‘matematizzazione del mondo’ consistette essenzialmente nell’ibridazione di geometria ed aritmetica attraverso gli assi cartesiani, i quali consentivano di ricreare uno spazio piatto, attingibile attraverso le sole funzioni matematiche. Il passo successivo fu l’intersecazione degli spazi cartesiani, così da ottenere la tridimensionalità degli oggetti fisici. Questa operazione, che rispecchiava un clima intellettuale condiviso (formulazioni molto analoghe compaiono tanto in Galilei quanto in Descartes o in Locke), dava vita a quella che sarebbe divenuta la visione ontologica portante di tutta la scienza seguente, incarnando pienamente lo spirito della rivoluzione scientifica del rinascimento: il fisicalismo. La visione del mondo fisicalista può essere così bruscamente semplificata: non esistono altro che cose e fatti spaziotemporali. L’essere nella sua interezza viene ricondotto a ciò che è conoscibile attraverso il calcolo e la misura – cioè: lo strumento di misurazione, che presupporrebbe l’offrirsi spontaneo dell’ente, diviene talmente efficace da farsi esso stesso garante dell’esistenza e della verità dell’ente che si appresta misurare. L’ente nella sua infinita varietà viene appiattito alla sua geometrizzazione e matematizzazione. La conoscenza dell’ente geometrico-matematico avrebbe dovuto corrispondere a ed esaurire la conoscenza dell’ente in sé, dell’essere stesso dell’ente. Così, tutto ciò che esulava da questa possibilità di conoscenza veniva sbrigativamente definito ‘illusorio’, incompreso in quanto epifenomeno di principio riconducibile ad uno stato fisico scientificamente conoscibile.

 

4. Quel che viene perduto

Il passaggio dal mondo dei cento passi al mondo dei cento metri è ormai compiuto; e in ciò vi è qualcosa di irrimediabilmente perduto. Sono perdute in primo luogo tutte le operazioni materiali che hanno consentito l’insorgenza di una scienza, e, anzi, ne sono a fondamento. Husserl tematizza questa dimensione pre-scientifica come ‘il mondo della vita’ (Lebenswelt), il quale è costituito da inclinazioni, valori, desideri, significati, narrazioni ed un’infinità di contenuti non strettamente esistenti in senso realista. Il mondo della vita è l’originaria culla necessaria alla ragione per costituirsi, è il virginale prendersi cura delle cose mondane ed il perdersi in esse, come approfonditamente spiegherà Heidegger. È questa dimensione a realizzare l’essenziale conferimento di senso alla realtà e alla vita operante che in essa si muove – inclusa l’operazione scientifica, che nessuna ragione ha per essere privilegiata ontologicamente sulle innumerevoli altre. Il fallo dello scienziato si realizza così nel suo as-trarsi dalle operazioni che di volta in volta conduce, pensando che ad operare sia una specie di ‘soggetto puro’, l’occhio di Dio capace di vedere nientemeno che le cose in se stesse. Questo fraintendimento del metodo, che astrae se stesso e inevitabilmente anche i propri manufatti – e proprio in quanto procede così può specializzarsi – ha per esito un fatale svuotamento di significato della ricerca scientifica in relazione al mondo della vita sul quale essa stessa riposa9. Questa perdita di senso è uno dei sintomi essenziali che Husserl diagnostica nella crisi delle scienze. In secondo luogo, ciò che viene inesorabilmente smarrito è lo statuto della soggettività. Questa si manifesta come una presenza eccentrica: essa, infatti, non è con tutta evidenza un fenomeno fisico, né una cosa. Il soggetto non è un fatto spaziotemporale, e tuttavia la realtà non può che offrirsi a dei soggetti che profilano il mondo prospetticamente. Ma i risultati delle scienze naturali non s’arrendono a questa solitaria presenza ingombrante; abbiamo ormai stabilito irreversibilmente che la realtà è una sola, tutta fuori degli occhi che la catturano e vera solo nella sua cristallina inseità. Gli esiti cui questa premessa conduce possono essere due, entrambi coerenti con il razionalismo moderno: a) il soggetto viene riconvertito in una cosa. Esso potrebbe allora venir spiegato o attraverso un comportamento fisico (tabula rasa), oppure attraverso la sua riconduzione ad un sostrato materiale, che si rivela in ultima analisi una riduzione. Se, infatti, non esistono altro che cose fisiche, la soggettività deve essere essenzialmente niente di più che il fenomeno illusorio di uno stato di cose (ghiandola pineale, cervello); b) il soggetto è una sostanza totalmente distinta da quella fisica. È questa la soluzione di Cartesio, che, nella ‘Epoché a metà’ che Husserl gli attribuisce, non mette affatto fra parentesi il pregiudizio obiettivista. Secondo Husserl, infatti, Cartesio, nell’esercizio del dubbio radicale, rivolgerebbe lo scetticismo verso tutte le cose fisiche, senza mai sospendere realmente il giudizio che si tratti di cose esterne10. Questo residuo di ‘spazialità’ nel dubbio fa sì che, rivolgendolo alla soggettività, egli metta in discussione semplicemente la corporeità, conservando invece il pensiero come ubi consistam tanto incontrovertibile quanto disincarnato. Questa soluzione, apparentemente antitetica alla prima, è in realtà sulla stessa linea: essa cerca di liquidare tutte le componenti ritenute ineffettuali, epifenomeniche ed idiosincratiche (i sensi e, incidentalmente, tutte le qualità primarie, valori, desideri, etc.) per conservare il soggetto come pura ragione, come un occhio divino che ogni residuo corporeo tende ad insabbiare ed offuscare. Così il soggetto oscilla fra l’identificazione tutta platonica con la sola ragione e l’essere un diaframma fisico ad essa. Proprio per questo, del soggetto si occuperanno le scienze dello spirito e la psicologia, che Husserl tanto contrasta.

