Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Tesi Magistrale: Merleau-Ponty, la fisica del XX° secolo (relatività di Einstein e meccanica quantistica) e l'antico pensiero orientale
di Giorgio Peri - Maggio 2016
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CAPITOLO SESTO:
IL PENSIERO DI MERLEAU-PONTY
IL PROSPETTIVISMO
Secondo il prospettivismo il mondo è esprimibile in modi diversi e contiene innumerevoli sensi. Ogni istinto è una specie di forma simbolica, ciascuno ha la sua prospettiva.
Esistono una serie di prospettive che si possono scoprire soltanto nel corso della storia. Tutte le intuizioni e le idee nascono infatti da una particolare prospettiva temporale. La verità esiste, ma è soggettiva. Prospettivismo: il mondo, le cose, gli eventi possono essere analizzati da diversi punti di vista, ognuno dei quali concorre col proprio limitato, relativo, particolare quanto specifico imprescindibile apporto. La prospettiva è già l'essere.
<<Io vedo la casa vicina sotto un certo angolo, mentre la si vedrebbe in modo diverso dalla riva destra della Senna, in un altro modo dall'interno, diversamente ancora da un aereo; la casa stessa non è nessuna di queste apparizioni, ma è, come diceva Leibniz, il geometrale di queste prospettive e di tutte le prospettive possibili […] Dobbiamo comprendere come la visione può effettuarsi da qualche luogo senza essere imprigionata nella sua prospettiva>>(1). Nelle cinque pagine seguenti dello stesso testo poi, Merleau-Ponty usa le parole "prospettiva" e "prospettivismo" per ben sette volte quasi a voler sottolineare l'importanza di questi termini nella sua visione filosofica.
<<Ma in che modo posso avere l'esperienza del mondo come di un individuo esistente in atto, se nessuna delle vedute prospettiche che assumo nei suoi confronti lo esaurisce, se gli orizzonti sono sempre aperti e se d'altra parte nessun sapere, nemmeno quello scientifico, ci dà la formula invariabile di una facies totius universi?>>(2). Nessuna delle mie visioni prospettiche esaurisce l'oggetto che osservo e, di conseguenza, non potrò mai conoscerlo in maniera assoluta anche perché: <<Quando si mette in evidenza un lato, l'altro è all'oscuro>>(3) come scrive Doghen, il patriarca che introdusse lo Zen in Giappone nel tredicesimo secolo.
<<La vera Waterloo non è né ciò che vede Fabrizio, né ciò che vede l'Imperatore, né ciò che vede lo storico, non è un oggetto determinabile, ma ciò che avviene ai confini di tutte le prospettive e ciò da cui esse sono tutte prelevate>>(4). Ogni prospettiva rimanda ad un'altra prospettiva perché nessuna di esse è più vera dell'altra. Solo la sintesi di tutti gli orizzonti possibili è vera anche se impossibile da realizzare. La verità è dunque solo tendenziale.
<<Ogni percezione è mutevole e solamente probabile; se si vuole non è che un'opinione […] esse non sono ipotesi successive circa un Essere inconoscibile, ma prospettive sullo stesso Essere familiare […] Ecco perché la fragilità stessa di tale percezione, testimoniata dal suo dissolvimento e dalla sua sostituzione da parte di un'altra percezione, anziché autorizzarci a cancellare in tutte le percezioni l'indice di "realtà", ci costringe ad accordarlo a tutte, a riconoscere in esse delle varianti del medesimo mondo, e infine a ritenerle non tutte false, ma "tutte vere", a considerarle non come ripetuti fallimenti nella determinazione del mondo, ma come approcci progressivi>>(5). Le percezioni sono quindi tutte vere essendo prospettive sullo stesso mondo.
Il "prospettivismo" differisce comunque in modo fondamentale dal "relativismo" visto che per il secondo non esiste una verità assoluta mentre per il primo esistono infinite prospettive verso una unica verità dell'Essere. Dunque il "prospettivismo" ci insegna che le cose (che in realtà sono eventi come ben racconta la fisica del ventesimo secolo) possono essere osservate, studiate da diversi punti di vista, da diverse prospettive ognuna delle quali è parimenti valida, determinante per capire la realtà del mondo. Molteplicità prospettica nei nostri rapporti con la realtà che ci circonda.
Il prospettivismo è utile anche in campo scientifico perché tramite le "congetture e le confutazioni" di Karl Popper si costruiscono ipotesi, teorie che poi possono essere superate da nuove ipotesi teoriche in una continua rincorsa di dispiegamento della verità senza mai possederla.
<<Riprendere l'analisi del cubo. E' vero, il cubo stesso, dalle sei facce uguali, esiste solo per uno sguardo non situato, per una operazione o ispezione dello spirito che risiede al centro del cubo, per un campo dell'Essere - E tutto ciò che si può dire delle prospettive sul cubo non lo concerne. Ma il cubo stesso in opposizione alle prospettive, - è una determinazione negativa>>(6). Le prospettive sono quindi importanti, determinanti per fissare, almeno in qualche modo, l'oggetto osservato introducendoci all'Essere. Le prospettive non possono però essere tutte contemporaneamente presenti per uno sguardo incarnato, solo lo spirito potrebbe avere questa facoltà.
<<In questo campo naturale, troverò, esseri ambigui, che non sono né onde né corpuscoli. Che cos'è il vento percepito? Qualcuno, una cosa, un fenomeno? E' le tre cose insieme: una successione di movimenti senza mobili, comportamenti senza soggetti, come la coda della cometa o la stella cadente (Husserl), ossia esseri probabili, che si riconducono a un fascio di probabilità>>(7). In questi passi Merleau-Ponty spazia dalla meccanica quantistica con il suo fondamentale dualismo onda-corpuscolo e con il suo insito probabilismo antideterminista fino a una visione poetica e abbastanza comune per il pensiero orientale: cos'è il vento? Alla domanda risponde con tre diverse visioni prospettiche: è, insieme, un qualcuno, una cosa e un fenomeno ove nessuno dei tre è un orizzonte privilegiato. Siamo di fronte a un polimorfismo, a una percezione ambigua. Non stiamo parlando del possesso dell'oggetto ma di pensiero di scarto: visioni sempre parziali, sempre laterali e mai totali, mai dall'alto come farebbe un dio. Quasi monadi leibniziane: punti di vista individuali, prospettive sul mondo. Comunque ricordiamo che Merleau-Ponty non è certo un relativista: crede infatti in una verità seppur prospettica.
<<Se la sintesi potesse essere effettiva, se la mia esperienza formasse un sistema chiuso, se la cosa e il mondo potessero essere definiti una volta per tutte, se gli orizzonti spazio-temporali potessero, anche idealmente, essere esplicitati e il mondo pensato senza punti di vista, allora non esisterebbe nulla, io sorvolerei il mondo, e, anziché diventare simultaneamente reali, tutti i luoghi e tutti i tempi cesserebbero di esserlo perché io non ne abiterei nessuno e mancherei sempre di inerenza. Se sono sempre e ovunque, non sono mai e in nessun luogo>>(8). Dunque, senza punti di vista, senza prospettivismo il mondo si ridurrebbe al nulla perché io non vivrei in un certo tempo e in un certo spazio, quindi in una certa prospettiva, ma, essendo io ovunque e sempre, non sarei mai in alcun luogo specifico.
Questa affermazione di Merleau-Ponty ci rivela chiaramente l'importanza fondamentale del prospettivismo nella sua filosofia: senza punti di vista non si può pensare perché non ci sarebbe nulla a cui pensare essendo già tutto definito una volta per tutte. Il prospettivismo è dunque basilare per il nostro filosofo: ogni prospettiva ha pari dignità. Cerchiamo la verità attraversando diversi orizzonti nessuno dei quali è quello vero. <<Io alieno il mio potere perpetuo di darmi dei "mondi" a beneficio di uno di essi, e con ciò stesso questo mondo privilegiato perde la sua sostanza e finisce per non essere più se non una certa angoscia>>(9).
<<La cosa e il mondo non esistono se non vissuti da me o da soggetti come me, poiché sono la concatenazione delle nostre prospettive, ma trascendono tutte le prospettive poiché questa concatenazione è temporale e incompiuta>>(10). Dunque le cose, e il mondo con loro, sono avvolte dal mistero visto che trascendono i nostri limitati orizzonti, sono oltre tutti i nostri possibili punti di vista. Non esiste un "pensiero oggettivo" che ci possa descrivere il mondo anche perché, come già ricordato ripetutamente, noi ne siamo del mondo e, quindi, non lo potremo mai vedere dal di fuori come fossimo uno spettatore distaccato. Abbiamo però una radicata "fede nel mondo" che <<ci installa nel mondo prima di ogni scienza e di ogni verifica>>(11).
<<In che modo una cosa potrà mai presentarsi a noi per davvero, se la sua sintesi non è mai compiuta, se posso sempre aspettarmi di vederla dissolversi e decadere al rango di semplice illusione? Tuttavia, c'è qualcosa e non niente. […] Così sembra che siamo condotti a una contraddizione: la credenza alla cosa e al mondo non può significare se non la presunzione di una sintesi compiuta -, e tuttavia questo compimento è reso impossibile dalla natura stessa delle prospettive da collegare, giacché, attraverso i propri orizzonti, ciascuna di esse rinvia indefinitamente ad altre prospettive>>(12). Il prospettivismo non presuppone di poterci dare la cosa in sé o il mondo in sé perché non può mai fare la sintesi finale essendo un esito parziale dell'Essere. Il prospettivismo ci offre invece una molteplicità di orizzonti, di punti vista che, insieme, concorrono a una descrizione sempre parziale della cosa, del mondo e degli avvenimenti senza però mai giungere alla sintesi compiuta.
LA VERITA' ULTIMA: REVERSIBILITA' FRA ESPERIENZA E LINGUAGGIO.
"Un filosofo è un uomo cieco, in una stanza buia, che cerca un gatto nero che non c'è". Questo famoso aforisma di Bertrand Russell nega la possibilità di poter trovare la verità. Merleau-Ponty non sarebbe però d’accordo.
Chiariamo subito che, per il nostro filosofo, il prospettivismo, di cui abbiamo discusso ampiamente nel precedente paragrafo, è affatto diverso dalla reversibilità fra esperienza e linguaggio (e non reversibilità fra due qualsiasi teorie). Vediamo di ragionare brevemente sulla reversibilità secondo Merleau-Ponty: <<Il chiasma, la reversibilità, è l'idea che ogni percezione è sottesa da una contro-percezione […] è atto a due facce, non si sa più chi parla e chi ascolta. Circolarità parlare-ascoltare, vedere-essere visto, percepire-essere percepito (grazie a essa ci sembra che la percezione si faccia nelle cose stesse) - Attività = Passività>>(13). E ancora: <<L'idea del chiasma, cioè: ogni rapporto all'essere è simultaneamente prendere ed essere preso […] A partire da qui, elaborare una idea della filosofia: essa non può essere presa totale e attiva, possesso intellettuale, giacché ciò che v'e da cogliere è uno spossessamento. Essa non è al di sopra della vita, non la sovrasta. E' al di sotto. E' l'esperienza simultanea del prendente e del preso in tutti gli ordini>>(14). Dunque la filosofia non è possesso ma spossessamento.
Il caso vuole che Merleau-Ponty chiuda il suo ultimo libro Il visibile e l'invisibile con questa frase: <<La nostra esistenza di vedenti, ossia, come abbiamo detto, di esseri che rivoltano il mondo su se stesso e che passano dall'altra parte, e che si vedono vicendevolmente, che vedono l'uno con gli occhi dell'altro, e soprattutto la nostra esistenza di esseri sonori per gli altri e per se stessi, contengono tutto ciò che è richiesto perché dall'uno all'altro ci sia parola, parola sul mondo. E, in un certo senso, comprendere una frase non è altro che accoglierla pienamente nel suo essere sonoro, o, come si dice opportunamente, intenderla; il senso non è su di essa come il burro sulla tartina, come un secondo strato di "realtà psichica" estesa sul suono: esso è la totalità di ciò che è detto, l'integrale di tutte le differenziazioni della catena verbale, è dato con le parole in coloro che hanno orecchie per udire. E reciprocamente, tutto il paesaggio è invaso dalle parole, non è più, ai nostri occhi, se non una variante della parola, e parlare del suo "stile" significa per noi fare una metafora. In certo senso, come dice Husserl, tutta la filosofia consiste nel restituire un potere di significare, una nascita del senso o un senso selvaggio, una espressione dell'esperienza attraverso l'esperienza che illumina specialmente la sfera particolare del linguaggio. E in un certo senso, come dice Valéry, il linguaggio è tutto, perché esso non è la voce di nessuno, perché è la voce stessa delle cose, delle onde e dei boschi. Si deve altresì comprendere che, dall'una all'altra di queste vedute, non c'è rovesciamento dialettico, noi non abbiamo il compito di riunirle in una sintesi: esse sono due aspetti della reversibilità che è verità ultima>>(15). Non ci occuperemo, in questa circostanza, di quanto attiene al linguaggio, pur importantissimo per il nostro filosofo, ma ci occuperemo invece della "verità ultima". Per Merleau-Ponty la "verità ultima" esiste in quanto il filosofo francese non è certo un relativista. Questa verità è data dalla reversibilità. Stiamo parlando di una reversibilità molto particolare: quella fra esperienza e linguaggio. I due termini sono, alla fine, appunto reversibili sia perché il linguaggio si basa anche sull'esperienza e sia, soprattutto, perché due diverse esperienze (ad esempio, guardare lo stesso albero da parte di due diverse persone) vengono reciprocamente comunicate tramite il linguaggio.
