Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La bellezza della divinità
di Marco Calzoli - Gennaio 2023
Il confucianesimo non è una unica realtà, ma è internamente articolato. Non è qualcosa di astorico, immobile, ma una tradizione, vivente, che si sviluppa nel corso della storia della Cina. Oggi ci sono delle visioni della Cina le quali la considerano alla stregua di un grande monolite, invece il pensiero cinese si evolve nel tempo riformulandosi strada facendo.
Agli inizi il confucianesimo voleva parlare all’umanità intera e non solo ai cinesi. Il confucianesimo ha certamente aspetti identitari nel discorso della esaltazione della Cina, ma il confucianesimo ha sempre avuto un afflato universalistico. Sono due poli distinti ma presenti nella tradizione confuciana, così come in ogni grande tradizione spirituale. Anche se la Cina ha sempre avuto una visione etnocentrica, analoga a quella della Grecia antica: afflato universalistico ma inteso come espansione nel mondo intero del proprio insegnamento e della propria superiorità.
Un altro luogo comune è che il confucianesimo non abbia interessi spirituali e mistici. Questa visione non ha nessuna conferma da parte della storia. Il pensiero cinese non ha mai elaborato una vera teologia, come invece fanno i filosofi greci e il cristianesimo. Tuttavia si parla di Cielo, che può essere inteso in parte come divinità suprema in parte come natura.
Inoltre, si parla della Cina come di una grande tradizione dell’armonia. In realtà la Cina è stata da sempre, ieri come oggi, un luogo conflittuale, militarmente e anche ideologicamente. Anche se l’armonia è sempre stata una grande aspirazione dei cinesi.
In Cina c’è un aspetto attivo e un aspetto contemplativo, come nelle diverse popolazioni orientali. Di solito si considera il confucianesimo come attivo, mentre il taoismo come contemplativo. Ma non è sempre così. Ci sono anche pagine del confuciano Mencio in cui si parla dell’unità con tutti gli esseri mediante una rarefatta contemplazione. Anche Confucio diceva: “Voglio tacere e forse parla il Cielo”. Ma nello stesso taoismo, sebbene si proponga il ritiro dalla società e dagli affari dello stato, c’è un lato attivo. Molte grandi rivolte nella Cina del passato, infatti, sono state ispirate dal taoismo, in movimenti analoghi ai movimenti pauperistici medioevali qui da noi. Erano cioè rivolte egualitarie che, secondo altri presupposti rispetto all’Occidente, si opponevano a una società fondata sulla gerarchia. La Cina sin da tempi molto antichi è stata dilaniata da grandi rivolte popolari, anche di altra ispirazione.
Del resto, il confucianesimo è stato spesso attaccato dalle altre visioni del mondo nate in Cina. Per esempio, dal taoismo (esaltazione della natura e del ritorno al legno grezzo, come un neonato, spogliandosi degli artifici della società e della cultura in vista di un approccio originario con la natura, mentre il confucianesimo si basa sul dovere e sul controllo della mente per seguire le virtù) e dal legismo (interessato al gestione del potere statale con metodi rudi), contro i quali si batte Mencio, nel IV secolo a.C., l’altro grande padre del confucianesimo, due secoli dopo la vita di Confucio.
Tuttavia confucianesimo e taoismo, pur essendo all’antipodo, condividono il concetto che l’ordine del mondo si debba realizzare mediante una trasformazione radicale dell’essere umano: per il primo la trasformazione è nell’umanesimo, per il secondo è nel ritorno alla natura e alla mente libera. Invece il legismo vuole uno stato autoritario realizzato mediante ila forza e la coercizione. Confucianesimo e taoismo, rispetto al legismo, sono uniti per via della propensione verso un ideale umano di santità.
Tutta la Cina ha elaborato un pensiero del Tao, invece la Grecia un pensiero basato sul logos. Per i confuciani il Tao è la Via morale, per i taoisti è la Realtà costitutiva. Tao significa anche Parola e nelle concezioni orientali si incontra spesso la Parola Assoluta, alla base di tutto quanto esiste. In sanscrito kāvya significa sia “creazione” sia “poema”, così come può significare anche la nostra parola “opera”.
Nel mondo vedico il rito è fondamentale per il mantenimento dell’ordine cosmico (ṛta). Nel sacrificio i diversi atti, come la cottura, la spremitura, la libazione sul fuoco, sono i diversi elementi o momenti in cui si articola l’ordine cosmico stesso. Ed esiste un principio basilare del rito, inteso in questa maniera come forza cosmica, e la Parola. L’effetto del rito non è immediato, non è ascrivibile ad una forza di causa-effetto, per cui si esegue il rito e quindi immediatamente si ottengono dei risultati. È il principio dell’apurva. Tra il rito e il suo effetto vi è una rottura, un modo di agire onnipresente e quindi non ordinario, così come vi è nella parola poetica. Alla base delle figure retoriche, che costituiscono il discorso artistico, vi è vaicitrya, “diversità-stranezza”, oppure bhangi, “rottura”, oppure vakrokti, “dizione curva”: la figura retorica è un discorso non immediato, allusivo, nel quale vi è una rottura, un intermezzo, al contrario della parola ordinaria, che significa immediatamente qualche cosa. In questa maniera il rito esige una rottura con l’effetto, che quindi non è immediato.
Nell’induismo si afferma: la divinità superna parla e dice “quel grande nome segreto (nāma guhyam) dai molteplici effetti (puruspṛk) con cui tu produci tutto ciò che è stato e che sarà” (Ṛg-Veda X, 55, 2). Nei Veda si rivela che la Sillaba Sacra da cui discende tutta la creazione è AUṂ, conosciuta in seguito come OṂ. La sillaba au forma un dittongo della lingua sanscrita, il quale aveva, nelle fasi più antiche della lingua, la prima vocale lunga (āu); ma in sanscrito già in antichità questo dittongo extra-lungo si ridusse a dittongo regolare lungo (cioè con la prima vocale breve: au); in seguito il dittongo regolare au si ridusse a monottongo, cioè a semplice vocale di timbro o. In questo modo si spiega il passaggio di AUṂ a OṂ. Per fare un esempio, in sanscrito auṣṭha significa “a forma di labbro” e riflette una fase della lingua nella quale il dittongo au si mantiene ancora, invece oṣṭha, “labbro”, riflette una fase della lingua nella quale il dittongo au si è già monottongato nella vocale semplice o. Invece Ṃ alla fine della Sillaba Sacra (AUṂ, OṂ) è un anunasika, cioè un suono nasale riguardo la cui origine gli studiosi non concordano.
Misticamente la A allude al mondo fisico (nell’uomo il corpo fisico), la U allude al mondo sottile (nell’uomo il corpo psichico), la Ṃ al mondo causale, non manifesto (nell’uomo il puro spirito). Graficamente la Sillaba Sacra è sovrastata da una mezzaluna con sopra un punto, si tratta di Nada e Bindu, le due forze cosmiche necessarie alla creazione, che procede dal mondo causale a quello sottile per determinare infine il mondo fisico.
L’Uno primordiale diviene Molti e si unisce ad essi fino a comprenderli tutti mediante Kama, il Desiderio. Nell’Atharva-Veda Kama, il dio dell’amore, è il primo dio di cui si propone l’adorazione e del quale si disciplina il culto. Egli è l’origine di tutte le cose. Vāc, Parola, ne è la figlia.
Per la filosofia del buddhismo Mahayana le apparenze vengono assunte dagli organi di senso e considerate cose vere mediante un nome: le parole sono intese quali cose, quindi i simboli intesi come fossero realtà. Per cui la parola è la causa della idea di separazione, quindi dell’esistenza di un io individuale, con tutte le conseguenze negative: avidità, sete di potere, crudeltà. Ragion per cui il buddhismo insegna che dando il giusto nome alle cose si esca da questo circolo vizioso e si inizi ad avere una retta conoscenza di sé e del mondo. Allora per il buddhismo Mahayana la retta conoscenza assicurata dalla giusta parola svolge una funzione importante nella evoluzione dell’uomo.
La tradizione confuciana rifiuta la guerra e punta sulla umanità e il rispetto verso tutti. Deve esserci un saggio sovrano che incarni le virtù confuciane e sia in grado di governare senza oppressione, irradiando la sua santità. Mencio dirà che ci sarà la pace sulla terra sotto il Cielo quando gli uomini smetteranno di fare massacri. I termini confuciani antichi sono héping, “pace”, hé, “armonia”, rényi, “senso dell’umanità e della giustizia”, ren, “benevolenza”. Nel confucianesimo il fondamento di tutto l’ordine sociale è la famiglia e il rispetto verso i familiari. Nell’etica confuciana le relazioni sociali esterne devono somigliare all’amore che c’è in famiglia. Mencio dice che il buon sovrano deve essere per il popolo padre e madre.
Il termine cinese wang, “sovrano”, è rappresentato da tre linee orizzontali unite da una sola verticale. Il sovrano è il garante dell’armonia cosmica in quanto unisce in un tutto funzionante Cielo, Uomo, Terra. Il sovrano è concepito come Figlio del Cielo, in quanto per suo mandato realizza l’Axis Mundi, mettendo d’accordo tutti gli elementi costitutivi del reale. Il sovrano, per esempio, promulga anche il calendario, nel quale si ritmano i lavori agricoli con i tempi naturali. Non è solo una carica politica ma cosmica. C’è un grande ideale di concordia universale. Ma si tratta solo di un ideale, quasi mai realizzato politicamente e civilmente in Cina.
Il confucianesimo pone dei limiti al potere: il sovrano deve obbedire al Cielo, che simbolicamente rappresenta il senso dell’umanità e della giustizia. Mencio nel suo libro pone un dialogo tra l’uomo virtuoso, cioè Mencio stesso, e il sovrano: Mencio gli dice cosa deve fare, ma il sovrano disattende continuamente gli ideali confuciani.
Invece per i legisti il sovrano non è figlio del Cielo ma pari al Cielo: non ha nessuno al di sopra di sé. È il sovrano ad incarnare, per i legisti, la temibilità della legge penale. Il diritto civile in Cina viene amministrato mediante le consuetudini, mentre la legge è in Cina solo penale, che prevede castighi tremendi. La legge quindi non è a servizio del singolo, ma è a tutela dell’implacabile sistema statale.
Per il confucianesimo il senso dell’umanità è affidato a tutti, ma è responsabilità della classe dirigente, del sovrano. Quindi nel confucianesimo antico nasce il ruolo critico dell’intellettuale, che è il funzionario ideale: costui sarà obbediente ma si obbedisce solo al sovrano che realizza il senso dell’umanità e della giustizia; se il sovrano contravviene, l’intellettuale può e deve contrastarlo. Il funzionario leale deve vigilare sull’esercizio del potere. Un altro luogo comune è che in Cina i funzionari sono sempre obbedienti al potere, in realtà i funzionari sono spesso animati dal dovere della rimostranza. Tutto il libro di Mencio può essere letto come una grande rimostranza verso i sovrani che non sono attenti al senso di umanità ma pensano solo ad accrescere il loro potere.
Già i due grandi interpreti antichi del confucianesimo proponevano due visioni molto diverse dell’insegnamento di Confucio: Mencio e Xunzi, quest’ultimo vissuto nel III secolo a.C. Mencio realizzerà una visione ideale (tutti gli uomini devono tendere alla propria santità naturale), invece Xunzi avrà un approccio più realista (gli uomini sono cattivi per natura, non possono realizzare spontaneamente la santità, hanno propensione naturale all’aggressività e alla violenza: quindi i sovrani devono esercitare l’autorità mediante le leggi per imbrigliare la ferocia dell’uomo).
I primi testi della classicità cinese – quindi anche l’opera di Confucio: Lunyu, cioè i Dialoghi – si sviluppano su listarelle di bambù legate con lacci di corda: la scrittura è dall’alto al basso e da destra a sinistra. Più tardi si diffusero i rotoli di seta e quindi la carta (quest’ultima dal I secolo d.C.: all’incirca con la introduzione in Cina del buddhismo). Il Libro delle Odi, la prima e più celebre raccolta di poesie della Cina, è formato da 305 poesie, molte delle quali nascono in ambienti popolari, ma che poi divennero lo strumento formativo delle classi colte: era buona prassi da parte degli intellettuali cinesi citarne qualche verso nelle conversazioni. Nei Dialoghi di Confucio è riportata questa raccomandazione del Maestro al figlio Bo Yu: “Se non studi il Libro delle Odi, di cosa potrai parlare quando conversi?”. Nell’ode 168 (In campagna coi carri), vi è un verso che ha molto interessato i primi sinologi occidentali: “Temiamo gli ordini su liste scritti”. Questo verso confermava ai loro occhi che le liste (di bambù) erano usate per scrivere già in tempi remoti, certamente prima del VII secolo a.C.