 

5. Il destino dell’Uomo nella Filosofia

Il processo qui brevemente delineato rappresenta un vero e proprio spartiacque nella storia dell’Uomo, che per Husserl è essenzialmente storia della Filosofia. I grandi risultati sortiti attraverso la tecnica scientifica hanno condotto ad una sostanziale traduzione di ciò che era un desideratum metodologicoobiettivista nella realtà delle cose stesse. Peraltro, allacciando questo avanzamento razionale alle teorie veramente filosofiche della classicità, la scienza ha conseguito ancora maggior vigore, pensando di esercitare coerentemente quel sapere che si interessa alla totalità dell’essere e tenta di renderne una spiegazione onnicomprensiva. Questa duplice considerazione conduce ai due veri peccati del sapere scientifico, a questo punto non veniali: l’assunzione del fisicalismo a visione ontologica del mondo, mentre esso non può in alcun modo esserlo; la sostituzione del metodo alla ragione tout court. Queste le propaggini della crisi delle scienze, che, come detto sopra, non vedono intaccati aspetti marginali del proprio procedere, ma la legittimità del loro metodo, della ‘scientificità’ della scienza, dei suoi compiti e della verità dei suoi esiti. L’epoca che assiste al trionfo dei risultati scientifici – malgrado tutto ciò e proprio grazie a tutto ciò – non può lasciare incolume la Filosofia, che respira il fallimento della propria regalità antica. Eppure la nostalgia si converte più spesso in uno scimmiottamento della pratica scientifica, attraverso l’adozione della specializzazione, della divisione del lavoro, dei ‘settori del sapere’; in una spassionata adesione agli ideali ontologici della scienza piuttosto che in una loro attenta critica; in un sapere misticheggiante dell’anima e dell’irrazionale, che si appaga del proprio angusto cortile che dalla scienza ancora non sembra poterle essere rivendicato; oppure, ancora, nei perpetuamente rinnovati scetticismi, “le non-filosofie, che hanno mantenuto il nome ma che hanno perduto la coscienza dei loro compiti” 11. Ma, con tutta evidenza, decretare il fallimento della Filosofia innanzi ai suoi insuccessi nel conseguimento di traguardi durevoli, rispetto all’incontrastato progresso scientifico, significa non aver affatto compreso la sua vocazione profonda. È infatti l’assunzione, e solo questa, del modello obiettivistico della verità a determinare l’insuccesso filosofico:

 

“per le anime, per la soggettività in quanto individuale, in quanto concretata nella persona, nella vita singola, e d’altra parte in quanto storica e sociale, […] un’obiettività del genere di quella delle scienze naturali è un controsenso.”12

 

Tutto ciò, infatti, è un puro errore filosofico, poiché quello obiettivistico, date le sue premesse, non è, né può essere un modello veritativo. La Filosofia non ‘riesce’, non trionfa, non commisura la propria verità sui buoni manufatti che riesce a produrre perché la verità non è una questione di buon artigianato. Il senso della verità è etico. Il senso autentico delle proprie azioni, dei propri progetti, della propria vita è intimamente legato alla ragione, come ciò che caratterizza l’umano e gli consente di affermarsi e conquistarsi in quanto tale. Non si tratta affatto di una cura marginale, accanto all’indaffaramento serio e concreto, bensì il senso stesso di una vita umana e l’elaborazione del significato del suo mondo, ovverosia del mondo intero. In questo senso il filosofo è un “funzionario dell’umanità”, poiché la sua vocazione non è tanto la prerogativa di una cerchia professionale, quanto dell’umano ‘vivere nella verità’ –  alla vita pratica dalla verità razionale, “quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente la volontà” 13. La Filosofia, in un certo senso, fa il punto dell’auto-rischiaramento dell’Uomo nella Storia e lo orienta nell’Avvenire. Questa verità, in questa pertinenza all’umano, è stata irrefutabilmente fallita dal progetto scientifico, che ha pensato di poter conseguire una verità del mondo abbandonando la metafisica, il solo sapere universale votato a quello scopo ed indispensabile per avvicinarlo. Infatti: “è possibile separare la ragione e l’essente se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina ciò che l’essente è?” 14. Con tutta evidenza la risposta è negativa; ma, dunque, a divenir cruciale sarà come orientare la ragione, determinandone l’assiologia e l’ontologia in una sola battuta – “Il vero essere è sempre un fine ideale, un compito dell’episteme, della “ragione”, in contrapposizione a quell’essere che la doxa ammette e suppone “ovvio”15.

La parabola che conduce la scienza alla sua crisi è un destino necessario. Compito della Filosofia sarà, allora, raccoglierne le macerie ed infondervi nuova linfa, assumendo su di sé tra l’altro l’elaborazione di un metodo propriamente filosofico e la riconversione della ragione – non atea, non religiosa, non scientifica, ma filosofica o, il che è lo stesso, propriamente umana - nella sua attività di rischiaramento ed orientazione nel mondo dotata di senso.

 

“Il compito del filosofo, lo scopo della sua vita di filosofo: una scienza universale del mondo, un sapere universale, definitivo, un universo delle verità in sé attorno al mondo. […] Che dire di questo scopo e della possibilità di raggiungerlo?” 16.

 

La risposta a questo quesito sarà la più profonda responsabilità dell’Uomo storico e libero, per il quale la Filosofia non è la coordinata di un destino preesistente, ma la luce che, scandagliando il sentiero, produce una destinazione e vi conduce.

 

Anonimo
Autore su questo sito della rubrica: Prolegomeni all'Amarezza

 

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NOTE

1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2015, pp.41-42
2) Ivi, p. 41
3) Ivi, p.43
4) Ivi, p.43
5) Ivi, p.41
6) Ivi, p.44-45
7) Ivi, p.45
8) Ivi, p.92-93
9) Ivi, p.146-158
10) Ivi, p.102-110
11) Ivi, p.51
12) Ivi, p.269
13) Ivi, p.53
14) Ivi, p.48
15) Ivi, p.49
16) Ivi, p.267


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