<<Così la "verità ultima" con la quale si chiude Il visibile e l'invisibile è anche quella da cui l'opera trae origine; questa verità non costituisce un punto d'arresto, non concede riposo al pensiero, designa piuttosto il punto di passaggio che per l'opera è quello della sua continua fondazione>>(16) scrive Claude Lefort nella sua postilla al libro in questione.
Dunque la verità è importante per Merleau-Ponty anche se è una verità molto diversa da quella classica vista come un porto sicuro nel quale rifugiarsi tranquilli. No, si tratta di una verità "che non concede riposo al pensiero" perché non è data una volta per tutte. Tant'è che << E' di gran lunga più discutibile dichiarare che questa filosofia, questa logica e questa fisica siano le sole valide>>(17). Prospetticamente ci sono anche altre filosofie, altre logiche, altre fisiche e nessuna di esse è l'unica, quella vera. Sono posizioni locali e temporali in divenire.
<<La cultura non ci dà mai significazioni assolutamente trasparenti, la genesi del senso non è mai compiuta. Ciò che a buon diritto chiamiamo nostra verità, noi lo contempliamo sempre in un contesto di simboli che datano il nostro sapere. Non ci troviamo mai di fronte ad architetture di segni il cui senso possa essere fissato a parte, poiché esso non è altro che il modo in cui i segni si comportano l'uno verso l'altro, si distinguono l'uno dall'altro - senza che noi abbiamo nemmeno la malinconica consolazione di un vago relativismo, giacché ognuno di questi passi è senz'altro una verità e sarà salvato nella verità più comprensiva dell'avvenire>>(18). Ci è tolta anche la consolazione del relativismo perché è di verità che stiamo parlando anche se si tratta di una verità parziale, momentanea perché ancora incompiuta. Insomma, stiamo parlando della verità del prospettivismo che è sempre in divenire.
<<Nel presente affondiamo per così dire un cuneo, una pietra miliare attestante che in questo momento ha avuto luogo qualcosa che l'essere attendeva o "voleva dire" da sempre, e che non finirà mai, se non di essere vero, per lo meno di significare e di stimolare il nostro apparato pensante, traendone, all'occorrenza, verità più comprensive di quella data. In questo momento qualcosa è stato fondato come significazione, un'esperienza è stata trasformata nel suo senso, è divenuta verità. La verità è un altro nome della sedimentazione, che a sua volta è la presenza di tutti i presenti nel nostro>>(19). Ancora il linguaggio e l'esperienza quali protagonisti del discorso intorno alla verità. Il linguaggio ci possiede: è l'essere a parlare in noi e non noi a parlare dell'essere. Bisogna scoprire, sotto il linguaggio parlato e consolidato, il linguaggio parlante creativo e inventivo per avere nuove esperienze dell'essere. In pratica le nostre esperienze si sedimentano e diventano la nostra verità che sarà poi superata per integrazione in una verità più grande nel senso che contiene, che ingloba molte più visioni prospettiche, molti più punti di vista, molti più orizzonti. Verità come massimo di verità del momento.
Per visualizzare meglio questo processo di inglobamento per crescita delle verità temporali passate in una nuova verità superiore, ripercorriamo la strada della scienza. Partiamo, ad esempio, da Copernico e dal suo sistema eliocentrico. La sua visione del mondo viene corretta e inglobata nella nuova visione di Keplero con le sue orbite ellittiche invece che circolari. Poi Newton va oltre Keplero perché tiene conto anche dell'attrazione gravitazionale che influenza i pianeti. Arriva Einstein con la sua relatività portando una ulteriore visione prospettica che tiene conto della differenza fra la velocità del corpo studiato rispetto a quella della luce: se il corpo in questione avesse velocità prossima a zero, sarebbero perfette le leggi newtoniane.
<<La dotta ignoranza è appunto la consapevolezza del proprio non sapere […] Essa ci spinge a cercare certezze in una conoscenza più vasta, che, una volta raggiunta, dà origine infallibilmente a nuove incertezze. Più conosciamo, più diventiamo consapevoli di ciò che non conosciamo>>(20). Viene subito alla mente il grande Nicola Cusano con la sua opera De docta Ignorantia (ignoranza che è però riferita a Dio e non alla scienza): quanto non si conosce, lo si può conoscere solo mettendolo in relazione con ciò che già si conosce, ma questo diventa possibile solo quando la cosa ignota, che non si conosce, abbia un minimo a che fare con ciò che già si conosce. La posizione della "dotta ignoranza" è l'unica che si può prendere di fronte a Dio, quale Essere perfetto e infinito, inattingibile alla possibilità di conoscenza di esseri imperfetti e finiti (cioè gli uomini). Oltre al problema della conoscenza divina da parte dell'uomo però "la dotta ignoranza" può riguardare anche i grandi periodi di "cambio del paradigma" come dice Khun: ad esempio il passaggio alla teoria della relatività e alla meccanica quantistica. Ma questo, ovviamente, Cusano non lo poteva prevedere.
<<Non ogni concetto o parola che si siano formati in passato attraverso l'azione reciproca tra il mondo e noi sono in realtà esattamente definiti rispetto al loro significato; vale a dire, noi non sappiamo fino a qual punto essi potranno aiutarci a farci trovare la nostra strada nel mondo. Spesso sappiamo che essi possono venir applicati ad un ampio settore dell'esperienza interna ed esterna, ma non conosciamo praticamente i limiti della loro applicabilità. Questo è vero anche nel caso di concetti più semplici e più generali come "esistenza" e "spazio e tempo". Perciò non sarà mai possibile con la pura ragione pervenire a una qualche verità assoluta>>(21). Chiudiamo il discorso sulla verità con queste parole del fisico quantistico Werner Heisenberg. La ragione non può darci alcuna verità assoluta. Ci può solo portare, se ben sostenuta dalla sedimentazione di molte esperienze pregresse, a una verità intesa come massimo di verità raggiunto in un dato momento come ci ha insegnato anche Merleau-Ponty.
Ciò anche perché, come scrive Jules-Henri Poincaré, <<l'uomo non si rassegna così facilmente a ignorare in eterno la natura profonda delle cose>>(22). L'uomo vuole conoscere. Anche se i limiti sono tanti. Forse troppi per potere veramente pervenire alla conoscenza, alla verità. <<La coscienza che io ho di costruire una verità oggettiva non mi darebbe mai che una verità oggettiva per me, il mio grande sforzo di imparzialità non mi farebbe oltrepassare la soggettività>>(23). Dunque la verità è oggettiva solo per me. E quindi non si va oltre la soggettività. Siamo dunque tornati al prospettivismo: di fronte a un elefante io vedo la coda, se sono dietro a lui, e l'altro vede la proboscide, se è davanti all'elefante. Le due prospettive insieme concorrono a creare una nuova visione, un diverso orizzonte, un altro punto di vista.
Concludiamo sottolineando che secondo l'idealismo intellettualistico e il realismo empirico la verità esiste ed è determinata e definitiva. Invece un grande studioso della scienza come Marcello Cini scrive che <<Il metodo universale per arrivare alla verità non esiste>>(24). Merleau-Ponty, mediando fra le due posizioni, si propone di formulare un pensiero aperto: si accede alla verità a partire dal proprio ineliminabile punto di vista.
INTORNO ALL'EGO
<<Ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici è questo: non concedo loro che l"io" sia ciò che pensa; al contrario considero l'io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di "materia", "cosa", "sostanza", "individuo", "scopo", "numero"; quindi solo una finzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di conoscibilità>>(25). Chi parla è Nietzsche(26) citato da Giangiorgio Pasqualotto nel Tao della Filosofia al capitolo Nietzsche e il buddismo Zen. Pasqualotto poi allarga il suo ragionamento intorno all'io a tutta la filosofia occidentale scrivendo: <<Con la parziale eccezione di Cartesio, pressoché l'intera tradizione filosofica occidentale, nelle sue più significative espressioni, ha evitato di fare dell'io il centro privilegiato di ogni evento del pensiero e della vita>>(27).
<<L'io non è serio>>(28) scrive Merleau-Ponty immedesimandosi nel dolce pensiero di Montaigne. E aggiunge: <<Quando io tento di cogliere me stesso, si presenta tutto il tessuto del mondo sensibile, e gli altri che sono inclusi in esso>>(29). Addirittura lo paragona a un abisso: <<Se non ci fosse questo abisso del sé non esisterebbe nulla. Solo, un abisso non è un nulla, ha i suoi margini i suoi contorni>>(30).
<<E' come se delle marionette danzanti pensassero di essere dei ballerini, anziché semplici burattini, ed è a causa di tutta questa illusione che diventiamo sempre più invischiati in questi cordami>>(31). Questo passo del testo sacro indiano La Baghavad Gita scritta nel terzo secolo avanti Cristo da un anonimo, ci prospetta l'uomo come un semplice burattino i cui fili sono tirati dalla Necessità. Da rimarcare che anche Platone ci porta, più o meno, lo stesso esempio della marionetta nel passo ove scrive: <<Proviamo a raffigurarci ciascuno di noi quanti siamo esseri viventi come una marionetta costruita dagli dèi o per gioco o per uno scopo serio: questo non lo sappiamo, bensì sappiamo che queste sensazioni che albergano in noi ci tirano come corde o funicelle>>(32). In conclusione, fin dall'antichità classica occidentale e orientale, il pensiero filosofico tende a vedere l'uomo, e il suo prezioso ego, come un semplice burattino nelle mani di divinità lontane e, forse, un po’ assurde per l'Occidente o, d'altra parte, per l'Oriente, nelle mani della Necessità che tutto costringe.
<<Bisogna scegliere tra due filosofie: la filosofia che riconosce il primato della libertà dall'io e quella che riconosce il primato della libertà dell'io. La prima porta a risolvere i problemi dell'individuo e del suo rapporto con la vita, la seconda porta alla volontà di potenza, all'orgoglio separativo e alla competizione violenta […] Liberazione significa ritorno allo stato primordiale, ritorno all'unità>>(33). Noi lottiamo moltissimo per la libertà dell'io: facciamo guerre continue contro tutto e tutti perché l'io si afferma opponendosi. Solo pochissimi hanno invece intrapreso la strada che mena alla libertà dall'io, forse l'unica vera libertà.
<<Mach(34) descrive austeramente l'"io" come "quel complesso di ricordi, disposizioni, sentimenti, legato a un determinato corpo". Inoltre: "Colori suoni, calore, pressioni, spazi, tempi ecc. sono connessi fra loro in modo molteplice e a essi sono legati disposizioni, sentimenti e volizioni. Da questo tessuto emerge ciò che è relativamente più stabile e durevole, imprimendosi nella memoria ed esprimendosi nella parola">>(35). E ancora: <<L'io non è delimitato nettamente, il suo confine è abbastanza indeterminato e spostabile ad arbitrio>>(36). Mach ci porta quindi a rinunciare all'idea di un "io" ben determinato e indipendente dal mondo. Ciò anche in seguito a una sua esperienza visionaria giovanile: <<In un sereno giorno d'estate all'aperto il mondo insieme al mio io mi apparve come una quantità di sensazioni compatta; nell'io questa compattezza era semplicemente maggiore>>(37).
<<All'analisi riflessiva è essenziale muovere da una situazione di fatto. Se essa non si desse immediatamente l'idea vera, l'adequazione interna del mio pensiero a ciò che io penso, o anche il pensiero in atto del mondo, le occorrerebbe, far dipendere ogni "io penso" da un "io penso di pensare", quest'ultimo da un "io di pensare che penso" e così via >>(38). Alla fine, il cartesiano cogito ergo sum, pare una delle tante instabili nuvole antropomorfiche che si sciolgono in cielo per poi riformarsi un po’ dopo, un po’ più in là. Nulla di serio, anche se su di esso si regge buona parte del nostro moderno pensiero occidentale. Cartesio avrebbe forse dovuto a limitarsi ad un semplice: esiste il pensiero. Chi è infatti che "cogita"? Io? Io chi? Forse l'io è solo una convenzione sociale utile per lo sviluppo e la crescita dell'uomo sia come specie (filogenesi) e sia come individuo (ontogenesi). Ma pur sempre una convenzione sociale.