Ma vi erano anche altri supporti scrittori, meno comuni. Pensiamo solo alle tavolette di giada, una pietra considerata il simbolo del potere cinese. L’imperatore, quando conquistava il potere supremo, saliva sul monte più alto e da lì lanciava tavolette di giada incise con scrittura e simboli per informare gli dei. Un riferimento a questo supporto lo troviamo anche nell’ode 256 (Serio): “Sulla candida giada un errore correggere si può, con il raschietto”. Nei Dialoghi di Confucio (XI.5) si legge che Nan Rong ripeteva tre volte al giorno questa espressione del Libro delle Odi per ricordarsi di parlare con circospezione. Oppure pensiamo all’ode 258 (La Via Lattea): “Non abbiamo ignorato sacrifici, e nemmeno lesinato vittime. È stata usata tutta la giada; perché resta muto alle suppliche?”. Il poeta si riferisce al fatto che gli spiriti non esaudiscono le suppliche e i sacrifici, ma anche le tavolette di giada. Infatti, in tempi di grandi calamità si facevano riti offrendo delle tavolette di giada di differenti colori agli spiriti, interrandole. Non solo, ma il Libro delle Odi testimonia anche la pratica della divinazione mediante i gusci di tartaruga, che poi venivano incisi con brevi scritte per indicare la realizzazione o meno dell’oracolo (per esempio nell’ode 169 è scritto: “Consulto i gusci e l’achillea; uguale è il responso: sta arrivando”).
La biografia di Confucio è presente nello Shiji (Memorie di uno storico) di Sima Qian (145-86 a.C.), una sorta di Tacito della Cina, in quanto muove una critica acuta nei confronti del dispotismo imperiale. Sima ci offre un ritratto dell’imperatore molto problematico. Sima era stato fatto evirare dall’imperatore per via di una rimostranza portata contro l’atteggiamento politico del sovrano (l’imperatore Wu nel 99 a.C.): allora, non potendo avere figli, Sima scelse di avere come progenie la propria opera.
Confucio è stato il primo in Cina a enunciare un insegnamento a proprio nome, nel quale si ribadisce il legame con la dinastia Zhou. Il pensiero confuciano ritiene questa dinastia un modello ideale di governo. “Trasmetto e non creo”, è un detto famoso di Confucio. Quindi questo sapiente si pone come un esegeta e non come un pensatore originale. Anche Platone si pone come un esegeta di Socrate, ma poi dice cose nuove. Allo stesso modo Confucio continua certamente la tradizione, ma nel momento in cui attua questa operazione la riformula. Per esempio, nella tradizione Zhou la nobiltà era un attributo di carattere sociale (aristocratico), ora con Confucio diventa un attributo di carattere etico e morale (uomo nobile d’animo, virtuoso), potenzialmente aperto ad ogni essere umano.
I Dialoghi di Confucio non esprimono le argomentazioni tipiche di Platone, ma sono costituiti principalmente di monologhi: è il Maestro che parla. Poi ci sono dei detti suoi e dei suoi allievi e frammenti di conversazione tra Maestro e discepoli o tra discepoli tra di loro. Quindi la lettura non è logica né sequenziale, ma la coerenza dell’opera si esprime sulla base di parole chiave che ricorrono leggendola tutta.
Però questa “ostentata modestia” non deve trarci in inganno. Nonostante la nostra epoca sia chiassosa, dove tutti cercano di parlare a lungo e bene per prevalere sugli altri, non deve stupirci che il Maestro possa parlare in prima persona, senza ostentare capacità dialettiche.
I confuciani hanno una fiducia assoluta nella cultura e nella educazione come sviluppo dell’uomo. Ma non si tratta solo di libri teorici, ma di una educazione che trasforma l’animo. I confuciani amano la poesia che fa rinverdire l’animo, amano la storia mediante la quale si impara a governare. Fiducia radicale nella possibilità dell’uomo di migliorare. È come se i confuciani ci dicessero che la realtà effettuale è violenta, ma non cede la loro fede incrollabile nella possibilità dell’uomo di divenire santo, uomo virtuoso e ligio al dovere, al contrario dell’uomo comune, dedito ai bassi istinti. Atteggiamento ottimistico verso la realtà e il futuro.
Mencio dice che il fine autonomo della azione è la virtù anziché l’interesse, come invece propugnato da altre scuole. L’azione deve essere disinteressata. Anche per Kant si fa il bene per il bene. Mozi critica aspramente i confuciani da più punti di vista e dice che la gente fa il bene solo convincendola che otterrà un vantaggio. In questo senso mette in scena una idea di Cielo non astratto ma con tratti antropomorfi, che interviene cioè sulle vicende umane con premi e castighi. Per Mozi il Cielo premia i buoni e castiga i malvagi. Per Mozi, gli uomini senza questa motivazione di interesse (non essere puniti) non si comporterebbero virtuosamente. Per Mozi la natura umana è egoistica, invece per i confuciani c’è una potenzialità di nobiltà interiore presente in ognuno di noi, che deve essere sviluppata dalla educazione. Per la prima volta con Mozi si ha la forma del trattato (e non più del dialogo come Confucio e Mencio), seguita da Xunzi e dai legisti, che scrivono mirabili trattati.
Mencio contrattacca la visione di Mozi (non solo, ma anche dei legisti) dicendo che l’umanità è buona in sé stessa, mentre Xunzi difende il confucianesimo dicendo che l’uomo deve rispettare i li, i riti, le norme, per essere indirizzato lungo la via del bene. I li non hanno la spietatezza delle leggi penali, ma sono norme tese a educare l’uomo con l’esempio e la sostanza, nella riproposizione continua della tradizione.
Xunzi è poco noto in Occidente, invece in Cina è paragonato a Aristotele. Probabilmente nella sua lunga vita ha avuto modo di vedere la nascita dell’Impero cinese. In tutto il pensiero pre-imperiale ci sono diverse posizioni circa la natura umana. Tutta una corrente dice che la moralità non è insita nel cuore dell’uomo: l’uomo è un essere selvaggio e incontrollabile se non è disciplinato dalle leggi penali. Xunzi si appella a una nozione di spontaneità che era stata ideata dai taoisti. Per questi le norme morali sono artificiali, ma l’essere umano deve compiere un percorso a ritroso e ritornare ad essere vicino alla natura: allora le norme morali sono costruzioni artificiali di cui liberarsi per ritornare alla spontaneità naturale. Mencio dice che l’uomo nasce anche con l’istinto morale e lo giustifica mediante un esempio famoso: mettiamo un bambino che cade dentro un pozzo, ciascuno di noi avrà un moto spontaneo di empatia verso il bambino e corre in suo aiuto, questo moto spontaneo appartiene al cuore dell’uomo fino dall’inizio. Quindi le norme morali non sono una costruzione artificiale, come sostenuto dai taoisti, ma sono presenti spontaneamente sin dalla nascita.
Per Xunzi invece l’uomo nasce all’inizio nasce con una natura selvaggia e conflittuale: occorre disciplinarla attraverso la cultura e le norme che vengono apprese. Per Xunzi le norme umane sono certamente artificiali, ma l’uomo può migliorarsi se le segue: l’uomo è cultura, non può regredire verso la natura, ma deve migliorarsi in continuazione. Per Mencio si insiste sull’empatia (la virtù, la santità interiore), invece Xunzi si disloca sul tema della regalità esteriore, sul governo del mondo, che non deve fare appello solo sui buoni sentimenti (Mencio) ma anche sulla educazione, che coltiva l’animo umano, e anche su alcuni provvedimenti coercitivi. L’educazione si fonda sui valori della tradizione.
In Cina quindi non si enfatizza l’individuo ma solo la tradizione. Infatti, in Cina i presunti ritratti dei saggi hanno poca attinenza alla caratterizzazione individuale, sembrano tutti molto simili. Invece nella Grecia antica c’era l’enfasi della individualità. È un tratto caratteristico dell’arte cinese antica, contrario al protagonismo dell’eroe tipico della Grecia. Per l’Occidente l’epica e la tragedia, imperniate sulla figura dell’eroe, sono tradizione fondativa, ma in Cina i generi fondativi sono la storiografia (per gli esempi morali) e la poesia lirica (che veicola i valori dei saggi).
In Cina esiste qualcosa che assomiglia all’epica, ma molto da lontano rispetto a quella occidentale, e comunque non è fondativa. Diversamente dall’epica occidentale, specie quella greca, l’epica cinese non è caratterizzata da spirito di avventura, bensì dall’aspirazione a costruire uno stato politico e sociale, improntato all’armonia con le genti e con la natura, utilizzando il ricorso alle armi solo per fronteggiare i barbari invasori o i vicini aggressivi (come descritto nella ode 263, che celebra una spedizione militare voluta dall’imperatore Xuan contro lo stato di Xu, popolato da barbari ivi stabilitisi). Nel Libro delle Odi abbiamo la sezione detta Odi Maggiori (Da ya: odi 235-265) nella quale vi sono alcune poesie alta espressione dell’epica cinese, pensiamo solo alla celebre ode 235 dedicata a re Wen, che, da defunto, brilla lassù, nel cielo luminoso. Invece nella ode 238 è cantato che la virtù del re Wen brilla come la Via Lattea.
In quest’ultima ode, tra l’altro, si fa riferimento a un rito religioso presieduto da re Wen, il quale riceve la coppa da cerimonia zhang zan. Le coppe per le libagioni (zan) erano fissate a due tipi di tavolette di giada. Zhang, insegna di carica o missione, e guai, tavoletta corrispondente a metà zhang, tagliata nel senso della lunghezza. Il sovrano prendeva da sé la guai zan per la prima libagione, e riceveva dalle mani dei ministri la zhang zan per le successive. Nell’ode 239 si dice esplicitamente che re Wen riceve dal Cielo, per via delle offerte sacrificali fatte, “tutte le benedizioni …. Amabile e cortese, il sovrano riceve favori e felicità … ”. L’anonimo poeta cinese che compose questa ode esalta la cosa strutturando il carme di modo che alla fine di ogni strofa si ripete il concetto che il re riceve favori dal Cielo e dagli spiriti. Il potere umano era inteso dai cinesi come permesso dal Cielo attraverso un mandato. Nell’ode 241 si dice esplicitamente che il Cielo revocò il mandato alle dinastie precedenti (Xia e Shang) e lo consegnò alla dinastia Zhou, cui apparteneva re Wen. Tutto lo spirito cinese, sebbene variegato, è accomunato dal forte senso della religione, verso il Cielo ma anche verso gli antenati, come si evince per esempio anche dalla ode 209, descrizione delle cerimonie fatte da un signore in onore dei suoi antenati.
Per Mencio nessun sovrano potrà durare senza il consenso del popolo. Potrà essere seguito dal popolo solo il sovrano che rappresenta non il dispotico arbitrio bensì un esercizio della responsabilità e della benevolenza. Vi è un sogno etico altissimo in Mencio. Non tutto il confucianesimo si basa sulla realtà effettuale, come si dice spesso in Occidente: Mencio è molto utopico per quanto riguarda la classe dirigente cinese. Senso altissimo della missione del funzionario statale. Su questo testo i funzionari statali avevano fatto gli esami concorsuali per un millennio, esami inventati dalla Cina e poi “passati” in Occidente.
“Colui che sottrae il senso dell’umanità è un ladro, colui che sopprime il senso della giustizia è un devastatore”, un comune criminale, quindi è legittimo ucciderlo: in questo caso non si compie la esecuzione di un re (regicidio) ma di un criminale. Mencio si riferiva all’uccisione di un sovrano Shang, che era un dittatore assai dispotico.
Come è stato detto, in Cina ci sono già dei “germogli di democrazia”. Infatti, alla fine per Mencio è il popolo che esprime il mandato Celeste: la legittimazione del sovrano non deriva dal Cielo direttamente ma passa per il popolo. Anche se il Cielo non vede e non parla, il Cielo vede con gli occhi del popolo e si esprime con la voce del popolo. Invece per i legisti lo stato si impone con la forza e con la legge penale.
Rifacciamoci al testo di Mencio. “Chiese: Quali virtù bisogna avere per poter governare bene? Rispose: Se egli (il re) governa proteggendo il popolo, nessuno potrà opporsi a lui”.
Ancora. “Se tratti I tuoi anziani con il dovuto rispetto, questo rispetto raggiungerà anche gli anziani degli altri; se tratti i tuoi bambini con la gentilezza che spetta loro, anche i bambini delle altre famiglie saranno trattati con la giusta gentilezza. Tutto il mondo starà nel palmo della (tua) mano. Un’Ode recita: Il suo esempio influenzò sua moglie, raggiunse i suoi fratelli, per giungere all’intero Paese. Ciò significa che ha sollevato questo cuore e l’ha esteso verso gli altri e nient’altro”.