<<La frammentazione che deriva da questo collasso di tanti ego chiusi nel loro buco nero fatto di realtà illusorie, è alla radice delle discordie fra gli uomini, delle guerre, e dell'indifferenza dell'uomo nei confronti della salute del suo pianeta>>(39). Il dramma delle monadi umane ognuna chiusa in se stessa e nella sua illusione mondana forse inconsapevole che <<I così detti esseri viventi sono l'assoluto che segue cause circostanziali>>(40) e ancora <<L'individuo è nato schiavo perché la natura dell'io è schiavitù>>(41). Una delle Upanishad, la Madukya recita: <<Non vi è né nascita, né dissoluzione, né aspirante alla liberazione, né alcuno che sia in schiavitù>>(42).
Noi non siamo un flusso di esperienze individuali, ma siamo un campo dell'essere e colui che pensa al campo, che è un'insieme, ne fa parte. L'io è un'intuizione empirica indeterminata. Non c'è l'io puro (Leib) che abita il corpo (Körper). Queste sono alcune considerazioni intorno all'Ego tratte dal pensiero filosofico di Merleau-Ponty. Che poi afferma anche: <<Questa sarebbe la descrizione dell'Essere alla quale saremmo condotti se volessimo veramente ritrovare la zona pre-riflessiva dell'apertura all'Essere. E perché questa apertura abbia luogo, perché noi usciamo decisamente dai nostri pensieri, perché niente si frapponga fra noi ed esso, occorrerebbe correlativamente svuotare l'Essere-soggetto di tutti i fantasmi di cui la filosofia l'ha riempito. Affinché io sia in e-stasi nel mondo e nelle cose, è necessario che niente mi trattenga in me stesso lontano da esse: nessuna "rappresentazione", nessun "pensiero", nessuna "immagine" e nemmeno quella qualificazione di "soggetto", di "spirito" o di "Ego" in virtù della quale il filosofo vuole distinguermi assolutamente dalle cose>>(43). Non siamo, dunque, distinti dalle cose e dal mondo. Il confine è solo una finzione scenica semplificativa.
<<Merleau-Ponty non oppone dualisticamente l'iniziativa dell'uomo a quella dell'Essere ma le concepisce nella loro intima unità: nell'azione dell'uomo ne va dell'Essere, e reciprocamente l'Essere non può concepire la propria teleologia e divenire consapevole di sé senza il fare e il pensare dell'uomo>>(44). Questo scrive Sandro Mancini nel suo omaggio al nostro filosofo.
Questo ribadisce anche Heisenberg <<La scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura; essa è una parte dell'azione reciproca fra noi e la natura; descrive la natura in rapporto ai sistemi usati da noi per interrogarla. E' qualcosa questo, cui Descartes poteva non aver pensato, ma che rende impossibile una netta separazione fra il mondo e l'Io>>(45). Noi ne siamo del mondo. Il mondo è in noi. C'è un avvolgimento reciproco che rende pressoché impossibile una netta distinzione. Come abbiamo visto eminenti personaggi della scienza quali Monod, Mach e Heisenberg concordano fra loro e con Merleau-Ponty nel togliere importanza all'Ego e alla sua presunta esistenza separata dal mondo e dalle cose. Questa "moderna masnada" anti Ego trova, come già abbiamo visto, grande conforto nell'antico pensiero orientale. Infatti, non sono solo alcune eccelse menti occidentali a pervenire alla conclusione dell'impossibilità di separare l'uomo dalla natura dato l'intrinseco coinvolgimento dell'uno nell'altro. Anche il pensiero orientale era giunto alle stesse idee in tempi molto antecedenti. Leggiamo infatti: <<Il taoismo, il confucianesimo, e lo zen sono espressioni di una mentalità che si sente completamente a suo agio in questo universo e che vede l'uomo come parte integrante delle cose che lo circondano. L'intelligenza umana non è un remoto spirito imprigionato, ma un aspetto dell'intero organismo complicato ed equilibrato del mondo naturale>>(46).
Anche Giangiorgio Pasqualotto conferma l'assonanza fra occidente e oriente nel negare la reale consistenza dell'identità propria dell'io scrivendo: <<Non sembra allora arbitrario concludere che l'esercizio del pensiero umano, a Est come a Ovest - almeno nei suoi esponenti più significativi - non solo non è mai riuscito di produrre una convincente e sostenibile teoria dell'identità relativa, ma addirittura, in certi casi, è riuscito ad elaborare e trasmetterci fondamentali teorie dell'identità relativa o, meglio, relazionale: da intendersi non in senso debole - come si trattasse semplicemente di una identità determinata che si mette in relazione con altre determinate identità -, ma in senso forte, intendendo cioè ogni identità in quanto formata, intessuta, costituita, in ogni momento della sua vita, di alterità>>(47).
<<La soggettività non attendeva i filosofi come l'America ignota attendeva, nelle nebbie dell'Oceano, i suoi esploratori; essi l'hanno costruita, fatta, in vari modi. Ciò che i filosofi hanno fatto è forse da disfare. Heidegger pensa che essi hanno perduto l'essere da quando l'hanno fondata sull'autocoscienza>>(48). Dunque, dice Merleau-Ponty, la soggettività è una costruzione filosofica incominciata con la grecità. Non è una "scoperta" di qualcosa che c'era già. Ed è una costruzione che ci ha imprigionati nell'io penso, il pensiero di essere un io è diventato l'essere: cogito ergo sum. Giustamente Heidegger fa notare che l'autocoscienza si crede di essere l'essere anche se non lo è. Infatti è solo un "esserci".
<<Perfino il filosofo che oggi rimpiange Parmenide e vorrebbe restituirci i nostri rapporti con l'Essere quali erano prima dell'autocoscienza, deve proprio all'autocoscienza il suo senso e il suo gusto dell'ontologia primordiale. La soggettività è uno di quei pensieri che non si possono elidere, anche e soprattutto se li si supera>>(49). Abbiamo dunque capito che il pensiero non è l'essere, ma, come dice Franz Rosenzweig nel libro La stella della Redenzione, il pensiero è solo uno dei tanti quadri che si possono appendere alla parete bianca dell'essere. Non accade più di credere che <<la parete era considerata dipinta ad affresco, cosicché parete ed immagine venivano a costituire un'unità, ora invece la parete in sé è l'unità>>(50). Ciò che era successo da Parmenide ad Hegel e cioè considerare la parete bianca (l'essere) e l'affresco (il pensiero) come unica cosa, non ha più senso essendoci tanti quadri diversi da appendere e poi togliere quando e se lo si vuole. Il pensiero diviene un ingrediente, pur se fondamentale, dell'essere nel mondo.
Anche il nostro filosofo Merleau-Ponty è concorde con Rosenzweig quando afferma: <<Nella proposizione "Io penso, Io sono", le due affermazioni sono si equivalenti, altrimenti non ci sarebbe Cogito. E' però necessario intendersi sul senso di questa equivalenza: non è l'Io penso a contenere eminentemente l'Io sono, non è la mia esistenza a venir ricondotta alla coscienza che ne ho, ma viceversa l'Io penso a essere reintegrato al movimento di trascendenza dell'Io sono e la coscienza all'esistenza>>(51).
Merleau-Ponty va anche oltre parlando di <<Quella bruma individuale attraverso la quale percepiamo il mondo>>(52). Ricorda poi anche che << L'equivoco è essenziale all'esistenza umana, e tutto ciò che noi viviamo o pensiamo ha sempre più di un senso>>(53).
In queste frasi di Merleau-Ponty, l'io si va dissolvendo quasi come una bruma autunnale, una nebbia senza consistenza. Lo strano è che attraverso questa dissolvenza dell'io, questa fragilità intrinseca, noi dovremmo cogliere il mondo. Cosa non semplice quella di capire il mondo attraverso "una bruma individuale" soprattutto se consideriamo anche che tutto ciò che pensiamo ha sempre più di un senso. Siamo quasi fantasmi (brume individuali) che percepiscono altri fantasmi ancora più vaghi (l'equivoco è essenziale alla vita umana).
<<Non sono quindi, come dice Hegel, un "buco nell'essere" ma una fessura, una piega che si è fatta e può disfarsi>>(54). L'ego visto come una piega. Stupenda immagine. Pensiamo a una tovaglia (l'essere) sulla quale si forma una piega (l'io). Fin che la tovaglia resta a riposo, la piega resta disegnata più o meno alta e orgogliosa. Se la tovaglia viene, per qualche motivo, tirata da una parte o dall'altra, la piega sparisce. L'essere riassorbe l'io. Così come il mare riassorbe la sua onda.
In merito all'Io consideriamo anche quanto scrivono David Bhom (fisico quantistico) e Jiddu Krishnamurti (filosofo apolide): <<E l'"io"… perché l'umanità ha creato questo "io" che, inevitabilmente, deve causare conflitti? "io" e "tu", e "io sono migliore di te", eccetera, eccetera.>> dice Krishnamurti. Gli risponde Bhom: <<Penso che fu un errore commesso molto tempo fa, o, come Lei l'ha definita, fu una svolta sbagliata, per cui, avendo essa esteriormente introdotto la separazione fra varie cose noi dobbiamo poi continuare a farlo … non per cattiva volontà, ma semplicemente per il fatto di non conoscere nulla di meglio>>(55). L'ego potrebbe dunque essere stato originato da una scelta sbagliata ma inevitabile visto che non fu trovata, in quel tempo remoto allorché l'uomo divenne tale, una scelta migliore.
Dice Alan Watts: <<L'inganno sta nella falsa premessa metafisica alla radice del senso comune; è l'inconscia ontologia ed epistemologia dell'uomo medio, la sua tacita presunzione che egli sia un "qualcosa">>(56). Siamo qualcosa? O vogliamo solo afferrare la mente con la mente?
<<Io, veramente è nessuno, è l'anonimo; è necessario che esso sia così, anteriore a ogni oggettivazione, denominazione, per essere l'Operatore, o colui al quale tutto ciò accade. L'Io denominato, il denominato Io, è un oggetto. L'Io primario, di cui quest'ultimo è l'oggettivazione, è lo sconosciuto al quale tutto è dato da vedere o da pensare, al quale tutto fa appello, di fronte al quale … c'è qualcosa. E' dunque la negatività, - che non è afferrabile, naturalmente, in nessuno, giacché essa non è niente>>(57). Merleau-Ponty ci parla di un certo IO che è nessuno perché anteriore a ogni denominazione e, come tale, è negatività intesa come differenziale tra il vuoto e le cose che ci stanno intorno. Un Io sfuggente, anonimo, quasi un niente. <<L'io è un'intuizione empirica indeterminata. Io non possiedo le chiavi del mondo e nemmeno quella del mio Io. Posso cogliere soltanto un'Erscheinung(58). Così come posso cogliere l'unità dell'Io soltanto nelle sue produzioni>>(59).
<<Siamo obbligati a scegliere se chiuderci in certezze vuote, oppure accettare questa incertezza profonda del nostro sapere>>(60). Tra le certezze vuote di Rovelli credo si possa annoverare anche questo sfuggente Io oggettivo. Se Rovelli ha ragione, sarebbe forse opportuno accettare l'incertezza intorno al presunto vero "io" con serenità. Ci si limiterebbe a un "io" fungente dell'Erscheinung, senza certezze, così, solo per gioco, senza un inizio e senza una fine, "sempre di nuovo".
Merleau-Ponty scrive anche:<<L'universalità e il mondo si trovano nel cuore dell'individualità e del soggetto. Non lo si potrà mai comprendere finché si farà del mondo un objectum. Viceversa, lo si comprende subito se il mondo è il campo della nostra esperienza, e se noi non siamo altro che una veduta del mondo, giacché allora la più segreta vibrazione del nostro essere psicofisico annuncia già il mondo, la qualità e l'abbozzo di una cosa, e la cosa l'abbozzo del mondo […] In definitiva, che cosa sono io nella misura in cui posso intravedermi fuori da ogni atto particolare? Io sono un campo, sono un'esperienza>>(61). Il mondo è dentro il soggetto non essendo un oggetto separato, è invece un campo ove il mio ego, lui pure visto come campo, fa la sua esperienza, anzi per meglio dire: io sono quell'esperienza.
L'ego è forse, nel suo complesso, ciò che in economia viene detto un optimum locale: non è cioè il meglio in assoluto ma comunque permette una transitoria posizione prospettica. Noi uomini, invece, ci siamo affezionati troppo all'ego e ci siamo fermati lì: non vogliamo (o non possiamo?) andare oltre.
Concludiamo questo paragrafo dedicato all'Ego ancora con una riflessione di Merleau-Ponty: <<Per possedersi, occorre cominciare con l'uscire da sé>>(62). Solo mettendoci in discussione come ente autonomo e distaccato dal mondo, forse, solo così, potremo avvicinarci e capire cosa veramente è questo presunto fondamentale Ego. Uno scarto fra il niente che io sono e l'essere: <<Non essere niente e abitare il mondo è la stessa cosa […] sono autorizzato a dire che io sono il mondo>>(63).
ESSERE O NON ESSERE?
<<Essere e non essere si danno nascita tra loro>>(64). Così recita l'antico testo taoista del quinto secolo vanti Cristo intitolato Tao Tè Ching.
<<Qui, ciò che si dice dell'essere e ciò che si dice del nulla fa tutt'uno, è il rovescio e il diritto del medesimo pensiero; la visione chiara dell'essere quale esso è sotto i nostri occhi - come essere della cosa che è tranquillamente, ostinatamente se stessa, poggiante su se stessa, non io-assoluto - è complemento o anche sinonimo di una concezione di sé come assenza ed elusione. L'intuizione dell'essere è solidale con una specie di negintuizione del nulla>>(65). Merleau-Ponty entra subito nel vivo della questione: essere e nulla non sono veramente due, sono solo due facce della stessa medaglia tant'è che: <<Colmare la fessura è in realtà scavarla […] il nulla si scava e si riempie con lo stesso movimento>>(66).
Per Merleau-Ponty la riflessione sull'essere è parzialmente positiva: ricordiamo, al proposito, la sua idea di superriflessione a cui abbiamo già accennato e sulla quale ritorneremo a breve. Non è il contatto esistenziale che esprime l'essere ma è l'espressione linguistica intorno all'essere. Bisogna usare un linguaggio poetico e inventivo per avere esperienza dell'essere e per aiutarlo a realizzarsi e a crescere. L'essere è un campo e noi ne siamo del campo. L'essere è anteriore a ogni riflessone sull'essere.
Scrive Shakespeare:
<< Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire>>(67).
Ma per Merleau-Ponty non è un dilemma:
<<Ma ciò non è forse dovuto al fatto che questo pensiero è inafferrabile? Esso comincia con l'opporre assolutamente l'essere e il nulla e finisce con il mostrar che, in un certo qual modo, il nulla è interno all'essere, il quale è l'unico universo>>(68).
<<C'è una percezione dell'essere e una impercezione del nulla che sono reciprocamente coestensive, che fanno tutt'uno. Un negativismo assoluto - che pensi cioè il negativo nella sua originalità - e un positivismo assoluto - che pensi cioè l'essere nella sua pienezza e nella sua sufficienza - sono esattamente sinonimi, tra di essi non c'è il minimo scarto […] in quanto assolutamente opposti, l'Essere e il Nulla sono indiscernibili […] quando vediamo l'essere, il nulla è subito là>>(69). Così Merleau-Ponty sembra quasi rispondere a Shakespeare: non c'è questo presunto abisso fra essere e non essere, fra l'Essere e il Nulla. Sono apparentemente degli opposti ma non sono certo lontani: fanno tutt'uno. Merleau-Ponty, forse, non si sarebbe mai chiesto: "meglio essere o non essere" visto che "tra di essi non c'è il minimo scarto". <<Ho un nulla riempito dell'essere, un essere svuotato dal nulla>>(70). Sembra quasi un tipico Koan dello Zen e, forse, lo è. Infatti mi pare una asserzione piena, allo stesso tempo, di certezza logica e di illogica aspettativa del tipo: "quando non hai più niente, buttalo via!"(71) Anche Krishnamurti scrive qualcosa di simile: <<Il fondamento è vuoto, è il vuoto>>(72). Quest'ultima asserzione richiama il pensiero di Merleau-Ponty quando parla di filosofia senza fondamento cioè ab-grund oppure an-archè.
<<Il nostro punto di partenza non sarà: l'essere è, il nulla non è, - e nemmeno: c'è solo dell'essere -, formula di un pensiero totalizzante, di un pensiero di sorvolo, ma sarà: c'è essere, c'è mondo, c'è qualcosa […] Non si fa sorgere l'essere a partire dal nulla, ex nihilo, si parte da un rilievo ontologico in cui non si può mai dire che lo sfondo non è niente. Ciò che è primo non è l'essere pieno e positivo sullo sfondo del nulla, ma un campo di apparenze, ciascuna delle quali, presa a parte, forse si dissolverà, o in seguito (è la parte del nulla) sarà cancellata: tuttavia, io so soltanto che sarà sostituita da un'altra la quale sarà la verità della prima, perché c'è mondo, perché c'è qualcosa, un mondo, un qualcosa, che, per essere, non debbono anzitutto annullare il niente>>(73).
Essere o non essere? Per Shakespeare sono due realtà opposte: l'una nega l'altra. Infatti bisogna scegliere fra vivere o morire. Situazione tipica del modo di pensare occidentale che si basa sempre e comunque sul principio del terzo escluso platonico-aristotelico. Merleau-Ponty va oltre: l'essere e il non essere non si escludono a vicenda. Ciò che è, non deve per forza annullare il nulla. L'essere è pieno di buchi, di tagli. Dialettica fra l'essere e il nulla. Si avvolgono a vicenda. Ogni termine è valido solo se si rapporta al termine opposto.
<<Non potremmo semplicemente esprimere ciò dicendo che all'intuizione dell'essere e alla negintuizione del nulla si deve sostituire una dialettica? Più profondamente, il pensiero dialettico è quello che ammette delle azioni reciproche o interazioni - che ammette quindi che il rapporto globale fra un termine A e un termine B non può esprimersi in un'unica proposizione, che esso ricopre una molteplicità di proposizioni che sono sovrapponibili, che sono anzi opposte, che definiscono altrettanti punti di vista logicamente incomprensibili e realmente uniti in esso, e c'è di più: ognuno di questi punti di vista conduce a quello opposto o al proprio rovesciamento, e lo fa spontaneamente. Di modo che: l'Essere, per l'esigenza stessa di ogni prospettiva, e dal punto di vista esclusivo che lo definisce, diviene un sistema a più entrate>>(74).
L'Essere, secondo Merleau-Ponty, va visto da un punto di vista prospettico e dialettico. Dialettico non in senso hegeliano ma in quanto esistono una pluralità di proposizioni, anche opposte, a proposito del rapporto fra essere e non essere che si rovesciano reciprocamente. Questa dialettica è comunque anche prospettica perché, come detto, consta di molti accessi diversi che non si elidono a vicenda ma che si orientano al geometrale ovvero all'incardinamento di tutte le infinite possibili prospettive.
Consideriamo ora quanto dice la fisica moderna a proposito del rapporto fra essere e vuoto. <<La scoperta delle qualità dinamiche del vuoto è considerata da molti fisici uno dei risultati più importanti della fisica moderna>>(75). A queste parole fanno eco quelle di Merleau-Ponty quando scrive: <<Letteralmente c'è creazione e annientamento dei corpuscoli nell'atto di osservare. Ma agli stati di esistenza e di non esistenza si aggiunge "lo stato zero che esprime la possibilità del passaggio all'esistenza">>(76).
Come abbiamo potuto constatare, il pensiero della fisica quantistica sopra esposto concorda con quello del nostro filosofo di riferimento: l'essere e il non essere (o vuoto, o nulla) non sono opposti ma sono contigui. Quest'ultimo poi (chiamiamolo vuoto per comodità) è pieno di potenzialità di generare particelle subatomiche andando a prendere a prestito l'energia necessaria da eventi futuri (energia che verrà poi restituita con l'annientamento delle particelle create, per così dire, a credito). Oltretutto il passaggio di Merleau-Ponty sopra riportato ci introduce nel concetto di una logica a tre valori: esistenza, stato zero, non esistenza. Questo "stato zero" ricorda molto da vicino il "campo del punto zero" citato da David Bohm quando scrive: <<Questo oceano di energia è proprio il vuoto quantistico, altrimenti definito "campo del punto zero.[…] L'universo non è separato da questo mare cosmico di energia, è un'increspatura sulla sua superficie, una specie di "area di eccitazione" nel mezzo di un oceano incomparabilmente vasto>>(77).
<<La profondità dell'essere, che non è riconosciuta se non con la nozione di infinito [un fondo inesauribile dell'essere che non è soltanto questo e quello, ma avrebbe potuto essere altro (Leibniz) o è effettivamente più di quanto sappiamo (Spinoza, gli attributi sconosciuti)…>>(78). Sia in questo passo di Merleau-Ponty e sia nel precedente di Bohm sembra si stia parlando dell'Essere selvaggio, della "dimensione grezza dell'essere carnale precedente il costituirsi del soggetto e dell'oggetto"(79).
Importante anche ricordare che, qualsiasi cosa pensiamo dell'essere, noi, secondo Merleau-Ponty, ne siamo completamente dell'essere, lo viviamo, lo abitiamo, siamo istallati in esso. Ogni domanda che ci facciamo sull'essere è una domanda interna all'essere. Aristotele, Kant e altri filosofi elencavano le categorie dell'Essere presumendo di farlo dal suo esterno. Noi, sempre secondo Merleau-Ponty, siamo anche consapevoli che "nessuna risposta può dissipare il mistero del nostro rapporto con l'essere"(80). Noi e l'essere siamo avvolti e coinvolti gli uni nell'altro. Noi diamo espressione all'essere con il nostro pensiero, con il nostro linguaggio innovativo e, d'altro canto, senza l'essere, noi non saremmo. Chiasma fra l'uomo e l'essere. Anche se l'essere rimane, per principio, non oggettivabile, profondo, multivoco. Infatti l'essere è animato da una profondità originaria che non ne permette una oggettivazione definitiva. L'essere rimane quindi sempre anche celato. Questa è anche una critica alla scienza moderna, alla sua fiducia un po’ cieca nelle proprie elaborazioni.
<<Proprio tale nostro rapporto di implicazione […] nell'essere carnale si configura invece, spiega Merleau-Ponty, come il "prototipo" del nostro rapporto con l'Essere, quest'ultimo essendo a sua volta orizzonte di latenza che come tale risulta invisibile, ma che appunto come tale avvolge gli enti rendendoli visibili e in essi rendendosi direttamente visibile>>(81). Questo commento di Mauro Carbone coglie in pieno il concetto di avvolgimento reciproco, di chiasma fra l'Essere (invisibile) e gli enti (visibili). Dunque, per Merleau-Ponty, l'Essere si rende visibile tramite gli enti: l'Essere è il "darsi a vedere" delle cose. L'Essere sboccia ovunque, sempre di nuovo, ripetutamente come fosse la natura a primavera. L'Essere zampilla, rinascendo ogni volta in forme sempre diverse, come una fontana libera e anarchica. L'Essere è multivoco e non oggettivabile e non si lascia facilmente catalogare.
Chiudiamo il discorso con un pensiero Merleau-Ponty: <<In quanto assolutamente opposti, Essere e Nulla sono indiscernibili>>(82).
DESTITUIRE IL SENSO ISTITUITO DI MAURICE MERLEAU-PONTY
Scrive Anne-Marie Sauzeau Boetti curatrice del convegno svoltosi nell'aprire 1988: <<Merleau-Ponty non è stato il filosofo della torre d'avorio ma dell'impegno in senso profondo, con immensa e scomoda onestà intellettuale […] senza mai rinunciare alla domanda fondamentale circa "la cosa stessa" la primordialità che sottende l'esperienza come il silenzio sottende il linguaggio. Sempre faceva ritorno al patto primordiale che lega l'uomo al mondo. In questo, forse, è l'ultimo filosofo e il primo dei non-filosofi, preso in una volontà di non-possesso, in una finale esitazione o "balbettio" (come disse Lacan) che fu la sua qualità>>(83). Sembra doveroso sottolineare "la volontà di non-possesso" e "una finale esitazione" qualità molto rare per un filosofo occidentale. Merleau-Ponty è stato personaggio di grande impegno anche nella vita politica. Il suo rigore morale e la sua intelligenza lo hanno però allontanato dalle facili posizioni di asservimento. Ricordiamo, al proposito, le sue diatribe con Jean-Paul Sartre e il loro distacco dopo aver collaborato per molti anni alla rivista Tempi Moderni. Il motivo della rottura fu la diversa visione sulle mire espansionistiche dell'Unione Sovietica. A voler ben vedere bisogna ammettere che Merleau-Ponty aveva una capacità intuitiva del futuro e una libertà di pensiero ben superiori a quelle del suo amico Sartre.
La sua grande perspicacia la si coglie nella seguente semplice affermazione tratta dal suo libro Fenomenologia della percezione ove scrive: <<La vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo>>(84). In queste pochissime parole è evidente il grande progetto di andare oltre il senso istituito. Il suo spirito critico lo porta a superare, andar oltre gli insegnamenti ricevuti. Ciò anche tramite la "superriflessione".
<<Altrimenti detto, noi intravediamo la necessità di un'operazione diversa dalla conversione riflessiva, più profondamente di quest'ultima, intravediamo la necessità di una specie di superriflessione che tenga conto anche di se stessa e dei mutamenti che essa introduce nello spettacolo, che quindi non perda di vista la cosa e la percezione grezza, e infine non le cancelli, non recida, attraverso un'ipotesi di inesistenza, i legami organici della percezione e della cosa percepita, e assuma viceversa il compito di pensarli, di riflettere sulla trascendenza del mondo come trascendenza, di parlarne non secondo la legge dei significati delle parole, inerenti al linguaggio dato, ma grazie a uno sforzo, forse difficile, che impiega questi significati per esprimere, al di là dei significati stessi, il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora cose dette>>(85).
<<Il filosofo è sempre implicato nei problemi che pone, e non c'è verità se, per valutare ogni enunciato, non si tiene conto della presenza del filosofo che enuncia>>(86).