L’eccesso che i potenti ostentano, la corruzione e gli altri vizi sono da sempre oggetto di rimostranza da parte dei cinesi. Nel Hou Han Shu, un testo storiografico cinese del V secolo d.C., è scritto: “Il vecchio Hanyin non si sa che tipo di uomo fosse. Nel periodo di regno Yanxi, l’Imperatore Huan visitò il distretto di Jingling, attraversò le paludi di Yunmeng e si avvicinò al fiume Mian, tutti tra il popolo accorsero a vederlo, il vecchio fu l’unico che continuò ad arare senza fermarsi. Zhang Wen, che al tempo ricopriva il ruolo di segretario di corte e veniva dalla prefettura Nanyang lo trovò strano, e mandò qualcuno a chiedergli: Tutti sono venuti a vedere, solo tu vecchio non ti sei fermato, perché? Il vecchio sorrise e non rispose. Wen scese a terra (dalla carrozza) e fece un centinaio di passi, glielo chiese personalmente. Il vecchio Hanyin rispose: Io sono un popolano, non capisco il suo linguaggio. Può dirmi se il governo del figlio del Cielo si stabilisce quando il mondo cade nel caos? Oppure quando il mondo è già pacificato/ordinato? Il governo del figlio del Cielo si stabilisce per far da padre al mondo (per proteggerci)? Oppure il mondo è reso servo affinché possa servire il figlio del Cielo? Nell’antichità i re saggi governavano il mondo, Vivevano in umili dimore, e tutti vivevano in pace. Il sovrano odierno, indulge nei suoi stessi desideri, si comporta in modo disinibito gironzolando e non ritiene queste azioni da evitare. Io provo vergogna per te (per questo), come puoi sopportare di desiderare che le persone lo vedano!”
I primi che hanno fatto conoscere Confucio al mondo sono stati i gesuiti in missione in Cina, guidati da Matteo Ricci, il quale fu il grande operatore della inculturazione del cristianesimo nella cultura cinese. Nel 1687 i gesuiti pubblicano il Confucius Sinarum philosophus, nel quale il confucianesimo viene ammirato. I gesuiti non lo presentano come una religione ma come una filosofia, sebbene la presenza di riti confuciani al Cielo e agli antenati. Il nome Confucio è una latinizzazione dei gesuiti, in cinese ci si rivolge a lui anche con l’espressione Kong Fuzi, cioè Maestro Kong.
La modernizzazione giapponese pone come proprio caposaldo il dialogo con il passato, invece in Cina le cose sono assai diverse. Solo recentemente con Xi Jinping il paese si sta orientando ai valori del passato, tra cui il confucianesimo: infatti, per quasi un secolo la Cina aveva rotto i ponti con gli antenati.
Pertanto, oggi in Cina assistiamo a una rivalutazione del confucianesimo. Il regime di Mao si opponeva al confucianesimo tacciandolo quale relitto del passato. Ma, dopo di lui, dal 1979 il post-maoismo inizia a rivalutare la tradizione, fino all’avvento di Xi Jinping, il quale basa l’odierno assetto della Cina sul confucianesimo (dalla rivalutazione post-maoista si parla di nuovo confucianesimo), ma anche sul legismo.
Il 4 giugno 1989 avvenne il massacro di Tian Anmen: il movimento studentesco cinese, che era da due mesi accampato in questa piazza, nel cuore di Pechino, inneggiando e volendo la libertà di espressione, è stato schiacciato dai carri armati. Il governo è stato a lungo diviso, poi decise di inviare i carri armati, fino ad ora è imprecisato il numero delle vittime. È stata abolita la memoria in tutta la Cina, tranne che a Hong Kong, che fino a poco prima godeva di autonomia, ma adesso questa non esiste più. Quindi il post-maoismo, in chiaro stile cinese, è stato dilaniato internamente: c’era chi andava a incitare gli studenti cinesi e chi invece ne promosse la repressione armata. Inoltre, tutta la linea post-maoista era stata orientata a fare in modo che troppi poteri non si concentrassero nelle mani di una sola persona, invece Xi Jinping (impostosi nel 2012) prese tutto il potere abrogando la linea collegiale voluta dai post-maoisti. Con questa figura si ritorna ai tempi di Mao nei quali si celebra il leader supremo.
La storia dell’umanità è una grande carneficina: ma in questo gorgo abissale l’uomo sente sempre l’esigenza dei valori spirituali. Sin dai primi sovrani cinesi si assiste a una continua lotta sanguinaria per il potere, ma sin dagli albori del pensiero cinese o quasi si parla anche del Cielo, vi si aspira o comunque lo si pone come modello ideale delle proprie azioni, anche se queste raramente, in Cina così come nel resto del mondo, vi rimangono fedeli.
Facendo un grande salto, pensiamo anche all’Occidente. La guerra è stata una costante da millenni: la prima opera letteraria a noi giunta della tradizione occidentale, l’Iliade, canta della guerra di Troia, l’assedio da parte del contingente greco. Ma cosa sarebbe l’Occidente senza i valori di fratellanza e filantropia che vengono trasmessi ancora oggi nelle scuole? Essi risentono del sostrato tanto greco quanto cristiano. Grazie a questi valori, spirituali e religiosi, l’Europa per quasi cinquanta anni è stata risparmiata dalla guerra fratricida!
Oggi la pace, invece, è messa in discussione anche nel cuore dell’Europa. I paesi sotto l’egida NATO si richiamano ai principi della libertà di espressione e di vita, invece il fronte russo si richiama agli antichi valori dell’Impero Romano d’Oriente, che era cristiano. Da sempre la Russia si dichiara la discendente diretta dei Romani: Zar significa Caesar, titolo degli imperatori romani, i quali poi si convertirono al cristianesimo. E i russi ancora oggi accusano l’Occidente di infangare i valori cristiani, quindi di immoralità, sodomia e laicità (quest’ultima estesa in tutti i campi).
In Occidente c’è in atto una grande apostasia di massa, le chiese sono vuote, in Olanda le convertono in moschee o in cinema. Si è perso quel senso della fede che c’era in passato, le persone oggi perdono la fede senza accorgersene. Nelle scuole si insegna che Dio non c’è perché la scienza non ne parla. Ma gli scienziati, che si fondano sullo studio dell’immanente, possono mai dire alcunché sul trascendente?
I santi del Medioevo mettevano in guardia l’umanità circa i tempi di mancanza della fede che oggi corrono in Occidente. La Madonna in varie apparizioni mette in guardia, già dai tempi che furono, della futura mancanza della fede. A Cornacchiola fece vedere una stola e una talare per terra: segno della crisi della fede dei sacerdoti. Oggi la Madonna che appare a Kibeho dice che il mondo è sull’orlo dell’abisso. E a Medjugorje la Madonna avverte che ci guarda e vede che siamo persi.
Ogni religione ha del buono, come dice la Madonna di Medjugorje. Tutte le religioni parlano del male e dei diavoli, intendendoli in diverse maniere, certamente, per esempio certe scuole buddhiste li considerano creazioni della mente dell’uomo, però ne parlano e ci avvertono dei pericoli che da essi derivano. Tutte le religioni propugnano valori spirituali e quasi tutte parlano di Dio, forse il buddhismo lo sottintende senza nominarlo esplicitamente.
Di fronte all’odio crescente che si scatena da tutte le parti – tanto che la Madonna di Medjugorje dice che Satana è adesso sciolto dalle catene – l’unico rimedio è ritornare alle sorgenti della fede e della speranza: cioè Dio. E Dio è amore, come dice 1Giovanni 4, 8. Allora il corollario è che bisogna ritornare ad aprirci a ciò che ci lega nel profondo a Dio, a riscoprire e ravvivare l’amore per lui e quindi quello per i fratelli.
A Collevalenza la Beata Speranza di Gesù, una mistica spagnola morta nel 1983, vedeva Gesù Cristo, il quale le ordinò di fondare un santuario, quello che prenderà il nome di Santuario dell’Amore Misericordioso. Di solito i santuari vengono eretti per i santi, quello di Collevalenza è l’unico al mondo voluto nientemeno che da Dio e per annunciare al mondo il messaggio che Dio è Amore Misericordioso. Il motto delle due congregazioni fondate dalla santa, quella delle Ancelle e quella dei Figli dell’Amore Misericordioso, è: Tutto per amore.
La Santa Messa è il memoriale dell’amore infinito di Dio, il quale si incarna e offre sé stesso in sacrificio per la salvezza dell’umanità. Non si può comprendere l’amore di Dio che ama talmente l’uomo da morire per lui. Pane spezzato e vino versato significano il sacrificio di Cristo sul patibolo.
Nell’Ostia vi è la presenza reale di Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità. Cristo è l’Uomo Dio sceso in terra per la salvezza dell’uomo (incarnazione) e per il medesimo fine morto e poi risorto. Il corpo risorto del Cristo non ha limiti di spazio e tempo, quindi è presente in ogni Ostia del pianeta. Il senso più recondito dell’Eucaristia è la trasformazione del fedele in Cristo (corpo mistico), quindi l’Eucaristia prolunga in modo speciale l’incarnazione di Cristo. Pertanto si può dire non solo che la Chiesa fa l’Eucaristia, ma anche che l’Eucaristia fa la Chiesa.
San Francesco di Sales (Filotea II, 14) scriveva: “Non ti ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali: il santissimo e sommo Sacrificio e Sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà, mistero ineffabile che manifesta l’abisso dell’amore divino: per suo mezzo Dio si unisce realmente a noi e ci comunica, in modo meraviglioso, le sue grazie e i suoi doni. L’orazione innalzata in comunione a questo Sacrificio possiede una forza da non potersi esprimere a parole. Per mezzo suo l’anima abbonda di doni celesti, perché abbraccia l’Amato, che la ricolma talmente di profumi e di soavità spirituali”.
Oggi la società ipertecnologica ci fa allontanare a volte dalla dimensione spirituale della nostra vita, della quale la preghiera è l’alimento costante e l’ossigeno duraturo. La preghiera è il respiro dell’anima. Senza preghiera, cioè senza vivere spiritualmente, viviamo una esistenza superficiale, senza senso e in balia del male, che ci attanaglia da tutte le parti. Gesù nei vangeli dice che bisogna pregare incessantemente.
E l’apice della preghiera è la Santa Eucaristia, fonte e culmine dell’intera vita cristiana. Presbyterorum Ordinis 5: “Tutti i sacramenti, come tutti i ministeri e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati”. Lì vi è Bontà, lì vi è Carità, lì vi è Gioia, lì vi è Soccorso, lì vi è Tutto ciò che il cuore assetato possa mai desiderare lungo il transito terreno e che, una volta introdotto nella liturgia celeste, potrà mai desiderare e ottenere pienamente in eterno. Il nostro cuore desidera ciò che ama. In egiziano antico mer significa sia “amare” sia “desiderare, volere”. Tutte le cose tendono a Dio, quindi, come diceva Agostino, il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in Lui.
Alla fine del vangelo di Luca, dopo l’ascensione di Gesù al cielo, i discepoli sono colmi di gioia. Dovrebbe essere l’esatto contrario in quanto Cristo se ne è andato. Perché? Perché i discepoli sperimentano una nuova presenza del Cristo tra di loro. È la presenza nella Eucaristia, che Atti 2, 42.46 testimonia esserci dall’inizio: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere …. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore”.
L’Eucaristia ha una valenza trinitaria. È il sacrificio di Cristo rivolto al Padre mediante l’azione dello Spirito Santo. Il sacerdote che consacra il pane e il vino invoca la discesa dello Spirito Santo (epiclesi), quindi non è l’uomo a operare la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo (transustanziazione) bensì la Trinità: infatti il sacerdote compie la consacrazione in persona Christi. Nell’Antico Testamento si facevano a Dio Padre sacrifici di animali, ora il Figlio di Dio, la Seconda Persona della Santissima Trinità, incarnata in Gesù, amorevolmente si offre al Padre vittima di sacrificio per espiare i peccati degli uomini. Il pane e il vino consacrati per invocazione della Terza Persona della Santissima Trinità, lo Spirito Santo, sono il corpo e il sangue di Cristo morto per i nostri peccati e mirabilmente risorto per condurci a vita nuova, quella della grazia. La parola “ostia” deriva dal latino con il significato di “vittima”.
Dopo l’Eucaristia, anche le devozioni nutrono la nostra anima e San Pio da Pietralcina raccomandava il Santo Rosario come Arma contro gli assalti del maligno. Pio VI diceva che non si può essere cristiani senza essere mariani. La Madonna è la Mediatrice di tutte le grazie che ci giungono dal cuore di Dio e invocarla nei pericoli è rimedio efficacissimo contro le porte dell’inferno.
Romani 8 afferma che lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza perché non sappiamo cosa chiedere nella preghiera. Basterebbe dire la preghiera del Padre nostro per adorare limpidamente il Creatore e per chiedere a Dio quanto necessario alle necessità spirituali e materiali. I santi non vanno adorati ma venerati, non sono il fine ma lo strumento per giungere a Dio e ottenere le sue grazie.