Reimparare a vedere il mondo andando oltre il senso istituito: andare oltre i significati attribuiti alle cose per giungere al contatto diretto con le cose stesse tramite la percezione grezza. La superriflessione che, ricordiamolo, è la riflessione che tiene conto dei mutamenti che essa stessa produce nel mondo e sulle cose, ebbene la superriflessione può portare a una vera rivoluzione nel percepire perché non è condannata "a mettere nelle cose ciò che poi fingerà di trovarvi". Del tipo: "l'albero è verde"; lui, l'albero, non lo sa di essere verde, non è interessato alla questione. Noi invece, che abbiamo messo il verde sull'albero, ci stupiamo poi di trovarcelo. "Ci si immerga nel mondo anziché dominarlo" dice Merleau-Ponty. Dobbiamo quindi vivere il mondo dal di dentro anziché catalogarlo e studiarlo dal di fuori.
Per Merleau-Ponty il filosofo è l'uomo che si risveglia e che parla misurando ogni volta l'inadeguatezza della sua parola e la necessità di non rinunciarvi. La filosofia di Merleau-Ponty è stata fin dall'inizio interrogazione aperta, ricerca del senso dell'essere delle cose e si è andata sempre più indirizzando verso un'ontologia radicalmente ripensata in cui il senso è sempre più qualcosa di non concluso, di non compatto, più uno scarto che una pienezza.
Concludiamo questo paragrafo confrontando il pensiero di Merleau-Ponty con quello del filosofo americano Robert Nozick più giovane di una trentina di anni rispetto al filosofo francese <<Respirare il mondo, magari talvolta sentire perfino che è il mondo a respirare noi, può essere un'esperienza profonda di non separatezza dal resto dell'esistenza>>(87). Entrambe queste asserzioni sono improntate all'idea che "noi ne siamo del mondo" espressione molto cara a Merleau-Ponty. E, partecipando del mondo, dobbiamo reimparare a percepire il mondo.
I CONTRARI
<<Niels Bohr amava dire che ci sono due tipi di verità: le verità semplici e le verità profonde. Le verità semplici sono verità la cui negazione non è vera. Una verità profonda è una verità la cui negazione è anch'essa vera!>>(88). Iniziamo il discorso intorno ai contrari partendo da una asserzione tratta da un libro del Dalai Lama che coinvolge il pensiero di uno dei padri della meccanica quantistica. Due menti così diverse eppur così vicine da condividere una riflessione tanto innovativa, rivoluzionaria: esistono due tipi di verità tra loro contraddittorie. La verità semplice è quella tradizionale aristotelica: se è vero "A", non può essere vero, contemporaneamente, anche "non A". Non esistono altre alternative: tertium non datur. La verità profonda è invece il contrario di quella semplice. Infatti risultano vere sia l'affermazione che la negazione di un certo tipo di verità. E qui la nostra piccola mente si perde chiedendosi come ciò sia possibile. Cerchiamo di avvalerci di un piccolo e semplice esempio chiarificatore tratto dalla meccanica quantistica: il dualismo onda-particella. Un fotone, un elettrone si comportano come se avessero una duplice natura: possono presentarsi a noi (tramite gli strumenti idonei) sia sotto forma di un'onda che sotto forma di corpo. Quindi risulta vero sia che il fotone è un corpuscolo e sia, al contrario, che il fotone non è un corpuscolo (ma un'onda). "Uno iato profondo, uno scarto notevole" potremmo dire con Merleau-Ponty.
Abituati da millenni alla logica binaria, quindi a due valori: o A oppure non A, facciamo fatica ad abituarci alla logica a tre valori: esistenza, stato zero, non esistenza di cui parla Merleau-Ponty quando scrive a proposito della relazione d'incertezza di Heisenberg:<< Agli stati di non-esistenza e di esistenza si aggiunge "lo stato zero che esprime la possibilità del passaggio all'esistenza">>(89). Dunque la fisica quantistica, come ci ricorda anche Merleau-Ponty, pone alla logica problemi più o meno simili a quelli posti dal famoso problema di Zenone di Elea: infatti proprio come non è possibile per Zenone affermare che il movimento è fermo in un dato punto a un certo momento, allo stesso modo è impossibile per la meccanica ondulatoria comporre in una realtà del tutto accessibile le tre posizioni di cui sopra: esistenza, non esistenza e lo stato zero. Ciò è in contrasto con il pensiero classico che vuole sempre comporre le varie determinazioni in una unica realtà fruibile, accessibile.
<<Nell'opera d'arte o nella teoria come nella cosa sensibile, il senso è inseparabile dal segno. L'espressione, dunque non è mai compiuta. La più alta ragione confina con la non-ragione>>(90) scrive Merleau-Ponty che dice anche <<Persino le nostre matematiche hanno cessato di essere lunghe concatenazioni razionali>>(91) e ancora: <<Piuttosto che un mondo intellegibile, esistono fulcri sfavillanti separati da zone notte>>(92). Insomma la realtà del mondo unico, razionale e intellegibile sfuma: <<E' come un passo nella nebbia e nessuno può dire se esso conduca a qualche luogo>>(93).
E, per completare il quadro di una realtà filosofica sfuggente, Merleau-Ponty aggiunge ancora <<Il negativo ha il suo positivo, il positivo ha il suo negativo: proprio perché ognuno ha in sé il suo contrario, essi sono capaci di passare l'uno nell'altro, e nella storia sostengono perpetuamente la parte di fratelli nemici>>(94). Dunque anche la filosofia rivela dei vuoti: essa è il negativo di un certo positivo e non un vuoto qualunque.
Merleau-Ponty insiste sul fatto che soggetto e oggetto, io e mondo, libertà e necessità, non vanno visti nei termini antitetici della filosofia classica e delle sue soluzioni unilaterali (materialismo e idealismo) ma vanno considerati come un chiasma fra corpo e pensiero e fra visibile e invisibile.
LA NATURA, IL MONDO, L'UNIVERSO
<<C'è natura ovunque ci sia una vita che ha un senso, ma in cui, tuttavia, non c'è pensiero; di qui la parentela con ciò che è vegetale: natura è ciò che ha un senso, senza che questo senso sia stato posto dal pensiero. E' autoproduzione di senso. La Natura è dunque diversa da una semplice cosa; ha un interno, si determina dal didentro; di qui l'opposizione fra "naturale" e "accidentale". E tuttavia la Natura è differente dall'uomo, non è istituita da quest'ultimo, si oppone al costume, al discorso. La Natura è il primordiale, cioè il non costruito, il non istituito; di qui l'idea di un'eternità della Natura (eterno ritorno), di una solidità. La Natura è un oggetto enigmatico, un oggetto che non è del tutto oggetto; essa non è completamente dinnanzi a noi. E' il nostro suolo, non ciò che è dinnanzi ma ciò che ci sostiene>>(95). "Nella Natura non c'è pensiero" dice Merleau-Ponty. Però c'è un senso. Ora mi verrebbe da chiedere: ma chi stabilisce il senso se non il pensiero? E il nostro filosofo risponde che c'è comunque del simbolico, c'è espressione anche nel mondo animale: l'animalità è il Logos del mondo sensibile, è un senso incorporato. Scrive infatti Merleau-Ponty:<<E' del tutto possibile che la vita non sia sottoposta semplicemente al principio di utilità e che ci sia una morfogenesi con intento espressivo>>(96). E ancora:<<Ci sono numerosi casi di ipertelia, una profusione delle forme realizzate dalla vita: l'adattamento non è il canone della vita, ma una realizzazione particolare nel flusso della produzione naturale>>(97). L'utilità, l'adattamento che sono alla base del darwinismo vengono superati dal nostro filosofo che nota nella natura animale atteggiamenti di eleganza e di puro spettacolo con intento espressivo. La natura è espressione.
La Natura è, e noi ne siamo parte essendo lei il suolo su cui poggiamo i nostri piedi.
<< Il mondo, l'Essere, sono polimorfismo, mistero e non uno strato di essenti piatti o di in sé>>(98).
<<Ciò che vediamo dipende più dal modo come siamo fatti noi che dal modo come è fatto il mondo>>(99).
Merleau-Ponty, citando Alfred Whitehead, scrive anche : <<Se la Natura non è oggetto di pensiero, ossia semplice correlativo di un pensiero, non è certamente neppure soggetto, e ciò per lo stesso motivo: la sua opacità, il suo avvolgimento. E' un principio oscuro. […] la Natura "comunica con se stessa" […] In essa creatura e creatore sono inseparabili […] la Natura è una "presenza operante">>(100). Dunque, per Whitehead, la Natura non è pensiero ma è invece sia un principio oscuro che una presenza operante. Merleau-Ponty utilizza poi, per chiarirci questa duplice definizione alquanto complessa, il concetto, a lui caro, di avvolgimento ove creatura e creatore sono inseparabili.
Alfred Whitehead afferma anche che la mente, nell'afferrare qualcosa, esperimenta le sensazioni che ciò che viene afferrato siano solo le qualità della mente. I corpi sono quindi percepiti con qualità che in realtà non appartengono ai corpi stessi essendo qualità, come detto, della mente. Così la natura assume il merito che in realtà compete alla mente umana: la rosa per il suo profumo, l'usignolo per il suo canto, il sole per il suo brillare.
La natura è sempre al primo giorno, è sorgiva in noi, fontana zampillante. La natura zampilla in noi. Fare la psicoanalisi della natura per liberarla da Cartesio. Meraviglie del pensiero di Merleau-Ponty.
Il fisico teorico Carlo Rovelli ci offre una visione nuova e originale: <<Il mondo è terribilmente più complicato delle immagini ingenue che ce ne facciamo per muoverci in esso. Il nostro pensiero altrettanto. La stessa distinzione tra i due è ancora un enigma>>.(101) Mondo e pensiero sono due? E, se sono due, qual è quello più affidabile? O sono invece reciprocamente avvolti, coinvolti, connessi? Difficile da dire: stiamo affrontando un problema pressoché insolubile come ci spiega nella frase seguente Merleau-Ponty: <<Noi vediamo le cose stesse, il mondo è ciò che noi vediamo: formule di questo genere esprimono una fede che è comune all'uomo naturale e al filosofo dacché egli apre gli occhi, rinviano a un sostrato profondo di "opinioni" mute implicate nella nostra vita. Ma tale fede ha questo di strano, che se si cerca di articolarla in tesi o enunciato, se ci si chiede cos'è noi, che cos'è vedere e che cos'è cosa o mondo, si entra in un labirinto di difficoltà e di contraddizioni>>(102). Non sappiamo bene cosa sia "noi" e cosa sia "la cosa", non sappiamo bene neppure cosa sia "pensiero" e cosa sia "mondo". Eppure abbiamo fede sia nel mondo che percepiamo sia nel pensiero che ci abita. Rovelli dice addirittura che forse "i pensieri ci attraversano".
Anche Heisenberg, il grande fisico padre della meccanica quantistica parla del mondo: <<Il mondo appare così come un complicato tessuto di eventi, in cui rapporti di diverso tipo si alternano, si sovrappongono e si combinano determinando la struttura del tutto>>(103). Qui, nella prospettiva quantistica, non si parla più di cose ma di eventi. Ricordiamo infatti che, in questa nuova visuale, anche la particella subatomica più piccola è un evento che si produce in un campo quantico. Campi su campi.
<<La Natura è puro divenire. Essa è paragonabile all'essere di un'onda, la cui realtà è solo globale e non parcellare. L'individualità dell'ordine non è individualità materiale. Appunto come l'onda è solo scavalcamento, così la natura è uno scavalcamento del tempo e dello spazio seriale […] Se si vuole capire il divenire della natura in sé, si potrebbe affermare che la Natura è la memoria del mondo […] Il divenire della natura, o potenza creatrice dell'esistenza, non ha margini ristretti, non ha un presente istantaneo definito, al cui interno opererebbe la sua potenza>>(104). L'immagine dell'onda è abbastanza ricorrente nella filosofia di diverse civiltà e di diversi periodi: ricordiamo, ad esempio, quella del monaco taoista del settimo secolo Fa zang che si occupa appunto dell'onda e del suo posto nel mare dicendo che non c'è onda senza mare e non c'è mare senza onde. Su questo concetto ci ritorneremo più dettagliatamente.
<<Il mondo è come quella fascia di schiuma sul mare che vediamo dall'aereo: essa sembra immobile, e d'un tratto, poiché si è leggermente dilatata, si comprende che da vicino essa è pulsione e vita, ma anche che, vista da una certa altezza, l'ampiezza dell'essere non oltrepasserà mai quella del nulla, né il rumore del mondo il suo silenzio>>(105). Poetiche parole di Merleau-Ponty.Visione simile del mondo viene espressa anche dal fisico Rovelli che però pone l'attenzione più sul fatto che il mare, visto dall'alto sembra inanimato, fermo, mentre avvicinandosi ci si accorge delle onde e del moto in una visione prospettica di taglio fisico. Merleau-Ponty invece pone più enfasi sui concetti filosofici e poetici.
<<In complesso, quindi, una filosofia rigorosa della negintuizione(106) dà conto dei mondi privati senza richiuderci in essi: non c'è, propriamente parlando, intermondo, ognuno non abita che il suo, vede esclusivamente secondo il proprio punto di vista, entra nell'essere solo in virtù della sua situazione>>(107). E ancora: <<Tutt'al più, se si vuole rendere giustizia alla prospettiva della percezione su se stessa, si dirà che ciascuno di noi ha un mondo privato: questi mondi privati sono "mondi" unicamente per il loro titolare, non sono il mondo>>(108). Dunque, ognuno di noi ha un suo personale accesso all'Essere, ognuno di noi ha un suo specifico punto di vista situazionale sul mondo, una sua prospettiva, un suo orizzonte anche se "i mondi privati" comunicano fra di loro, sempre tenendo però presente che:<<La Natura è dunque ciò in cui noi siamo, è mescolanza, e non è ciò che contempliamo da lontano, come in Laplace>>(109). Ritorna sempre il solito tema di Merleau-Ponty: noi ne siamo del mondo, noi ne siamo della Natura. Non possiamo osservare mondo e natura dal di fuori essendoci dentro. E dal di dentro, ognuno si crea un proprio accesso all'Essere.
<<La filosofia chiede alla nostra esperienza del mondo che cos'è il mondo prima di essere esperienza di cui si parla e che è ovvia, prima di essere stato ridotto in un insieme di significati maneggevoli, disponibili; essa pone tale domanda alla nostra vita muta, si rivolge a quella mescolanza del mondo e di noi che precede la riflessione, poiché l'esame dei significati in se stessi ci darebbe il mondo ridotto alle nostre idealizzazioni e alla nostra sintassi. Ma, d'altro canto, ciò che trovo ritornando così alle origini, la filosofia lo dice. Essa stessa è una costruzione umana, e il filosofo sa bene, quale che sia il suo sforzo, che nel migliore dei casi essa prenderà posto a titolo di campione fra gli artefatti e i prodotti della cultura>>(110).
La Natura è da considerare come foglio o strato dell'Essere totale e noi ne siamo dell'Essere. La Natura non si lascia però racchiudere all'interno di un modello preformato. Non è certo l'oggetto ostentato davanti a noi della scienza cartesiana. La scienza moderna mette in questione il proprio oggetto di studio e mette in discussione anche la propria relazione con questo oggetto. Siamo infatti giunti a una Natura inglobante e inglobata tanto cara a Merleau-Ponty. Per lui il mondo esiste indipendentemente dall'uomo.
<<Tutt'al più, se si vuole rendere giustizia alla prospettiva della percezione su se stessa, si dirà che ciascuno di noi ha un suo mondo privato: questi mondi privati sono "mondi" unicamente per il loro titolare, non sono il mondo>>(111).
<<Si dice che nel cielo di Indra esiste una rete di perle disposta in modo tale che, se ne osserva una, si vedono tutte le altre riflesse in essa. Nello stesso modo, ogni oggetto nel mondo non è semplicemente se stesso ma contiene ogni altro oggetto e, in effetti è ogni altra cosa>>(112). Questa è metafora molto antica, tramandata dalla tradizione buddista, a significare l'interdipendenza che regna nell'universo: ogni cosa-evento è in collegamento con tutte le altre. Anche Alan Watts nel suo libro La via dello zen cita la rete di Indra scrivendo: "Immagina una rete di ragno multidimensionale, coperta di primo mattino da gocce di rugiada. E che ogni goccia di rugiada contiene il riflesso delle altre gocce. E in ogni goccia di rugiada riflessa, i riflessi di tutte le altre gocce di rugiada in quel riflesso e così all'infinito. Questa è la concezione buddista dell'universo in una immagine".
Questa considerazione unisce l'antico pensiero orientale all'antico pensiero filosofico greco di Anassagora che diceva: <<In ogni (cosa) ci potranno essere tutte (le cose): non è possibile che qualche cosa esista separatamente, ma tutte (le cose) hanno parte a tutto>>(113). Anche il pensiero della moderna fisica quantistica sottolinea con forza che la <<realtà è relazione, è interazione: tutte le caratteristiche di un oggetto esistono solo rispetto ad altri oggetti>>(114).
L'UNO E I MOLTI, LE PARTI E IL TUTTO
Giochiamo ora un nuovo gioco: quello dell'Uno e dei Molti, quello dell'Uno e delle sue parti: la diade indefinita. Le parti e il Tutto.
Partiamo da Eraclito che scrive "Da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose"(115). Gli fa eco il taoismo cinese quando afferma: "Le diecimila creature ed io siamo l'Uno"(116).
Passiamo poi alle cosidette "dottrine non scritte" di Platone intorno alle "cose supreme e prime" dottrine delle quali abbiamo notizia soprattutto grazie ad Aristotele e alla sua Metafisica. Qui si ascrive a Platone un Uno come principio di tutte le cose e una Diade indefinita (il grande e il piccolo). L'Uno sarebbe, sempre secondo quanto riporta Aristotele, identificato con il Bene, il positivo, la determinatezza. La Diade, che è il molteplice, è identificata invece con il Male, con il negativo, con l'indeterminatezza. Stiamo quindi affrontando un problema metafisico di fondo: il rapporto bipolare, di origine pitagorica, fra gli opposti: l'Uno e il Molteplice: il Mondo è Uno ma appare molteplice. L'Uno dunque non rimane uno (come pensava invece Parmenide) ma scende di livello presentandosi, di volta in volta, sotto molteplici aspetti.
<<La frammentazione in tanti elementi separati è un po’ come osservare tante punte di un unico iceberg apparentemente lontane le une dalle altre, che sono in realtà connesse a un'unica parte sommersa, quella che guida lo spostamento nel mare delle cime emerse>>(117).
Per semplificare possiamo avvalerci di un articolo di Giangiorgio Pasqualotto ove, citando il saggio orientale Fa zang, si recita: <<Non ci sono onde senza mare e non c'è mare senza onde>>(118). Ciò a significare che il molteplice (le onde) ha bisogno dell'Uno (il mare) e, viceversa, il mare (l'Uno) ha bisogno delle onde (il molteplice).
<<Non è difficile capire perché la concezione olistica orientale abbia tanto ostacolato il progresso scientifico: essa respinge l'idea intuitiva che si possano studiare le singole parti del mondo isolandole dal resto - cioè che si possa analizzare il mondo - e che si possa comprendere una parte senza comprendere il tutto. In termini moderni, il punto di vista occidentale ha considerato la natura come un fenomeno lineare, nel quale ciò che accade in dato luogo e in dato istante è determinato esclusivamente da ciò che si è verificato immediatamente prima nei punti contigui. La concezione olistica, invece, parte dal presupposto che la natura sia intrinsecamente non lineare, cosicché le influenze non locali predominano e interagiscono dando luogo a un tutto assai complicato. Non si può dire che l'impostazione orientale sia mal indirizzata: era semplicemente prematura >>(119). E' pur vero che l'Universo è tutto interconnesso e che, di conseguenza, per conoscere il tutto bisognerebbe conoscere ogni singola parte e, viceversa, per conoscere una singola parte, qualsiasi essa sia, bisognerebbe conoscere tutte le altre parti e cioè il tutto. Pur tuttavia la scienza ha fatto le sue scelte: studia le parti come fossero un tutto. I risultati ottenuti sono notevoli nonostante l'approssimazione insita. Comunque teniamo sempre presente che "la somma di tutte le osservazioni che potremmo comunque fare può parlarci soltanto di una porzione minuscola del tutto"(120).
<<Ci eravamo abituati a considerare prevalenti in natura i fenomeni lineari, predicabili e semplici, perché abbiamo una predisposizione a selezionarli e a studiarli, in quanto sono più facili da comprendere. Ma ora dobbiamo mutare punto di vista e considerare un mistero il fatto che in natura vi sia un numero così significativo di fenomeni lineari e semplici: al fondo, questa è la ragione per cui il mondo ci è intellegibile. I fenomeni lineari e semplici possono essere analizzati un elemento alla volta, perché in questo caso il tutto non è altro che la somma delle parti, e possiamo capire qualcosa di un sistema senza capirlo tutto. Viceversa i sistemi non lineari caotici sono differenti: essi richiedono che si abbia una conoscenza del tutto per poterne comprendere le parti, in quanto il tutto è qualcosa di più della semplice somma delle parti>>(121). Dunque il tutto svolge un duplice ruolo: semplice somma delle sue parti nei sistemi lineari che sono, contrariamente a quanto ci è dato di pensare, i sistemi meno diffusi. Quelli più diffusi sono invece quelli caotici ove la somma delle parti non corrisponde più al tutto. In questo secondo caso la complicazione aumenta notevolmente.
Anche Merleau-Ponty parla del tema in questione: l'azione reciproca del tutto sulle parti e delle parti sul tutto. Lo fa occupandosi di embriologia. <<Tutto accade come se, quando si produce una divisione, ciò che resta si rassegnasse a tener conto della situazione, a fare di uno due o di due uno, come se il tutto fosse immanente alle parti>> e ancora <<Ma lo scienziato, dal momento che ha i suoi fattori scatenanti, non si pone più il problema, dimentica di dover spiegare l'azione del tutto sulle parti, e ciò perché ha realizzato il tutto e può agire su di esso>>(122). Gli scienziati però si occupano poco della filosofia dell'organismo e di come esso agisca. Infatti la loro preoccupazione è quella di trovare degli appigli, di intervenire e non di vedere filosoficamente dato che per loro ciò sarebbe una specie di paralisi. In tal modo essi svelano più di quanto vedano. Per questo <<Il filosofo deve vedere dietro le spalle del fisico ciò che lo stesso fisico non vede>>(123).
Anche in fisica si è cercata assiduamente una "teoria del tutto" ma senza risultati degni di nota. Lo stesso Einstein si impegnò a fondo in questa ottica fino alla fine dei suoi giorni senza però riuscire a mettere insieme qualcosa di apprezzabile. John Barrow chiude il suo libro intitolato Teorie del tutto con sottotitolo La ricerca della spiegazione ultima con la seguente frase: <<Non c'è alcuna formula che possa esprimere tutta la verità, tutta l'armonia, tutta la semplicità. Nessuna teoria del tutto potrà mai farci comprendere ogni cosa. Perché vedere attraverso ogni cosa significherebbe non vedere più nulla>>(124). In conclusione, non esiste una verità ultima e non esiste neppure l'ultimo libro, quello che contiene la Verità. Tale libro non è ancora stato scritto né mai lo sarà. Su questo concorda anche Merleau-Ponty che ci propone, al posto della spiegazione ultima, il "sempre di nuovo", il continuo inizio, la continua nascita. La fontana zampilla acqua sempre nuova. Questo perché siamo sempre in una situazione prospettica(125).
IL LINGUAGGIO
E se la misura di tutte le cose fosse il linguaggio?
<< Il linguaggio […] il nostro elemento come l'acqua è l'elemento dei pesci>>(126) (127).
Noi viviamo nel linguaggio, noi viviamo del linguaggio. Senza linguaggio, forse, non avremmo neppure la possibilità di comunicare e, quindi, di stabilire chi è o cos'è la misura di tutte le cose. Senza linguaggio "le cose reali" non sarebbero "dette" e non ci sarebbe, quindi, neppure la necessità o la possibilità di capire quale sia il loro significato.
<<In un certo senso, il significato è sempre lo scarto: ciò che l'altro dice mi sembra pieno di senso perché le sue lacune non sono mai là dove sono le mie. Molteplicità prospettica>>(128).
Merleau-Ponty continua la sua argomentazione a proposito del linguaggio aggiungendo: <<La significazione univoca è solo una parte della significazione della parola, che c'è sempre, al di là, un alone di significazione che si manifesta in modi di impiego nuovi e inattesi >>(129).
Il nostro filosofo aggiunge anche: <<Assai più che un mezzo, il linguaggio è qualcosa di simile a un essere, e proprio per questo riesce così bene a renderci presente qualcuno: la parola di un amico al telefono ci dà l'amico stesso […] ecco perché il nostro pensiero è sparso nel linguaggio>>(130). Il linguaggio, che è dimensione dell'essere, è in grado di farci sentire vivo e reale il nostro amico che ci chiama al telefono: per noi l'altro vive attraverso il suo linguaggio. Lo percepiamo vicino e presente mentre ci parla pur non vedendolo e non potendolo neppure toccare. Lui però, nonostante tutto, c'è, è presente. Infatti: <<Non appena l'uomo si vale del linguaggio per stabilire una relazione vivente con se stesso o con i suoi simili, il linguaggio non è più uno strumento, un mezzo, ma una manifestazione, una rivelazione dell'essere intimo e del legame psichico che ci unisce al mondo e ai nostri simili>>(131). Il linguaggio, che è materiale, diventa ciò che ci unisce, che ci permette di comunicare con noi stessi, con gli altri uomini e con le cose del mondo: infatti, noi parliamo a noi stessi (pensando, riflettendo), parliamo agli altri (dialogando e vivendo con loro) e parliamo con le cose del mondo (osservandole e studiandole)(132).