Uno dei più grandi capolavori dell’arte è la Disputa sul Sacramento, commissionato a Raffaello Sanzio da papa Giulio II per le sue stanze attorno al 1508. Il grande affresco raffigura nella parete di fondo la filosofia del passato, rappresentata dalla Scuola di Atene. La filosofia pagana trova però il suo senso ultimo nel fuoco prospettico dell’affresco, cioè un’Ostia raffigurata al centro del dipinto. Raffaello vuole dirci che il cammino storico dell’uomo, la spiritualità antica e la ricerca razionale di ogni tempo trovano compimento solo se sono incamminati verso il messaggio di Cristo. Efesini 1: “In lui (Cristo) mediante il suo sangue abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero del suo volere, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricapitolare in Cristo, unico capo, tutte le cose, quelli nei cieli e quelle sulla terra”. Attorno al Sacramento sono raffigurati alcuni teologi cristiani che disputano e un angelo dai capelli biondi li invita a guardare al centro, cioè all’Eucaristia, come a dire che il senso di ogni ricerca intellettuale sta nel mistero ineffabile della incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, cioè nel Santo Sacramento dell’Altare. Edith Stein, che, dopo essere stata assistente di Husserl, si convertì al cristianesimo e divenne suora e quindi santa, diceva che la vera sapienza è la croce di Cristo, mistero indissolubilmente unito a quello dell’amore.
Nella Eucaristia vi è la presenza vera, reale e sostanziale del corpo e del sangue risorti di Cristo nelle apparenze (accidenti, specie) del pane e del vino. Il sacerdote invocando lo Spirito opera la transustanziazione del pane e del vino, cioè il cambiamento della loro sostanza: del pane e del vino rimangono solo le apparenze. Ma non solo. Il Santo Curato d’Ars diceva che il sacerdozio, che consacra l’Ostia, è l’amore al Cuore di Gesù! Perché?
Una santa belga nata attorno al 1191 a Liegi, già allora un cenacolo eucaristico per teologia e devozione, Santa Giuliana, è stata la promotrice della festa del Corpus Domini. Monaca agostiniana, ebbe più di una volta la visione di una luna in tutto il suo splendore ma con una fascia oscura che la solcava diagonalmente. Capì che la luna era la chiesa, mentre la fascia oscura era una festa che mancava ai fedeli, quella del Corpus Domini. La santa tanto fece che Roberto, il vescovo di Liegi, la istituì per la prima volta nella sua diocesi. In seguito nel 1264 papa Urbano IV, che aveva incontrato la santa ancora in vita prima di essere eletto al soglio pontificio, la fece diventare festa di precetto per la chiesa universale. Urbano IV celebrò la prima messa della festa del Corpus Domini a valenza universale a Orvieto, dove risiedeva e dove è già allora conservato il corporale macchiato del sangue che uscì da un’ostia durante una messa a Bolsena, vicino Orvieto, l’anno prima, nel 1263. Un sacerdote nutriva seri dubbi sulla presenza reale di Cristo nel Sacramento e, mentre celebrava, dall’Ostia uscì del sangue, che macchiò il corporale. Il miracolo di Bolsena avvenne per contrastare le teorie di Berengario, il quale credeva che l’Eucaristia fosse solo un simbolo di Gesù. Dio invece istituisce la festa del Corpus Domini, dedicata alla adorazione e alla commemorazione del mistero eucaristico, affinché Egli sia amato, adorato nonché riceva riparazione dagli oltraggi subiti contro l’Ostia.
La festa del Corpus Domini ha pieno compimento in un’altra festa, quella del Sacratissimo Cuore di Gesù, istituita da Cristo che apparve a una suora, Santa Margherita Maria Alacoque. Dal 1673 in poi la suora vide più volte, quasi sempre durante la esposizione eucaristica, Gesù Cristo il quale le diceva di istituire il culto al suo Sacro Cuore. Vide dal petto di Cristo promanare il fuoco vivo di una fornace: e la sorgente viva delle fiamme della fornace era il suo Cuore, infiammato di amore per l’umanità. Gesù le disse che Egli ha amato e continua ad amare immensamente il mondo ma riceve solo offese, ingratitudini, sacrilegi, freddezza; quello che più gli dispiace è che riceve questi oltraggi soprattutto dai suoi consacrati. Quindi Egli espresse alla suora il desiderio che costei riparasse con la sofferenza queste mancanze. Insomma Cristo si manifestò con questa tipica richiesta come fece anche a Santa Gemma Galgani, a Santa Faustina Kowalska e alla Beata Speranza di Gesù. Cristo in seguito manifestò la volontà anche di avere una festa per riparare tanti oltraggi contro il suo amore per gli uomini. Tale richiesta avvenne per contrastare l’eresia giansenista, che stava dilagando a quei tempi. La chiesa aveva affermato che si adora il cuore di Cristo indissolubilmente unito alla Persona del Verbo, invece i giansenisti dicevano che il culto al cuore di Cristo è solamente metaforico. Invece con queste visioni di santa Margherita trova conferma la linea della chiesa cattolica per la quale nell’Ostia vi è realmente il corpo risorto di Cristo, nello specifico il suo Sacratissimo Cuore. L’Eucaristia è il mistero dell’amore di Cristo morto per noi: e il cuore è simbolicamente legato all’amore. L’Eucaristia e il Cuore di Cristo sono la stessa cosa. Tredici secoli fa avvenne a Lanciano un altro miracolo eucaristico: l’Ostia divenne carne viva. Ancora oggi è conservata questa particola che sembra carne e, da recenti analisi, pare che sia muscolo cardiaco.
Pio XII, Lettera enciclica Haurietis Acquas: “I Santi Padri, veridici testimoni della divina rivelazione, ben compresero, dietro il chiaro insegnamento dell’Apostolo Paolo, che il mistero dell’amore divino è in pari tempo il fondamento e il culmine sia dell’Incarnazione, sia della Redenzione. Infatti, nei loro scritti sono frequenti e luminosi i passi, nei quali si legge che lo scopo per cui Gesù Cristo assunse una natura umana integra e un corpo caduco e fragile come il nostro, fu appunto quello di provvedere alla nostra salvezza e di manifestare a noi nel modo più evidente il suo amore infinito, compreso quello sensibile ... A buon diritto, dunque, il Cuore del Verbo Incarnato è considerato come il principale simbolo di quel triplice amore, col quale il Divino Redentore ha amato e continuamente ama l’Eterno Padre e l’umanità. Esso, cioè, è anzitutto il simbolo dell’amore, che Egli ha comune col Padre e con lo Spirito Santo, ma che soltanto in Lui, perché Verbo fatto carne, si manifesta attraverso il fragile e caduco velo del corpo umano, «poiché in Esso abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità». Inoltre, il Cuore di Cristo è il simbolo di quell’ardentissima carità, che, infusa nella sua anima, costituisce la preziosa dote della sua volontà umana e i cui atti sono illuminati e diretti da una duplice perfettissima scienza, la beata cioè e l’infusa. Finalmente — e ciò in modo ancor più naturale e diretto — il Cuore di Gesù è il simbolo del suo amore sensibile, giacché il corpo del Salvatore divino, plasmato nel seno castissimo della Vergine Maria per influsso prodigioso dello Spirito Santo, supera in perfezione e quindi in capacità percettiva ogni altro organismo umano … Tale fondamentale verità ci fa comprendere come il Cuore di Cristo sia il cuore di una persona divina, cioè del Verbo Incarnato, e che pertanto rappresenta tutto l’amore che Egli ha avuto ed ha ancora per noi. È proprio per questa ragione che il culto da tributarsi al Cuore Sacratissimo di Gesù è degno di essere stimato come la professione pratica di tutto il Cristianesimo. La religione cristiana, infatti, essendo la religione di Gesù, è tutta imperniata su l’Uomo-Dio Mediatore, così che non si può giungere al Cuore di Dio se non passando per il Cuore di Cristo, conforme a quanto Egli ha affermato: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me»”.
Rispetto ai fedeli delle altre religioni, il cristiano si riconosce se, ad imitazione di Cristo e per completare la sua redenzione, soffre per il mondo intero. Questa unione mistica tra Cristo e il suo corpo mistico (la Chiesa), tanto nella sofferenza quanto nella gloria, si è persa oggi tanto che San Pio da Pietralcina, per rammemorarla, esige che i suoi figli spirituali accettino la croce, oltre a recitare un Rosario al giorno e a fare dire qualche Messa ogni tanto secondo le intenzioni del santo. A Roma vi è la Scala Santa, ove i veri cristiani salgono una lunga scala di legno con le ginocchia pregando per offrire la loro sofferenza per il mondo intero. Certi santi si chiamano Anime-Vittima e Dio li esaudisce ricolmandoli di sofferenza.
La sofferenza del cristiano non è masochismo ma un atto di amore, esattamente come quella di Cristo. Cristo, apparendo a una suora polacca, Suor Faustina Kowalska, rivelò l’intenzione di avere un giorno dedicato alla Festa della Divina Misericordia (la festività è stata attualmente fissata per la prima domenica dopo Pasqua). Cristo vuole che le persone si ricordino della sua infinita misericordia che è arrivata al punto di morire per l’umanità. Cristo ha promesso che quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie divine: chi si confesserà e comunicherà riceve il perdono totale delle colpe e delle pene. Sempre a questa suora Cristo rivelò che il peccatore non deve avere paura di accostarsi a lui, anche se i peccati fossero come lo scarlatto: più grande è il peccatore più questi ha diritti alla sua misericordia e anche il peccatore più incallito potrebbe raggiungere una gran santità solo se si fidasse di Cristo. L’umanità non troverà pace fino a quando non tornerà alle sorgenti della sua Misericordia.
Giovanni Crisostomo, un Padre della Chiesa prelevato a forza dai fedeli e eletto vescovo, come non era infrequente nei primi secoli, scriveva che c’è una profonda unione tra il battesimo, che ci rende fratelli, e l’Eucaristia. Nel primo avviene una incorporazione in Cristo che crea il nostro essere spirituale, ma affinché questo mistero della nostra unione a Cristo sia più tangibile, egli ci ha dato l’Eucaristia, mediante la quale assimiliamo il pane, che è Cristo, nel nostro corpo. In ciò si fonda la bellezza della Chiesa: siamo un unico corpo con Cristo e con i fratelli mediante il battesimo e l’Eucaristia, da ciò la necessità della carità fraterna. L’amore che Cristo ha avuto e ha tuttora verso di noi deve essere l’esempio del nostro amore verso i fratelli nella fede. Giovanni 13, 34: “Come io ho amato voi anche voi dovete amarvi reciprocamente”.
Lettera ai Romani 5, 5-11: “Fratelli, l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione”.
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dives in misericordia: “Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione della misericordia, che è capace di giustificare l’uomo”. Da una parte abbiamo la colpa dell’uomo, per cui ogni uomo è di per sé meritevole di condanna, come rivelava Paolo (Efesini 2, 3), ma dall’altra abbiamo la strabordante misericordia di Dio che muore per salvare l’uomo. “Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Romani 5, 20).
La Sacra Scrittura proclama a più riprese la verità sulla natura intima di Dio, il suo essere amore. E i credenti sanno che la Parola di Dio è sempre viva, operante nel cuore di chi la ascolta con fede. Il messaggio di Giovanni – ma anche dell’Antico Testamento, Geremia 31 proclama che Dio ci ha amati di amore eterno – non è costituito di parole umane. Quale Parola di Dio, il messaggio biblico è avvertito dal credente come verità incontrovertibile. Chi prega sente e sperimenta che Dio è veramente amore. Lo sguardo della fede illumina il mondo e lo sviscera dalle profondità nel coglierne il senso più recondito.
L’uomo è talmente assetato di Dio che lo cerca anche quando reputa di cercare qualcosa di altro. Cristo ha scelto di salvare l’uomo mediante il pane e il sangue eucaristici per significare anche che l’uomo ha fame e sete di Dio e che Dio in questo modo lo sazia completamente. Molta arte è sacra anche se non è direttamente religiosa: aspira Dio. Quegli artisti, infatti, hanno cercato il senso del tutto componendo musiche divine come Bach ma anche come Mozart, dipingendo il reale, scrivendo liriche immortali, filmando la natura incontaminata o le peripezie degli uomini cercando di capirli nel profondo.
L’arte diventa espressione dell’Assoluto quando fa sì che il gesto artistico smetta di essere gesto consueto e diventi gesto non-ordinario. In questa rottura dal consueto del quotidiano si esplicita un senso ulteriore, che chiama in causa nientemeno che l’Artefice del mondo. Solo Dio può creare nella mente dell’artista quella ricerca del non quotidiano, cioè del trascendente.
Certa arte romana ha preso come modello il periodo dell’arte greca più vicino ai propri ideali: in età augustea il ritratto di Augusto si rifà al V secolo (Policleto), invece in età flavia il ritratto di Vespasiano si rifà alle forme barocche dell’ellenismo.