<<Scrive Merleau-Ponty: "L'articolazione della parola deve riguardarmi come uno degli usi possibili del mio corpo". Subito, direi, viene in mente quella proposizione straordinaria del Tractatus di Wittgenstein dove si dice esattamente la stessa cosa: che in fondo il linguaggio è costituito come il corpo, che esso è a sua volta una sorta di corporeità estremamente complessa e perciò estremamente ambigua>>(133). Così scrive Carlo Sini nel suo contributo intitolato Il silenzio del mondo e la parola in omaggio a Merleau-Ponty. Nel passaggio in questione Sini evidenzia la grande affinità di pensiero fra il nostro filosofo e il meraviglioso Wittgenstein. E Sini aggiunge anche altre interessanti osservazioni sul linguaggio secondo Merleau-Ponty:<<Noi non possiamo mai metterci il mondo contro […] parlare è frequentare il mondo, non oggettivarlo […] riconoscere che noi siamo già nel mondo prima ancora di proferir parola […] il linguaggio è intramato con il silenzio>>(134).
<<Anziché possedere il segreto dell'essere del mondo, il linguaggio è esso stesso un mondo, è esso stesso un essere, - un mondo e un essere alla seconda potenza, perché esso non parla a vuoto, perché parla dell'essere e del mondo, e raddoppia il loro enigma invece di farlo scomparire>>(135). Il linguaggio dunque non possiede il segreto del mondo e dell'essere. Non riesce, pur parlandone, a penetrare il loro mistero ma anzi, incrementa l'enigma che li circonda. Ci serviamo del linguaggio nella speranza di capire il mondo ma il risultato non è quello sperato. Ricordiamo anche che, secondo Merleau-Ponty non c'è consequenzialità temporale fra pensiero e linguaggio: non accade che prima penso e poi parlo. No, la parola è essa stesso pensiero e quindi le due funzioni, pensiero e parola, sono contemporanee.
<<Il linguaggio significa quando, invece di copiare il pensiero, si lascia fare e disfare da esso. Esso porta il suo senso così come l'orma di un passo significa il movimento e lo sforzo di un corpo. Dobbiamo distinguere l'uso empirico del linguaggio già fatto e l'uso creatore, di cui il primo, d'altra parte, non può essere che il risultato>>(136). Si inizia qui il discorso di Merleau-Ponty intorno al linguaggio creatore, quello che inventa nuove significazioni, quello che, dopo averle inventate, va oltre le significazioni già date, consolidate e empiriche.
L'essere ha bisogno del nostro linguaggio: ne va dell'essere stesso. Bisogna quindi avere il coraggio di inventare nuove significazioni espressive, innovative rispetto al passato per dare nuove prospettive all'essere e non fossilizzarsi nel già detto, nel già pensato. Ricordiamo, al proposito, anche cosa dice la saggezza orientale:<<Una buona frase è un palo al quale un asino può restare legato per diecimila eoni>>(137). Non restiamo quindi sempre legati allo stesso palo, agli stessi concetti, alle stesse parole già dette: cerchiamo di inventare nuove significazioni.
Per fare lievitare l'essere bisogna dunque anche saper uscire dagli schemi preconfezionati e riuscire a concepire che <<E' il ponte che scorre, non l'acqua>>(138).
Noi siamo all'interno del mondo della vita (Lebenswelt). I diversi saperi sono tutti nati all'interno della Lebenswelt: anche le scienze hanno una radice esistenziale. Anche il linguaggio fa parte della Lebenswelt, usando termini più propriamente husserliani.
Merleau-Ponty faceva filosofia nel lavorio del linguaggio.
Merleau-Ponty, nel libro L'occhio e lo spirito, cita Gusty Herrigel e in particolare il suo libro Lo zen e l'arte di disporre i fiori scrivendo: <<Siamo dispensati dal capire come la pittura delle cose nel corpo possa farle sentire all'anima - impresa impossibile, poiché la rassomiglianza fra questa pittura e le cose avrebbe a sua volta bisogno di essere vista, e noi dovremmo avere "altri occhi nel cervello, con i quali percepirla">>(139). Chiudiamo questo discorso sul linguaggio con una altra citazione di Herrigel. Questa volta si tratta però del marito della sopra citata Gusty: Eugen Herrigel che scrive. <<Ciò che non è espresso, ciò che è taciuto, è più comprensibile e più eloquente di quanto è detto>>(140). Risulta del tutto evidente la profonda somiglianza con il pensiero di Merleau-Ponty quando scrive che il linguaggio è quasi silenzio.
I FENOMENI E LA FILOSOFIA
Per il pensiero orientale i fenomeni sono illusione e ombra. Lo stesso concetto vale anche per la nuova fisica del ventesimo secolo che dice: <<La creazione o l'annichilimento di una particella è il processo fondamentale della teoria dei quanta>>(141). La filosofia di Merleau-Ponty segue questo solco. Infatti, nella fenomenologia, ritornare alle cose stesse significa attingere a una dimensione originaria dell'esperienza antecedente a ogni oggettivazione scientifica. Fenomenologia come ontologia che chiama tutto quello che non è un niente a presentarsi alla coscienza attraverso delle sfumature. <<Anziché farci accedere alla presunta pienezza del mondo, l'attività percettiva "dispone di certi vuoti, certe fessure, figure e sfondi, un alto e un basso": essa è, anzitutto, un potere di articolazione e di differenziazione>>(142).
La percezione assume il significato di esperienza primaria, pre-discorsiva che è rivisitazione della filosofia classica in modo da evitare sia la riduzione idealistica del mondo a proiezione della coscienza che la riduzione positivistica dell'esistenza a parte di un meccanismo oggettivo, a mera cosa del mondo.
<<Scrive Merleau-Ponty:" Che cos'è la fenomenologia? Può sembrare strano che si debba porre ancora questa domanda mezzo secolo dopo i primi lavori di Husserl. Essa è tuttavia ben lontana dall'essere risolta. La fenomenologia è lo studio delle essenze e tutti i problemi, dal suo punto di vista, tendono a risolversi nella definizione delle essenze: per esempio l'essenza della percezione o l'essenza della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una filosofia che ripone le essenze nell'esistenza, e non pensa che si possa comprendere l'uomo e il mondo se non a partire dalla loro "fatticità">>(143). Dunque l'essenza è colta nell'esistenza: l'essenza dell'uomo è colta nella sua esistenza. Tommaso, il grande teologo, ragionava in termini simili a proposito di Dio: l'essenza di Dio è colta nella sua esistenza.
Scrive Enzo Paci nell'introduzione a Senso e non senso <<Quando si dice "tutto l'uomo" bisogna pensare che per Merleau-Ponty una delle caratteristiche della percezione è quella di presentarsi come una "totalità" o come un "insieme", come una forma non divisibile in elementi isolati>>(144). La percezione è caratteristica di un insieme, di una totalità non divisibile in elementi singoli, isolati. "Tutto l'uomo" è qualche cosa di olistico, quindi un intero, piuttosto che una somma di parti per fare un tutto.
Paci poi continua <<Insiste sul fatto che la percezione non è la somma di elementi già pensati come separati." Ciò che è primo e precedente nella nostra percezione non sono degli elementi giustapposti ma degli insiemi". "La percezione dell'insieme è più naturale e più primitiva di quella degli elementi isolati">>(145). L'insieme è la base del nostro essere. Poi però, a un certo punto, si sono imposti i singoli elementi sull'insieme. Il singolo è divenuto la nuova unità esistenziale e l' IO prende il sopravvento su tutto il resto.
Ancora Paci <<"La mia percezione non è una somma di dati visivi tattili o uditivi: io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa, un'unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi". Quest'ultimo passo ci fa capire che cosa intenda Merleau-Ponty per struttura. La struttura è ciò che io veramente percepisco ed essa non corrisponde a nessun degli organi di senso separati ma a tutto il modo di sentire, di vivere, di impegnarsi dell'uomo>>(146). La struttura, il campo, la stringa, l'insieme sono i veri protagonisti della percezione.
La fenomenologia deve sapersi mettere in discussione: <<L'esigenza prima della fenomenologia è dunque quella di una costante messa-in-questione di se stessa nel presente, inteso come fascio di relazioni significanti>>(147). Il presente come fascio di relazioni significanti. Ci si deve mettere in discussione in un presente in divenire. Ciò anche perché: <<Il percepito non si dà mai nella sua inseità, ma in un contesto relazionale: la figura (in quanto individuum della visione) è sempre figura su sfondo>>(148). La Gestalt diviene protagonista: lo sfondo è altrettanto importante della figura. Senza sfondo non vi è la figura. Senza la figura non vi è lo sfondo. Del pari l'Oriente dice che <<La forma non differisce dal vuoto, né il vuoto differisce dalla forma. La forma è identica al vuoto e il vuoto è identico alla forma>>(149).
<<In fin dei conti, la fenomenologia non è né un materialismo, né una filosofia dello spirito. La sua peculiare operazione consiste nel rivelare lo stato pre-teoretico in cui le due idealizzazioni trovano il loro diritto relativo e vengono superate>>(150). La fenomenologia non è idealismo (il mondo è dentro la nostra mente) e non è neppure materialismo (la mente è dentro il mondo). Le due idealizzazioni vengono superate. Merleau-Ponty cerca e trova una terza dimensione che va oltre soggetto costituente e oggetto costituito. Infatti soggetto e oggetto risultano reciprocamente avvolti, coinvolti, legati: non sono più due entità separabili.
<<La filosofia, insomma, è il pensiero in cui si autorivela l'Essere nella sua originaria indivisione e nel suo infinito strutturarsi in forme e figure, scandito dal ritmo dialettico del reciproco portarsi l'uno nell'altro dell'in sé e del per sé, dell'esterno e dell'interno. E' questo il concetto di reversibilità, quale principio costitutivo dell'esperienza "verticale" che la filosofia scopre come "verità ultima": la "vera" filosofia - scrive l'autore in questo senso - è "cogliere ciò che fa sì che l'uscire da sé sia rientrare in sé e viceversa. Ma la filosofia può cogliere l'esperienza nell'intreccio di questi due movimenti opposti e complementari - ed anzi interamente fusi, come il concavo e il convesso - solo perché è nella sua essenza pensiero dialettico, coniugante insieme l'identità e la differenza, l'unità e la molteplicità>>(151). Così scrive Sandro Mancini nell'articolo L'idea della filosofia nella Fenomenologia di Merleau-Ponty incluso nel testo pubblicato in omaggio al grande filosofo francese dal titolo La prosa del mondo. La filosofia è dunque il pensiero in cui l'Essere viene percepito nella sua originale indivisione e nella sua reversibilità. Intreccio fra gli opposti complementari: concavo e convesso, identità e differenza, unità e molteplicità. Questa è la nuova filosofia secondo Merleau-Ponty.
<<Il compito ultimo della fenomenologia come filosofia della coscienza consiste nel comprendere il suo rapporto con la non-fenomenologia. Ciò che in noi resiste alla fenomenologia, - l'essere naturale, il principio barbaro di cui parlava Schelling - non può restare fuori dalla fenomenologia e deve trovarvi il suo posto>>(152). La fenomenologia è la filosofia della coscienza nel senso che è la scienza delle essenze che trova fondamento nell'originaria attività della coscienza. Ebbene, la fenomenologia deve farsi carico del suo rapporto con ciò che non è fenomenologia e in modo particolare con il principio barbaro: erste Natur che "è l'elemento più antico, un abisso di passato che rimane sempre presente in noi e in tutte le cose"(153). Ricordiamo infine anche che, per Schelling, la filosofia è "una riflessione su ciò che non è riflessione"(154).
<<Ecco perché, unica fra tutte le filosofie, la fenomenologia parla di un campo trascendentale. Questo termine significa che la riflessione non ha mai sotto il suo sguardo il mondo intero e la pluralità delle monadi dispiegate e oggettivate, che essa non dispone mai se non di una veduta parziale e di un potere limitato. Ecco perché, inoltre, la fenomenologia è una fenomenologia, cioè studia l'apparizione dell'essere alla coscienza, anziché presupporne la possibilità>>(155). In questo passo Merleau-Ponty ci spiega chiaramente cos'è la sua fenomenologia che io chiamerei prospettivistica: non si può mai avere la visione totale sul mondo, quella tipica del vecchio e classico kosmotherós ma ci deve invece sempre stupire di una visione parziale perché prospettica. Infine la fenomenologia è tale perché si interessa, senza mai metterla in dubbio, della percezione dell'essere da parte della nostra coscienza. E' l'essere che si presenta. Ma ciò che percepiamo non è tutto l'essere in quanto l'essere non si presenta mai nella sua essenza, nella sua pienezza. In conclusione, cogliendo l'apparire, cogliamo l'essere.
<<Una filosofia diviene trascendentale, cioè radicale, non già insediandosi nella coscienza assoluta senza menzionare i gradi attraverso cui è passata per giungervi, ma considerando se stessa come un problema, non già postulando l'esplicazione totale del sapere, ma riconoscendo questa presunzione della ragione come il problema filosofico fondamentale>>(156).