Ma, secondo noi, celebrando un uomo, i romani forse non volevano celebrare un dio? L’imperatore romano è un essere divino.
Ma ogni uomo è divino – deve solo scoprirlo – perché Dio si manifesta in ogni cosa, anche negli esseri umani, cioè nella loro anima. Hillman parlava della angelologia della parola, quando un discorso umano si fa inconsapevolmente espressione del discorso della sua anima, cioè dell’inconscio, abitato dagli dei, come vuole la psicologia analitica e la psicologia archetipica.
L’arte cinese antica è intrisa di sacro e di religioso. Le più antiche testimonianze della scrittura in Cina le abbiamo nelle ossa oracolari: cioè scapole di bovino e gusci di tartaruga che venivano avvicinati a una fonte di calore (non si sa bene quale fosse, un bastone con la estremità bruciata oppure una punta di bronzo arroventata), le incrinature così prodotte erano interpretate da personale esperto sotto la guida del sovrano in senso positivo o negativo relativamente a una domanda formulata precedentemente. Ogni incrinatura era formata da una parte centrale (bugan) e da parti accessorie che si diramavano da quella centrale (buzhi). Le incrinature erano numerate da un segno detto xushu. Erano incisi anche altri segni di scrittura, per esempio quelli indicanti se il responso fosse positivo. I segni detti jiexian erano delle demarcazioni tracciate per fare in modo che i caratteri incisi e le incrinature non si confondessero tra di loro. Si tratta della tecnica della piromanzia: da queste ossa si otteneva un responso divinatorio tramite il fuoco. I primi reperti del genere li abbiamo con la dinastia Shang (1600-1046 a. C.), che faceva molto uso della piromanzia. Nel periodo successivo, dominato dalla dinastia Zhou, non si continuò la tradizione della piromanzia, ma gli Zhou si servirono molto della achilleomanzia: essa si avvaleva di steli di Achillea Ptarmica, in cinese Che.
Tra i cimeli della variegata arte cinese, figura la tomba del funzionario Shao Tuo, necropoli di Baoshan, Jingmen (Hubei), dinastia Zhou Orientale, 316 a. C. circa, nello Stato di Chu. La struttura della tomba è una fossa rettangolare con scatola “guo” di legno, all’interno, al centro, c’è il sarcofago e poi intorno il corredo, in vari scomparti. Abbiamo molti oggetti di bronzo, giada, legno laccato. Abbiamo diverse classi di oggetti mingqi “oggetti luminosi”, fatti per essere sepolti. Sono oggetti funerari a tutti gli effetti. Tra questi figura una statua di legno, è un manichino con braccia mobili e vita mobile (gli arti possono girare), ha i capelli veri. L’essere umano non è scolpito bene, era vestito con vestiti di ottima seta. È piuttosto grande: 120 cm. Ci sono altre statuette di legno con vestito vero cucito con stoffa, mentre altre hanno la scultura in legno e l’abito dipinto sopra. Al sud (Hubei) di solito sono di legno, al nord di terracotta. Quelle del nord sono anteriori al IV secolo. I primi mingqi vengono fatti in Cina settentrionale nel V secolo.
Da una tomba nello stato di Qi a Zhangqiu, Shandong, tardo IV sec. a.C, sono state rinvenute statuine funerarie in terracotta dipinta. Si tratta di un insieme di statuine funerarie, un gruppo di suonatori con tamburi, e poi uno strumento a corda tenuto sulle gambe, campane, litofoni e figure al centro che ballano. Sono di 8 cm. Formano una composizione armonica le une con le altre. Nella parte più esterna ci sono degli animali, degli uccelli in scala più grande rispetto alle figure umane. Il gruppo di esseri umani è in proporzione tra di loro e, rispetto agli strumenti musicali, gli animali sono molto più grandi. Le statuine sono abbozzate. Il motivo della presenza delle statuine nelle tombe è la sostituzione con gli esseri umani. Vi erano sacrifici umani ma i cinesi antichi si erano resi conto che dal punto di vista pratico uccidendo persone giovani si toglieva forza lavoro (soldati), quindi la pratica venne ridotta. L’idea è stata di sostituire con statuine di terracotta o di legno gli esseri umani. Le statuine sono state immaginate per stare insieme: è un tableaux vivants come un quadro, che, anziché essere dipinto, è fatto con figure in composizione così da creare una scena tridimensionale. Per quanto riguarda i sacrifici umani, erano considerati talmente importanti che ne abbiamo un esempio nel Libro delle Odi: nell’ode 131 (L’oriolo) si canta che alla morte del duca Mu di Qin (659-621), il duca Kang (620-609), suo figlio e successore, fece immolare sulla tomba del defunto 177 persone, fra le quali tre uomini di valore della famiglia Ziju. Il popolo piange la sorte di queste tre vittime, dicendo che, come gli uccelli riposano liberamente sugli alberi, anche gli uomini dovrebbero avere la libertà di vivere.
Questa arte funeraria ci parla della concezione dell’anima e dell’uomo nell’antichità cinese. C’è la questione della concezione dell’anima e dell’immortalità negli Stati combattenti (V-III secolo a. C.). Noi sappiamo che l’anima era composta di due parti: hun (parte leggera, yang, legata al cielo) e po (parte pesante, yin, legata alla terra). La lettura dei testi dell’epoca da parte di studiosi moderni prevedeva una separazione delle due anime al momento della morte. Po rimaneva con il corpo e hun volava in cielo. Le tombe fatte fino ad ora (corpo al centro e intorno scomparti) erano state interpretate in questo modo: dato che l’anima po rimane legata al corpo, bisognava equipaggiarla con degli accessori.
Recentemente questa interpretazione non è più soddisfacente perché sono stati trovati altri testi filosofici in tombe antiche (in epoca Han avvenne la canonizzazione del confucianesimo, ma prima non era tutto organizzato in chiave confuciana). I filologi hanno cominciato a studiare di nuovo i testi e abbiamo una visione diversa da quella offerta per duemila anni. La rilettura dei testi ci fa capire che in realtà hun e po non si separano, la morte non è la separazione delle due anime, ma c’è un terzo elemento, shen, la parte spirituale, solo la quale si stacca dal corpo.
L’idea di immortalità era all’inizio la “non morte”, continuare a vivere per sempre, quindi si ricercava il giusto metodo per allungare la vita il più possibile (sostanze, esercizi ginnici e respiratori, diete). Nel periodo Han (206 a. C. in avanti) l’immortalità non è più la “non morte”. Adesso l’immortalità viene raggiunta nella tomba (che allora cambia struttura) e quindi la tomba viene costruita/equipaggiata per consentire la trasformazione. La trasformazione dell’individuo in immortale avviene dopo la morte nella tomba mediante gli oggetti inumati. Ma la destinazione ultima è sempre il cielo e per arrivarci c’è bisogno di una cavalcatura adeguata rappresentata dal drago (le credenze religiose, la questione di anima, immortalità e aldilà cominciano già negli Stati Combattenti e soprattutto del sud, da dove proviene la famiglia imperiale Han, che si porta dietro un bagaglio culturale che diventerà quello dell’impero intero).
La Grande Muraglia (ricostituita in epoca Ming) è stata fatta costruire dal Primo Augusto Imperatore: Qin Shi Huangdi, primo imperatore della Cina, della dinastia Qin. Non è stata costruita ex novo, esistevano già delle parti ed è stata unificata. Messa in piedi per segnare confini tra uno stato e un altro. Non è tanto un’opera di difesa, ma simbolica, segnava il confine tra mondo civilizzato cinese e il mondo nomade delle steppe a nord. Era una grande opera di comunicazione, la parte alta è ampia per far passare carri cavalli, e serviva per comunicare velocemente da una parte all’altra dell’impero. Dal punto di vista strutturale l’interno è di terra battuta hangtu, fuori è rivestita di mattoni. Il primo imperatore ha unificato militarmente lo stato con la forza per governare in un territorio così vasto. Il primo imperatore ha creato i presupposti perché ciò accadesse, questi grandi cambiamenti vengono ereditati dagli Han. Si tratta di un’unificazione non solo del territorio ma anche di quello che permette di governarlo.
Il parco funerario di Qin Shi Huangdi, ai piedi del monte Li, fu iniziato poco dopo la sua ascesa al trono del regno di Qin nel 246 a.C. e i lavori finirono dopo la sua morte per opera del figlio. L’esercito di terracotta, atto a proteggerlo nell’aldilà, è a 1 km e mezzo di distanza dal muro esterno, non è all’interno. Gli archeologi si sono aspettati di trovare un terzo muro di cinta che raccogliesse tutto (con rilevamenti aerei per scorgere possibili resti) ma non vi è traccia. L’esercito di terracotta è composto di 4 fosse, di cui una è vuota. Chi lavorava a questo parco funerario venne sacrificato e sepolto in una fossa per non rilevare i segreti della tomba. La tomba vera e propria non è stata ancora scavata, ma ne abbiamo una descrizione da parte di Sima Qian: copie di palazzi, rappresentazioni di fiumi di mercurio e di corpi celesti, oggetti meravigliosi.
La prima fossa è stata la scoperta nel 1974 da un contadino che scavava un pozzo. Ci sono voluti 10 anni per capire la forma. Questa fossa riproduce la fanteria dell’esercito dell’imperatore. I soldati sono distribuiti lungo i corridoi, sono stati costruiti con 4 soldati accanto. Nei due corridoi esterni abbiamo 2 soldati uno rivolto verso l’entrata (verso est) e la fila esterna guarda esternamente, segna il perimetro e guarda di fianco per proteggere tutti i lati. Davanti ci sono delle file di soldati arcieri (iniziava il combattimento con pioggia di frecce sul nemico e poi si spostavano e partiva la fanteria). Nei corridoi c’entrano anche dei carri trainati da 4 cavalli (ufficiali militari che comandano esercito). I corridoi hanno un pavimento vero di mattoni (cotto), con una struttura laterale in legno e una copertura (ben strutturato). I carri erano di legno e sono rimaste solo le impressioni nel terreno.
La seconda fossa, più piccola, ha una forma particolare dove si trova la cavalleria e la formazione dei balestrieri in una parte riservata. C’è del colore, le statue erano tutte colorate ma il colore non si è mantenuto, non c’erano i mezzi per conservare il colore. Inoltre la tecnica del colore è particolare perché le statue sono di terracotta coperta di lacca, quindi il colore è stato applicato sopra la lacca. Allora, essendo pigmenti a freddo sulla lacca, il colore si stacca e rimane unito alla terra. Inoltre quando entra in contatto con l’ossigeno e la luce, il colore non sopravvive.
La terza fossa ha un carro al centro e dei cavalli di soldati ufficiali ma sul carro non c’è nessuno, è stato lasciato vuoto perché qui saliva l’imperatore che era anche il capo dell’esercito.
In tutto abbiamo circa 6000 statue. Non sono diverse le une dalle altre. Infatti, ci sono dei tipi ricorrenti e la tecnica con cui sono fatte è complessa: è un sistema industriale per la quantità enorme ma la realizzazione delle statue non è a catena di montaggio, ma c’erano dei laboratori con un gruppo ristretto di persone che si occupava della realizzazione della statua dall’impasto alla cottura compresa. Erano fatte utilizzando degli stampi, gambe busto con dei grandi cilindri assemblati, i piedi con le scarpe sono fatti a parte, le mani e teste a parte. Le varie parti venivano assemblate. Quello che le rende diverse è che erano rifinite singolarmente, taglio, occhi, pizzetto. Ma il volto era fatto con lo stampo poi ci attaccavano pezzi diversi e la singolarità dipende anche dal ruolo che avevano (vengono indicate le varie etnie, le fisionomie). Sono a tutti gli effetti realistiche, riproducono la realtà in maniera fedele (suola delle scarpe antiscivolo). Sono fatte per essere sepolte ma hanno molti dettagli. Le statue sono più alte di quelle della realtà: 1m 90. Le armi erano vere di bronzo, e sono state trafugate (molte poche armi ritrovate). Abbiamo anche una fossa con animali di bronzo. Ci sono delle fosse anche miste. In più le fosse degli aristocratici sacrificati, le scuderie con i cavalli sacrificati dove ogni stalla ha lo scheletro del cavallo, con ciotola/bacile di bronzo o argento per mangiare e una statua di terracotta di un inserviente accovacciato (stalliere). Inoltre uno zoo con animali fantastici sacrificati. Quindi abbiamo: grandezza supernaturale e grande realismo e ossessione per dettagli.
Siamo di fronte a tutta una serie di fosse (le quattro dell’esercito di terracotta più molte altre fosse) che riproducono un tableaux vivant, scene particolari ma le dobbiamo leggere tutte insieme come un grande tableaux vivants che è la riproduzione della realtà terrena nell’aldilà. Serve ad accompagnare l’imperatore nell’aldilà o nel suo viaggio verso l’immortalità. Si costruisce questa tomba di tali proporzioni perché serve per riprodurre la realtà in tutti i particolari ad eccezione delle misure. Non vuole essere un prolungamento della sua vita ma una ricostruzione del mondo in cui ha vissuto che viene ripetuto ed è legato alla ricerca dell’immortalità. Questa concezione rimane anche nel periodo Han (imperatori Han fanno la stessa cosa in dimensioni diverse ma con molte statuette).
I testi filosofici cinesi sono molti ma sulla parte religiosa abbiamo poco e frammentato. Le fonti di epoca Han sono relative al mondo sotterraneo: questo è un mondo a noi non favorevole, infatti svariati banchetti erano offerti per placare gli spiriti maligni (ma non c’è un inferno o come per il buddismo una reincarnazione in base al nostro comportamento). La preoccupazione principale per i cinesi è quella di ribadire la propria identità nell’aldilà, è importante mantenere l’identità, il ruolo e i privilegi (la società è la stessa anche nell’aldilà). Sono tutte credenze religiose e verbali, nate dai testi e dai riti orali, le quali sono il motivo della nascita dell’arte funeraria cinese.
Pensiamo poi alla letteratura orale, come quella del Medioevo cristiano, ove la lettera mise per iscritto una voce orale. Prendere coscienza che un testo scritto sia stato orale significa sapere che un fatto storico vive indipendentemente dalla situazione sotto gli occhi del lettore moderno. Ma ogni testo ha tracce di oralità, in qualche modo, ci sono sempre indizi di un discorso, non esistono solamente testi scritti e solamente testi orali. Le canzoni di gesta medioevali hanno la parola “dire” per esplicitare un discorso in presenza, che solo dopo è stato messo per iscritto. A volte il testo ha “udire” oppure addirittura “dire” come metonimia per indicare l’atto del cantare. Ora, possiamo dire questo: se l’anima esprime la trascendenza in quello che dice, come voleva Hillman, tanto maggiormente la esprime mediante la parola orale, più diretta e quindi più espressiva.
Lacan diceva che il più grande errore di sempre è immaginare che gli esseri umani pensino ciò che dicono. Sotto il discorso umano, scritto e orale, si nasconde sempre l’inconscio. Freud paragonava l’Io cosciente al Clown Augusto, il quale crede di essere il padrone del circo mentre non ha nessun potere. Sotto i nostri discorsi e quindi sotto i nostri pensieri c’è una energia pulsionale che manovra inconsciamente tutto ciò che accade, ma non ne siamo consapevoli. Freud si fermava all’inconscio personale, frutto della rimozione infantile e della repressione da adulti, Jung estenderà il discorso all’inconscio collettivo, sede della memoria ancestrale dell’umanità, dal quale gli dei e le anime dei morti, intesi come elementi psichici, comunicano mediante i simboli, sia nella storia dell’umanità sia nella biografia del singolo. Per Jung il sogno è un simbolo che vale quale tentativo della nostra mente di farci digerire cose non ancora digerite: è un tentativo di guarigione. Nel sogno si manifesta il nostro inconscio per indirizzarci lungo la via giusta.
Ogni dio della mitologia dei popoli sulla terra è una immagine archetipica, un contenuto legato ad un archetipo inconscio. Per questo gli dei hanno sempre una funzione a livello collettivo. Atena è la saggezza, espressione quindi di un particolare elemento dell’animo umano. Marte è l’aggressività. Giove il potere. La finalità del dio, quando si affaccia alla coscienza, sia dell’umanità sia del singolo, è di trasmettere alle persone un ordine, una organizzazione del materiale psichico. Nel processo di individuazione le immagini archetipiche devono essere integrate nel mettere ordine alla vita psichica della persona. Quando l’immagine archetipica viene colta solo nell’aspetto emotivo, non emerge il dio ma il gigante, simbolo della forza selvaggia della natura, non domata, come rilevava una grande analista junghiana, von Franz. Se emerge il gigante diventiamo stupidi, è esperienza comune che chi è preda di un affetto compie le più grandi idiozie.
I contenuti archetipici ci influenzano in ogni modo, intessono la trama del nostro destino e guidano il cambiamento. Sono presenti anche dietro le nostre parole. Specie quelle artistiche. L’artista ha una più spiccata capacità di sintonizzarsi con gli dei e le altre forze dell’inconscio collettivo. Oggi le persone si allontanano sempre più dalla mitologia religiosa, hanno scacciato gli dei dalla loro vita e allora essi si ripropongono come malattie. Jung diceva espressamente che gli dei si sono trasformati in malattie. Dietro un sintomo psichico c’è non solo un aspetto archeologico (la causa scatenante di Freud, il conflitto nella infanzia del paziente) ma anche una esigenza teleologica, un fine. Il dio emerge dall’inconscio collettivo per guidare l’uomo verso la propria individuazione. Compito è di cercare l’immagine archetipica che si manifesta e di interrogarla, mediante un puntuale lavoro analitico, per capire quale è il messaggio che vuole comunicare alla persona.
La grande scoperta della psicoanalisi e della psicologia analitica, nonché delle altre psicologie transpersonali, è che noi non siamo solo ciò che crediamo di essere. I nostri gesti e le nostre parole comunicano realtà spirituali sepolte dentro di noi. Siamo da una parte Persona, la facciata esterna e cosciente, come appariamo agli altri, con l’insieme dei valori collettivi che tutti condividiamo. Ma dall’altra siamo anche Ombra, il male, anche se non assoluto, cioè il lato opposto dei valori collettivi, l’altra dimensione, un fratello gemello dispotico e negativo, il lato opposto inconscio. Come scriveva von Franz, “tutti noi abbiamo bisogno dell’Ombra. L’Ombra ci consente di mantenere i piedi per terra, ci rammenta la nostra incompletezza e fornisce i tratti complementari della nostra personalità. Saremmo davvero molto poveri se fossimo quelli che immaginiamo di essere”.
Compito dell’uomo è accogliere l’Ombra e integrarla nella coscienza in una finale armonia tra opposti che costituisce il completamento del processo di individuazione. Verso la metà della vita le persone iniziano a sognare dei mandala, segno della esigenza inconscia di armonia e completezza che sta emergendo in quella età esigendo una realizzazione. Il mandala è un segno della religione orientale, quindi esprime simbolicamente l’apparire degli dei inconsci per guidarci verso la completezza. Pertanto è anche una esigenza di trascendenza.
I valori collettivi della Persona non vanno abbandonati: quando la trascendenza dell’Ombra si integra nella coscienza, essa porta l’individuo a rivisitare quei valori e a sentirli nella vera realtà di cui sono costituiti. L’uomo, accogliendo l’Ombra, non finisce isolato dalla società, ma vi ritorna con occhi nuovi. Il fine dell’Ombra è di donare una visione rinnovata e esatta di quegli stessi valori, che prima erano accettati acriticamente.
Il quotidiano è basso e irrazionale, ma, se l’individuo vi ritorna integrando l’inconscio, diviene luce. Non è più quotidiano, lo era: adesso è arte. Nell’arte il quotidiano viene trasfigurato in un’opera sacra.
L’arte esalta la trascendenza così come lo fa ogni opera dello spirito umano, anche la ricerca intellettuale. Ganesha è il dio indiano della conoscenza e cavalca un topo, simbolo della irrazionalità e dei bassi istinti. Come a dire che la conoscenza, nella sua forma più alta, sia una sorta di allontanamento dalla bassezza del quotidiano! Platone diceva che l’uomo è una pianta celeste, cioè un albero rovesciato: ha le radici in cielo. La vera natura dell’uomo è spirituale.
Per le tradizioni spirituali i diavoli sono spiriti della materia. C’è un nesso profondo tra male, materia, bassezza e quotidiano. Tutto questo si oppone ai genuini valori spirituali. Selkis è la dea egiziana che protegge gli uomini e gli dei dal potere del male. Difese Horus dagli scorpioni, intesi come forze del male. E lo scorpione non striscia per terra e si nasconde negli inferi?
Ma la tensione verso l’Assoluto, se ristora l’anima donando il senso e avvicinando la persona alle sorgenti originarie dell’amore, dall’altra parte è foriera di sofferenza. Questo perché stacca l’uomo dalla materia cui è fuso visceralmente mediante il corpo e i bassi istinti. Jung diceva che operare il processo di individuazione significa essere crocifissi. Se scopriamo veramente noi stessi, quindi anche il rapporto con il divino, allora dobbiamo prepararci a lasciare questo mondo pur restando qui, quindi ad essere torturati nella mortificazione dei bassi istinti.
È significativo che la parola “castigo” derivi da “casto”, come a dire che la sofferenza ci rende puri. In ebraico la parola “etica” (musar) ha la stessa radice di “sofferenza” (yissur).
Ma, lasciando il mondo, si scopre in pienezza l’amicizia dell’Assoluto. Diventiamo in qualche modo partecipi di un mondo parallelo che di materiale ha solo l’apparenza in quanto l’uomo oramai dei veri valori. Nel breviario monastico del passato si cantava che Cristo vuole essere Sedes Amicitiae, “dimora dell’amicizia”. È il tema giovanneo della escatologia già realizzata su questa terra. I cristiani delle origini si consideravano cittadini del Cielo.
Nel canone buddhista si legge questo testo. Il Buddha si trova in un villaggio e dice: Se mangio solo a mezzogiorno, mi sento meglio, quindi chiedo anche a voi di fare lo stesso. I monaci si adeguano, ma due rifiutano: Se mangiamo tre volte al giorno stiamo benissimo. Allora il Buddha li convoca e dice: Secondo voi è possibile che qualsiasi cosa una persona voglia fare sia benefica? Loro rispondo di no, quindi ci vuole una disciplina. Il Buddha continua. La conoscenza è ottenuta attraverso un progresso graduale: una persona che ha fiducia visita un maestro, quando lo visita gli manifesta rispetto e così facendo ascolta e ascoltandolo ascolta il dharma, lo memorizza, lo esamina, quindi lo accoglie e quando lo accoglie ad un certo punto sorge in lui lo zelo e alla fine realizza la suprema verità.
L’incontro con le energie spirituali richiede impegno. Si tratta di un processo di riscoperta della realtà e di noi stessi. Il buddhismo parla di risveglio della natura di Buddha. Tutti gli esseri hanno questa natura: sono tutti perfetti ma lo devono scoprire attraverso lo sforzo, l’impegno, la pratica.
Per incontrare Dio, bisogna imparare ad amarlo. L’amore richiede impegno, non tutto è spontaneo. Bisogna riscoprire che lui ci ha amati dall’inizio e così innamorarci di nuovo del suo amore primigenio. Riscoprire in questa vita l’amore di Dio è la grande ricompensa degli esseri umani, il paradiso sulla terra. Nell’induismo la bhakti è la devozione amorosa alla divinità: “Colui che ottiene la bhakti diventa ebbro d’estasi, ed in modo inalterabile gioisce del Sé interiore”, yaj jñātvā matto bhavati stabdho bhavaty ātmārāmo bhavati (Nāradabhaktisūtra 6). L’anima è di per sé fatta di estasi poiché è una particella di Dio. Chi ama Dio con le profondità della propria anima sperimenta anche le sorgenti della propria anima e, in questo, scopre altresì la gioia inalterabile (ananda). Nel canone buddhista la parola fede si accompagna a volte a termini come gioia e rilassamento.
Ci dà piena gioia solo l’adeguamento al nostro fine ultimo, cioè Dio. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I-II q3 a1): “Il fine può indicare due cose. O l‘oggetto che desideriamo conseguire: come l‘avaro ha il suo fine nelle ricchezze. Oppure il conseguimento o il possesso, l‘uso o il godimento dell‘oggetto desiderato: e allora il possesso delle ricchezze è il fine dell‘avaro, e il godimento dei piaceri quello dell‘intemperante. Ora, fine ultimo dell‘uomo nel primo senso è il bene increato, cioè Dio, il quale nella sua bontà infinita è il solo capace di saziare perfettamente la volontà umana, qui solus sua infinita bonitate potest voluntatem hominis perfecte implere. Invece nel secondo senso il fine ultimo dell‘uomo è qualcosa di creato esistente in lui, è cioè il conseguimento, o fruizione, dell‘ultimo fine. Se dunque consideriamo la beatitudine umana in rapporto alla sua causa e al suo oggetto, allora è qualcosa di increato; se invece ne consideriamo l‘essenza, allora la beatitudine è qualcosa di creato”.
La materia ci spinge ad andare contro il suo amore, facendoci opporre alla luce divina che ci anima, quindi condannandoci all’infelicità. Eliminando dal nostro orizzonte i falsi valori mediante l’impegno, realizziamo che il bene è possibile, anzi che coincide con la vera realtà, e ha il volto di un Dio di amore.
Se ci apriamo all’amore di Dio, alla bellezza insita in Dio, allora possiamo affrontare ogni difficoltà perché scopriamo il senso di tutto. Nella Gīta compare spesso l’idea di affidarsi a Dio. Chi scopre Dio nelle cose è in Dio in tutte le cose. In ebraico “fede” si dice emet, che deriva dalla radice ebraica dell’abbandonarsi a Dio, che ricorre anche nella parola Amen.
Tutto cambia, tutto si trasforma, ma c’è qualcosa che non passa. In un altro testo buddhista, un re interroga il Buddha: C’è qualcuno che non è soggetto alla vecchiaia e alla morte? Il Buddha risponde che nessuno che nasce è libero dalla vecchiaia e dalla morte, i carri del re verranno distrutti, anche il corpo verrà distrutto, ma resta solamente il dharma dei giusti.
C’è quindi qualcosa di più vasto del mondo materiale. Le buone azioni. La benevolenza. Mettiamo anche tutti i valori confuciani, in quanto espressione dell’armonia cosmica che tutto compenetra. C’è Dio, che amorevolmente dà forza a tutti gli esseri.
In Occidente il cristianesimo divenne via via sempre una entità politica, attenta non solo ai valori spirituali ma anche alle attività terrene. La religione si è fusa sempre più con la vita secolare. È il destino di molte religioni, che partendo dai valori spirituali cercano in seguito di unire mondo trascendente con mondo immanente.
Nei primi secoli la chiesa aveva più tensione spirituale e i santi venivano spesso imitati. L’agiografia comprende una molteplicità di generi letterari, per esempio la letteratura apocrifa: non ci sono solo i Vangeli ufficiali ma anche quelli non accettati nel canone (detti Vangeli apocrifi). Tra gli altri generi della letteratura agiografica, citiamo gli Atti dei martiri, che sono notizie che gli autori scrivono sui processi dei martiri: si concentrano su Processo-Condanna-Martirio. Ci sono poi i Calendari agiografici (martirologi), dove si celebra il giorno della morte per necessità liturgiche. Abbiamo anche l’Innografia: inni, canti liturgici (per esempio il vescovo Ambrogio da Milano scrisse inni specifici sui singoli martiri), raccolti in codici chiamati Innari. Le Legende (“ciò che deve essere letto”): prevalsero su tutti gli altri generi, raccontano tutta la vita del martire: all’inizio venivano lette solo nel luogo del martirio e nel giorno del santo; il modello letterario delle Legende era Le vite di Svetonio: autore latino che aveva scritto sulle vite di personaggi autorevoli dell’antichità. Letterati e ecclesiastici cominciarono a scrivere raccolte di vite dei santi in un unico codice. In pieno Medioevo si sentì la necessità di abbreviare questi codici con più vite di santi e nascono i Codici leggendari sintetizzati con biografie sintetiche. Invece le Traslationes sono scritture sulle traslazioni delle reliquie da un posto a un altro per metterle al sicuro e i miracoli a loro attinenti. I Miracoli trattano solamente dei miracoli dei santi (Diaros miracolorum di Cesarius Heisterbacensis). Infine abbiamo la Autoagiografia (pensiamo al memoriale di Angela da Foligno che scrive della sua vita).
Quello che caratterizza la letteratura agiografica è descrivere un modello di santità. Quel modello diverrà imitabile. La chiave di lettura delle agiografie è il modello di santità: negli anni si sono susseguiti nuovi modelli senza mai sostituirsi ai precedenti.
Caratterizza l’epoca Tardo antica l’agiografia dei martiri, che si ebbero finché il cristianesimo non divenne religione di Impero: i martiri ebbero il massimo sviluppo nel III secolo sotto Diocleziano, massimo persecutore cristiani. L’elemento che caratterizza gli Acta martirarum è il confronto tra la fede del cristiano e l’imperatore. Tutti i modelli hanno come scopo l’identificazione del cristiano con Cristo per diventare santo. Sono le modalità a distinguere il modello di santità: in quello dei martiri è presente l’elemento del cristiano che sacrifica la propria vita per la fede di Cristo, è l’elemento che li contraddistingue. Quando il cristianesimo diventa religione ufficiale, si avranno pochi martiri e nuovi modelli di santità, questa volta di tipo monastico. Il monachesimo si divide in:
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Eremitico: il monaco fugge dal mondo per arrivare alla visione di Dio, l’elemento che lo contraddistingue è la contemplazione
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Cenobitico: modello di Benedetto da Norcia, con i monaci attorno a un abate
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Imitatio: modello della spiritualità francescana, l’elemento che lo contraddistingue è Imitatio o Sequela Christi (come le stigmate): Francesco cambia il rapporto con Dio, non vuole contemplarlo ma imitarlo; cambia il rapporto con gli uomini, perché i francescani sono tutti fratelli (gerarchia orizzontale); cambia il rapporto con il mondo, infatti il francescano non fugge dal mondo ma cerca di cambiarne la mentalità.
Con il passare del tempo il cristianesimo, specie nelle alte gerarchie, diviene sempre meno carismatico e più “mondano”. Grado Merlo definisce il cristianesimo latino come “politico”, frutto della svolta avvenuta nella seconda metà del XI secolo su spinta della desacralizzazione della realtà, della libertas ecclesiae e dell’esaltazione della potenza sacerdotale. Infatti, la Chiesa latina d’Occidente, staccandosi da quella d’Oriente e dalla tradizione romana, aveva dovuto affrontare problemi che ne minacciavano l’esistenza (i Germani, l’arianesimo) e aveva quindi dovuto svolgere un ruolo politico che prima apparteneva all’Impero d’Oriente, ormai troppo distante.
La Chiesa di Roma occupò a lungo una posizione di riferimento per la cristianità latina senza avere però il diritto di intervento generale sul piano teologico e giuridico. Tutti i concili ecumenici più importanti si erano infatti tenuti in Oriente, fino a quello del 1123 convocato da Callisto II vescovo di Roma che inaugurò una serie di assemblee ecclesiastiche autonome convocate dal papa: si tratta del Concilio Lateranense I, riconosciuto come primo concilio ecumenico e permanente, interamente occidentale. Come si arrivò a tale cambiamento? Mediante la separazione di Occidente da Oriente e la convergenza del papato con il regno franco.
La collaborazione tra papato e franchi e la restaurazione dell’ordinamento ecclesiastico comportarono il potenziamento della potenza vescovile nell’ordinamento civile con una serie di intrecci tra i due ordinamenti (vescovi conti: signori territoriali e vescovi). La situazione di complicò in età postcarolingia: le aristocrazie militari cercavano di controllare le chiese come edifici materiali e come istituzioni; intorno a vescovi e vescovati ruotavano interessi generali e locali, quindi le aristocrazie militari cominciarono a creare vere e proprie “dinastie episcopali”. La crisi del Regno dei franchi produsse effetti destrutturanti sull’organizzazione delle chiese e della vita religiosa in dipendenza dai fenomeni della frammentazione del potere e del particolarismo signorile (per esempio vi erano ecclesiae propriae, cioè chiese private o signorili: edifici sacri costruiti sulle terre di un dominus che provvedeva a dotarle di beni e che rimanevano in pieno possesso suo e dei suoi eredi che ne influenzavano la vita. Qui le preghiere e i riti religiosi andavano a rappresentare sacralmente la potenza dei fondatori che a loro volta utilizzavano le fondazioni monastiche e canonicali come propri centri di potere territoriale). Quindi in età postcarolingia si aveva l’intrusione dei laici nella vita della Chiesa, la struttura della società e del potere incideva su caratteri e istituzioni della Chiesa e a ciò si univa il generale processo di patrimonializzazione del potere, che coinvolgeva funzioni pubbliche e cariche ecclesiastiche: se tutto era considerato patrimonio, tutto può diventare oggetto di trasmissione ereditaria e di compravendita.
Questi elementi generavano disordine nella vita religiosa e delle istituzioni ecclesiastiche e porteranno alla reazione dell’XI secolo volta a restaurare gli ordinamenti della Chiesa e a distinguere l’insieme dei chierici e monaci dai laici.
Già dal X secolo si avevano tensioni restauratrici, in vario accordo con il papato e i laici potenti: in particolare nel mondo monastico si avevano intenti disciplinatori e costruttivi e ripensamenti sulla tradizione culturale che porteranno a riproporre l’antica versione di monachesimo, l’eremitismo, i caratteri originali della Regola Benedettina (adesione ad una realtà religiosa improntata ad uno spirito comunitario; si proponeva come scuola dove imparare a servire il vero re Cristo e per conseguire la vita eterna nella doppia obbedienza a una regola e a un abate).
Emerge in questo ambito la funzione del papato come punto di convergenza e come potere in grado di orientare e legittimare le esperienze religiose in senso unitario. I vescovi, attivi nel riorganizzare e potenziare le diocesi, sottoponevano chierici e fedeli a una disciplina uniforme: si opponevano alla simonia (compravendita delle cariche ecclesiastiche), recuperavano i beni tenuti illegittimamente dai signori laici, costringevano il clero a una vita di ispirazione monastica, combattevano il nicolaismo (concubinato tra il clero). In questo senso il papato divenne sempre più centro di attribuzione di potere religioso ma anche politico, ambedue derivanti dall’affrancamento della autorità ecclesiastica da quella civile.
Dopo la morte di Stefano IX, un gruppo influenzato dalle importanti personalità del cardinale Pier Damiani (eremita intransigente) e del monaco Ildebrando (arcidiacono della Chiesa romana) si oppose al tentativo dell’aristocrazia romana di riappropriarsi della sede pontificia attraverso l’elezione di Benedetto X. Venne quindi insediato Nicolò II, appoggiato anche sul piano militare dai normanni guidati da Ildebrando. I contrasti del 1058 avevano reso chiara la necessità di fissare delle regole per l’elezione papale e sottrarle alle influenze delle grandi famiglie. Infatti durante il pontificato di Niccolò II, nel 1059 si tenne un sinodo romano che emanò un decreto che regolava la scelta del pontefice: la scelta del papa spettava ai cardinali vescovi, lasciando la funzione complementare di acclamazione agli altri cardinali, al clero e al popolo di Roma, funzione accessoria. Questo poneva le basi per due importanti sviluppi:
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La sottrazione dell’elezione papale a decisioni non ecclesiastiche
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La creazione di un corpo ecclesiastico che avrebbe affiancato il papa nelle sue decisioni.
Si costituì così il “collegio cardinalizio” e vennero stabilite le norme per l’elezione pontificia, alcune delle quali si mantengono fino ad oggi.
I conflitti continuarono: alla morte di Niccolò II l’aristocrazia elesse un antipapa Onorio II contrapposto a quello di elezione cardinalizia Alessandro II.
I cardinali erano i presbiteri e sacerdoti delle principali chiese romane e diaconie (luoghi di esercizio della carità) romane e i vescovi suburbitari (delle piccole diocesi che si trovavano intorno alla zona di Roma). Svolgevano soprattutto una funzione liturgica, cioè presenziavano con il papa alle funzioni liturgiche. Era una funzione onorifica. Con la Riforma i cardinali, non più solo di origine romana, incominciarono ad essere “incardinati” come presbiteri titolari di chiese, diaconie e diocesi suburbitari romane creando questo ceto. Divennero quindi espressione di una élite di riformatori chiamati a collaborare con il papa in primo luogo come consiglieri e formavano il corpo elettorale del papa.
Questo periodo fu introduttivo ad un’altra fase della Riforma detta Gregoriana dal nome del pontefice Gregorio VII, in carica 1073 al 1085. In questi 12 anni egli estese la riforma per la libertas ecclesiae anche al rapporto Chiesa-Impero, facendo partire la lotta per le investiture al tempo di Enrico IV. Inizialmente la Riforma veniva tutta genericamente indicata come Gregoriana, ma in realtà la prima fase fu di carattere più tradizionale, in cui il l’imperatore svolgeva un ruolo di iniziatore e propulsore nell’azione di riforma della Chiesa. Con Gregorio VII invece iniziò l’affermazione dell’idea di ierocrazia papale, cioè della superiorità del potere religioso e ecclesiastico sulla cristianità: si tende a superare il clima di collaborazione tra papato e impero iniziato in epoca carolingia e a far prevalere l’idea che il primato ecclesiastico del vescovo di Roma all’interno della Chiesa di Roma dovesse essere esteso a tutta la cristianità e condizionare anche le figure di imperatori e re: si sviluppa l’idea della supremazia della sede apostolica anche sul potere temporale. Importanti furono i provvedimenti presi in due sidoni romani del 1074 e 1075. Ma particolarmente importante fu il documento intitolato Dictatus papae (metà anni ’70), cioè un elenco di 27 proposizioni (brevi frasi) famoso per essere il fondamento della lotta per le investiture. In realtà solo pochi punti toccano il rapporto Chiesa-Impero, mentre la maggior parte servono a consolidare il ruolo del vescovo di Roma.
Quando sparirono i patriarcati di Alessandria, Gerusalemme e Antiochia a causa delle invasioni arabe e sopravvissero solo Costantinopoli e Roma che si andavano distanziando, solo allora il vescovo di Roma assume un ruolo d’onore, ante giuridico, di governo. Le proposizioni del Dictatus sintetizzano la vastità delle prerogative e competenze riservate alla Chiesa romana e al suo vescovo (che si colloca al vertice della gerarchia ecclesiastica in quanto vicario di Cristo e successore di Pietro) e prospettano una vastissima capacità d’intervento del papato tanto nel corpo ecclesiastico quanto nella società.
Passiamo alle conseguenze del Dictatus e al Concordato di Worms. Gregorio VII difese il funzionamento dell’episcopato dagli interventi dell’imperatore rendendo inevitabile la frattura tra “regno” e “sacerdozio”. L’applicazione della ierocrazia metteva in crisi l’equilibrio tra i due poteri derivato dall’epoca carolingia e che l’imperatore Enrico IV voleva applicare. A lungo si è pensato che all’interno della stessa Chiesa vi fossero due partiti distinti, uno a sostegno della Riforma gregoriana e uno invece a sostegno dell’imperatore (antigregoriani) ma il fronte non era invece così ben definito e semplificazioni di questo tipo vanno evitate nella storiografia. Enrico IV fu comunque costretto a riconciliarsi con Gregorio VII perché la sua autorevolezza imperiale era decaduta e si ricorda in questo ambito l’episodio di Canossa (1077). Gregorio VII morì esule a Salerno nel 1085 ma le tensioni tra Enrico IV e i pontefici continuarono, anche in materia di riconciliazione. Per esempio, Pasquale II (1099-1118) tentò la riconciliazione definitiva con un atto rivoluzionario: propose che la sede apostolica e i vescovi rinunciassero a tutti i benefici di natura temporale detti regalia. Infatti i vescovi erano beneficiari di benefici ecclesiastici ma potevano anche beneficiare di benefici regali che gli conferiva l’imperatore e che lo rendevano vassalli del re o dell’imperatore. Essendo stati questi benefici a creare instabilità, Pasquale II propose che gli ecclesiastici maggiori vi rinunciassero, così che l’imperatore o i re non avessero nessun diritto a intervenire nelle elezioni dei vescovi. Questa proposta non trovò il consenso della maggior parte dei vescovi e fu quindi sconfessata e non approvata.
A una soluzione definitiva si arrivò qualche anno più tardi con il Concordato di Worms nel 1122 quando Callisto II trovò un accordo con l’imperatore Enrico V. Si tratta del primo concordato che regola effettivamente il rapporto tra Stato e Chiesa.
Pertanto la Chiesa latina d’Occidente si caratterizzò sempre più per questa duplice funzione: condurre l’uomo alla salvezza senza ignorare la quotidianità e gli eventi politici. Per comprendere la continuità di questa caratteristica basti pensare al ruolo di Giovanni Paolo II durante la caduta del muro di Berlino o al ruolo di Giovanni XXIII durante la crisi di Cuba anni ’60. Simbolicamente il potere del papa su questo duplice livello era rappresentato dalla tiara (abolita da Paolo VI): una triplice colonna che indicava il potere della Chiesa su 3 livelli: vescovo di Roma, re della Chiesa, re dello Stato Pontificio. Intanto del Decretum Gratiani vi era espresso il tradizionale dualismo di origine gelasiana, che prevedeva la superiorità dell’autorità ecclesiastica su quella civile, anche se le due sfere di potere dovevano restare nettamente separate, in collaborazione e senza intrusioni nei rispettivi campi.
Con Reconquista si intende la lunga e articolata azione di respingimento degli Arabi dalla penisola iberica fino alla loro definitiva cacciata del 1492. La Reconquista durò quasi 8 secoli. Si trattò di una guerra di confine alla quale la crociata fornì l’ideologia della giustificazione religiosa, ma senza la demonizzazione del nemico e altre estremizzazioni tipiche della lotta in Oriente. Nel corso di questi 8 secoli si formarono una coscienza politica, sentimenti di patriottismo, identità culturale di lingua, religione e territorio, una coscienza nazionale condivisa. Contava molto anche la percezione della Spagna come proprietà di san Pietro e quindi della Chiesa, come sosteneva la donazione di Costantino, scoperta solo successivamente come falsa.
La Reconquista fu influenzata dai valori della nuova cavalleria cristiana, sia per l’ambientazione della Chanson de Roland, che per la trasformazione epica di altri episodi (per esempio l’assedio di Barbastro nel 1063 quando Alessandro II aveva promesso la vita eterna ai futuri caduti).
I papi equipararono presto la lotta in Spagna a quella per Gerusalemme ma con delle riserve: Innocenzo III vedeva nella presenza islamica in Spagna un pericolo per la cristianità, ma alla vigilia della quinta crociata lui stesso limitò i benefici spirituali per i volontari di Spagna per tutelare lo sforzo in Oriente. L’impossibilità di mantenere il controllo su Gerusalemme e i territori conquistati agli arabi cominciò però con il tempo a far sembrare le crociate meno compatibili con lo sviluppo delle varie monarchie nazionali.
La liquidazione dell’impresa dei crociati fu ufficiale con la proclamazione del primo giubileo cristiano nel 1300 da parte di Bonifacio VIII: ci si rimetteva in cammino verso la salvezza ma solo come pellegrini diretti verso la meta più vicina e più adatta a fare della curia papale il centro della cristianità. In Spagna invece resisteva la motivazione patriottico-irridentista e non conobbe queste crisi.
Tutte le crociate furono indette dal papa, guidate sul campo da un legato papale e predicate. Erano legate anche alla predicazione delle indulgenze.
I crociata: 1096-1099. Nel 1095, durante il concilio di Clermont Ferrand, Urbano II fece un appello a partire per un pellegrinaggio armato con l’intenzione di andare in difesa di Costantinopoli, minacciata dagli arabi e che aveva richiesto l’aiuto della Chiesa latina d’Occidente. L’entusiasmo per questo appello ebbe subito come reazione una partenza che fu però fallimentare.
Qualche mese dopo la spedizione venne organizzata da importanti principi europei, in particolare dai 3 eserciti di Goffredo di Buglione nord Francia, Raimondo di Tolosa sud Francia, Boemondo di Taranto dall’Italia. Gli eserciti si diressero verso la Terrasanta via terra e nel 1099 la crociata si concluse con la presa di Gerusalemme, dopo che i 3 eserciti si furono ricongiunti sulla penisola Anatolica. Per garantire il dominio cristiano in Terrasanta vennero istituiti i regni latini d’Oriente, situati a Gerusalemme, contee di Odessa e Tripoli e principato di Antiochia. In realtà saranno gli ordini militari basati in Terrasanta a garantire la continuità del dominio latino in Oriente, mentre i soldati tornavano in Europa.
II crociata: 1147-1149. Damasco venne assediata senza esito. Nel 1187 il Saladino, un principe musulmano, dopo aver riunificato i musulmani d’Egitto con quelli di Siria, riconquistò Gerusalemme nel 1187.
Fu questo il fattore scatenante della III crociata: 1189-1191. A questa parteciparono l’imperatore Federico Barbarossa, Riccardo cuor di leone e altri. Federico morì annegato e Riccardo non riuscì a riconquistare la città santa.
IV crociata: 1202-1204. Indetta da Innocenzo III, fu una crociata puramente pontificia: fu anche organizzata dal papa. Ebbe esiti negativi nel rapporto con la Chiesa d’Oriente: questa crociata passò a Costantinopoli con l’aiuto dei veneziani, ma questi non vennero pagati e conquistarono la città. Quindi chi era andato in aiuto della città divenne nemico e si istituì a Costantinopoli l’Impero latino d’Oriente (durò circa 50 anni). Si tratta della rottura finale tra Oriente e Occidente dopo l’allontanamento iniziato con lo scisma del 1054.
V crociata: 1217-1221. Fu indetta durante il Concilio lateranense IV. A questa spedizione si unì Francesco d’Assisi per parlare con il sultano.
VI crociata: 1228-1229. Partecipò alla crociata Federico II, mantenendo finalmente dopo molto tempo la sua promessa, ma Gerusalemme non venne conquistata. Ebbe comunque successo perché con un accordo con il sultano (nipote del Saladino) questa venne comunque ceduta in parte, e Federico divenne re di Gerusalemme, dopo aver sposato nel 1125 la regina di Gerusalemme. Nel XIII sec la dinastia egiziana dei Mamelucchi, che dominava il Medio Oriente, liberò definitivamente la Palestina dai regni latini d’Oriente
VII crociata: 1249-1254. VIII crociata: 1270. Luigi IX re di Francia muore a Tunisi. Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291 da parte dei mamelucchi, non vennero organizzate nuove crociate. La presenza degli occidentali si spostò allora sul mare, in particolare a Cipro, Rodi, Creta e anche le grandi battaglie furono di terra e non di mare.
Il miles Christi era il martire, ma con le crociate si diede una nuova sostanza a questa espressione, non più un combattimento spirituale per la fede, e vennero fondati gli ordini cavallereschi crociati, per indicare un combattimento anche materiale per la fede. La cavalleria aveva una notevole forza di sfondamento e il cavallo permetteva il rapido spostamento, quindi senza di loro le crociate, in cui combatté un numero esiguo di uomini, non sarebbero potute avvenire. Il cavaliere crociato faceva voto, oltre che di castità, obbedienza e povertà, come in tutti gli ordini religiosi, anche di combattimento.
Ricordiamo i Cavalieri del Santo Sepolcro, i Cavalieri Teutonici, i Cavalieri Templari, i Cavalieri di San Lazzaro e i Cavalieri di Malta. Questi ultimi sono anche conosciuti come gli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme. Prima della I crociata, ad opera della Repubblica marinara di Amalfi, venne fondato a Gerusalemme un luogo di ospitalità per i “pellegrini”, che serviva sia per motivi religiosi che economici. Questi cavalieri erano quindi originariamente gruppi religiosi che si occupavano di ospitalità e accoglienza. Con l’inizio delle crociate si trasformarono poi in ordini militari, pur mantenendo il nome di Ospedalieri.
Nel 1113 Pasquale II li prese sotto la sua protezione con una bolla. Tra 1120-1130 assunsero una costituzione non più ospedaliera, ma militare, che viveva secondo la regola di Agostino. La loro storia coincise con le crociate per quasi due secoli: fu uno dei principali ordini che sostennero la presenza dei regni latini in Oriente. Questa loro caratterizzazione ne condizionò il reclutamento e l’organizzazione: venivano reclutati soprattutto nobili che erano quindi educati all’uso delle armi, erano cavalieri feudali. Una parte minoritaria era invece costituita da sacerdoti e presbiteri, che garantivano le funzioni religiose dell’ordine per i cavalieri (cappellai). In mezzo a questa maggioranza e minoranza si aveva il gruppo intermedio dei sergenti, che garantivano il reclutamento e addestramento delle forze mercenarie ausiliare, erano chiamati turcopoli: quindi reclutavano personale arabo che combattesse nell’esercito crociato.
Il loro centro organizzativo era in Terrasanta: a Gerusalemme, e poi a San Giovanni d’Acri.
Quando questo cadde nel 1291 si spostarono a Cipro e poi a Rodi; furono poi cacciati e nel 1530 si trasferirono a Malta su concessione di Carlo V. Si aveva un Gran Maestro affiancato da un Consiglio che si riuniva periodicamente con i responsabili territoriali che si trovavano in Europa, detti Priori. Questi insediamenti garantivano il reclutamento della nobiltà e il sostegno economico per sostenere le forze in Medio Oriente.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 36 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
Bibliografia
- U. Bresciani, La filosofia cinese del XX secolo. I nuovi confuciani, Roma 2009;
- N. Brox, I. W. Frank, H. Smolinsky, K. Schatz, Storia della Chiesa, 4 voll., Brescia 1995;
- A. Crisma, Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica, Padova 2004;
- A. Crisma, Confucianesimo e taoismo, Verona 2016;
- G. Filoramo, D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, 3 voll., Roma 1997;
- M. L. von Franz, Il mondo dei sogni, Roma 2003;
- M. L. von Franz, L’ombra e il male nella fiaba, Torino 1995;
- T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana. Un sistema semantico, Torino 2002;
- Il Libro delle Odi. Classico confuciano della poesia, traduzione e cura di V. Cannata, Milano 2021;
- C. Malamoud, Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, Milano 1994;
- S. Rastelli, L’arte cinese, Torino 2016;
- S. Runciman, Storia delle crociate, 2 voll., Torino 2005;
- P. Santangelo, L’uomo tra cosmo e società. Il nuovo confucianesimo, Milano 2016;
- M. Scarpari, Confucianesimo, Brescia 2015;
- M. Scarpari, Il confucianesimo. I fondamenti e i testi, Torino 2010;
- P. Zumthor, La lettera e la voce. Sulla letteratura medioevale, Bologna 1990.
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