Sandro Mancini, sempre nel libro-omaggio a Merleau-Ponty, cerca di approfondire lo studio del suo percorso filosofico scrivendo: <<Venire a capo della disputa che oppone, nella letteratura critica, i fautori della coerenza e della continuità di fondo dell'itinerario speculativo merleau-pontiano a quanti invece sostengono l'esistenza di una rottura al suo interno tra l'ultima fase ontologica e le precedenti di ispirazione fenomenologica ed esistenziale. Proprio il permanere di una medesima idea della filosofia nelle diverse fasi della ricerca merleau-pontiana - dall'interpretazione fenomenologica della percezione giocata nella duplice critica dell'oggettivismo e dell'analisi riflessiva, all'assunzione del linguaggio nell'intreccio di fenomenologia, dialettica e strutturalismo fino al conclusivo approdo ontologico - mostra infatti che i primi hanno ragione ed i secondi hanno torto>>(157). Dunque il pensiero del nostro filosofo è stato conseguente e continuo, basato sempre sulla fenomenologia della percezione che si è intrecciata con il linguaggio, la dialettica, lo strutturalismo fino a giungere al conclusivo approdo ontologico. E chi sa quali altri orizzonti avrebbe potuto raggiungere se non fosse morto così prematuramente. Basti considerare, ad esempio, la seguente stupenda riflessione: <<Dobbiamo non solo praticare la filosofia, ma anche renderci conto della trasformazione che essa reca con sé nello spettacolo del mondo e nella nostra esistenza>>(158). La filosofia non solo va praticata ma, con una specie di superriflessione, bisogna anche saper valutare la sua portata, le sue conseguenze su di noi e sullo spettacolo del mondo di cui noi siamo parte. Un passo veramente bello e profondo che solo un grande filosofo poteva trasmetterci.
Altro passaggio altrettanto interessante è quello ove Merleau-Ponty si occupa di razionalismo e di scetticismo: il primo afferma che "tutto ha senso" mentre il secondo si attesta sul concetto contrario dicendo che "nulla ha senso". <<L'evidenza assoluta e l'assurdo sono equivalenti, non solo come affermazioni filosofiche, ma anche come esperienze. Il razionalismo e lo scetticismo si nutrono di una vita effettiva della coscienza che entrambi sottintendono ipocritamente, senza la quale essi non possono essere né pensati, né vissuti, e nella quale non si può dire che tutto abbia un senso o che tutto sia non senso, ma solamente che c'è del senso. Come dice Pascal, le dottrine, per poco che le svisceriamo, brulicano di contraddizioni: eppure avevano un'aria di chiarezza, hanno un senso a prima vista. Una verità su sfondo d'assurdità, una assurdità che la teleologia della coscienza presume di poter convertire in verità, questo è il fenomeno originario […] Nella coscienza l'apparire non è essere, ma fenomeno>>(159). Merleau-Ponty si limita a dire che "c'è del senso".
A proposito della nuova fisica del ventesimo secolo non si può dimenticare che la relatività generale e la meccanica quantistica "sembrano contraddirsi l'un l'altra"(160). Infatti le due teorie non possono essere entrambe giuste nella loro attuale forma. La relatività generale si occupa dei corpi che, per noi, sono molto grandi quali pianeti, stelle, galassie, buchi neri e, di conseguenza, dello spazio-tempo che si incurva sotto l'effetto delle masse: siamo nel mondo dei campi gravitazionali. La meccanica quantistica si occupa invece della fisica atomica e quindi delle particelle elementari: stiamo parlando di ciò che, per noi, è estremamente piccolo, stiamo occupandoci di campi quantizzati. Ebbene i due tipi di campi, quelli gravitazionali e quelli quantizzati non vanno d'accordo fra di loro nel senso che danno due immagini del mondo in contraddizione. Infatti nel campo gravitazionale lo spazio-tempo è curvo e continuo mentre per il campo quantizzato lo spazio-tempo è piatto e fatto di quanti discreti di energia. "Due verità su uno sfondo di assurdità" potremmo "far dire" al nostro filosofo. Ma, alla fine di tutto questo discorso, chi ha ragione? Per capire, rifacciamoci a quell'aneddoto citato da Rovelli dove scrive: << Il paradosso è che le teorie funzionano entrambe terribilmente bene. La Natura si sta comportando con noi come quell'anziano rabbino da cui erano andati due uomini per dirimere una contesa. Ascoltando il primo, il rabbino dice: "Hai ragione". Il secondo insiste per essere ascoltato. Il rabbino lo ascolta e gli dice: "Hai ragione anche tu". Allora la moglie del rabbino, che orecchiava da un'altra stanza, urla: "Ma non possono avere ragione entrambi!". Il rabbino ci pensa, annuisce, e conclude: "Hai ragione anche tu". A ogni esperimento e a ogni test, la Natura continua a dire "hai ragione" alla relatività generale, e continua a dire "hai ragione" alla meccanica quantistica, nonostante le assunzioni opposte su cui le due teorie sembrano fondate. E' chiaro che c'è qualcosa che ancora ci sfugge>>(161). O, forse, c'è ancora molto che ci sfugge visto che: <<Il mondo, forse, non va pensato come un insieme amorfo di atomi ma come un gioco di specchi basato sulle correlazioni fra le strutture formate dalle combinazioni di questi atomi>>(162). Vi ricordate il mito di Indra ove ogni goccia di rugiada si specchia in ogni altra goccia di rugiada? Nessun fenomeno è solo se stesso ma è il riflesso di ogni altro fenomeno.
<<La filosofia non tiene il mondo steso ai suoi piedi, non è un "punto di vista superiore" dal quale abbracciamo tutte le prospettive locali; essa cerca il contatto con l'essere grezzo, e si istruisce anche presso coloro che non se ne sono mai allontanati>>(163) scrive Merleau-Ponty.
In conclusione sia il profondo pensiero del nostro filosofo di riferimento che la fisica del ventesimo secolo ci propongono verità prospettiche (e quindi locali, non assolute) su uno sfondo di assurdità.
LA PRECEZIONE, IL VISIBILE E L'INVISIBILE.
<<Io che contemplo l'azzurro del cielo, non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto acosmico, non lo possiedo nel pensiero, non dispiego innanzi ad esso un'idea dell'azzurro che me ne scioglierebbe il segreto, ma mi abbandono ad esso, mi immergo in questo mistero, esso "si pensa in me", io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esistere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato>>(164).<<Dovrei dire che si percepisce in me e non che io percepisco>>(165). La nostra percezione è polimorfa, è ambiguità percettiva.
<<Con ogni probabilità, a percepire non è del tutto il mio corpo: io so soltanto che esso può impedirmi di percepire, che non posso percepire senza il suo permesso>>(166).
La percezione è già portatrice di forma e di senso. E' originaria, anteriore a qualsiasi distinzione, anche tra soggetto e oggetto. Merleau-Ponty parte dalla percezione e non dalla materia. La percezione e il linguaggio sono dimensionalità dell'essere. Essa ha una dimensione attiva in quanto apertura primordiale, innata, strutturale del mondo della vita. Noi percepiamo per scarto: una cosa rispetto alle altre. Esiste una circolarità fra percezione e riflessione.
Il visibile non è pienezza del mondo ma è fatto anche di vuoti, di sfondi e di differenze. La visione dell'uomo non è mai visione totale, comporta sempre zone d'ombra, una invisibilità costitutiva del visibile stesso. L'essere si dà nella presenza e nella latenza, visibile e invisibile. L'essere è intreccio fra visibile e invisibile.
<<Colui che vede e colui che tocca non è esattamente me stesso perché il mondo visibile e il mondo tangibile non sono il mondo intero. Quando vedo un oggetto, sento sempre che c'è ancora dell'essere al di là di ciò che vedo attualmente, non solo dell'essere visibile, ma anche dell'essere tangibile o udibile - e non solo dell'essere sensibile, ma anche una profondità dell'oggetto che nessun prelevamento sensoriale potrà esaurire>>(167).
<<Non c'è coincidenza del vedente e del visibile. Ma ciascuno attinge all'altro, prende e sopravanza sull'altro, si incrocia con l'altro, è in chiasma con l'altro>>(168). <<Il chiasma non è solamente scambio me l'altro […] è anche scambio fra me e il mondo […] fra il percepiente e il percepito: ciò che comincia come cosa finisce come coscienza di cosa, ciò che comincia come "stato di coscienza" finisce come cosa>>(169). Gli orientali direbbero: "quando cerco la mente trovo le cose, quando cerco le cose trovo la mente". Merleau-Ponty invece parla di percezione.
Il rapporto del filosofo con l'essere non è il rapporto frontale che ha lo spettatore con lo spettacolo ma è una sorta di complicità, una relazione obliqua e clandestina. La filosofia è un fare aperto, finito, temporale, caduco, ma proprio per questo è una costruzione di senso. Merleau-Ponty si pone l'obiettivo di pensare una filosofia senza dualismi: una terza via fra empirismo realistico e idealismo intellettualistico. La trascendenza come pensiero di scarto e non come possesso dell'oggetto. Il pensiero è il grembo dei possibili. Esiste una perpetua dialettica fra senso e non senso. E' possibile operare un ripensamento dell'ontologia ingenua che prelude ad un nuovo tipo di accesso all'essere non più frontale ma trasversale e obliquo. La filosofia è anche l'interrogativo sparso nello spettacolo del mondo.
Un filosofo, uno scienziato è prima di tutto un corpo incarnato nel mondo: il legame primordiale che unisce uomo e natura. Il soggetto è sempre incarnato, immerso nel contesto che abita. E nel linguaggio, nella cultura che abita.
NOTE
1) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 113.
2) Ivi, p. 429.
3) Eihei Doghen, Divenire l'Essere, trad. it. di Jiso Giuseppe Forzani e Luciano Mazzocchi, Grafiche Dehoniane, Bologna 1997, p. 19.
4) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 470.
5) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 66.
6) Ivi, p. 217.
7) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 146.
8)M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 431.
9) Ivi, p. 132.
10) Ivi, p. 433.
11) Ibidem.
12) Ivi, pp. 429-430.
13) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., pp. 275-276
14) Ivi, p. 277.
15) Ivi, p. 170.
16) Ivi, p. 301, postilla di Claude Lefort.
17) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 135.
18) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 66.
19) Ivi, p. 131.
20) Edward Harrison, Le maschere dell'Universo, trad. it. di Giorgio P. Panini, RCS Libri, Milano 1989, p. 360.
21) W. Heisenberg, Fisica e Filosofia, cit., pp. 111-112.
22) J. H. Poincaré, La scienza e l'ipotesi, cit., p. 325.
23) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 461.
24) M. Cini, Trentatre variazioni su un tema, cit., p. XVI dell'introduzione.
25) Giangiorgio Pasqualotto, Il tao della Filosofia, Nuova Pratica Editrice, Milano 1997, p. 114.
26) Frammenti Postumi (1884-1885), frammento 35.35.
27) Giangiorgio Pasqualotto, Filosofia e Globalizzazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, p. 55.
28) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 275.
29) Ivi, p. 38.
30) Ivi, p. 36.
31) Bhagavad Gita, cit., p. 150.
32) Platone, Le leggi, libro I, 644 e, tad. It. di Franco Ferrari e Silvia Poli, RCS Libri, Milano 2007, p. 145.
33) Raphael, Alle fonti della vita, Asram Vidya, Roma 1995, p. 126.
34) Stiamo parlando di Ernst Mach (1838-1916) grande fisico, matematico e filosofo della scienza.
35) D. Oldroyd, Storia della filosofia della scienza, cit., p. 232.
36) Ivi, p. 233.
37) Ivi, p. 231.
38) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 69.
39) M. Teodorani, Bohm, cit., p. 75.
40) Charles Luk, Ch'an e Zen, trad. it. di Roberta Rambelli, Edizioni Mediterranee, Roma 1977, p. 250.
41) Raphael, Alle fonti della vita, cit., p. 124.
42) http://www.isabelladisoragna.eu/site/articolo.php?news=86&lang=italiano&menu=12
43) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., pp. 76-77.
44) AA.VV., La prosa del mondo, cit., pp. 20-21.
45) W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 99.
46) Alan Watts, La via dello zen, trad. it. di Lucio Marco Antonicelli , Feltrinelli, Milano 1991, p. 187.
47) G. Pasqualotto, Filosofia e Globalizzazione, cit., p. 57.
48) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 202.
49) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 204.
50) Franz Rosenzweig, La stella della Redenzione, trad. it. di Gianfranco Bonola, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.13.
51) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 493.
52) Ivi, p. 237.
53) Ibidem.
54) Ivi, p. 292.
55) Jiddu Krishnamurti - David Bhom, Dove il tempo finisce, trad. it. di Cesarina Minoli, Ubaldini Editore, Roma 1986, p. 9.
56) A. Watts, La via dello zen, cit., p. 183.
57) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 258.
58) "Fenomeno", "manifestazione".
59) M. Merleau-Ponty, La Natura, cit., p. 30.
60) C. Rovelli, Che cos'è la scienza, cit., p. 179.
61) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 520.
62) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 207.
63) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 81.
64) G. Pasqualotto, Il Tao della Filosofia, cit., p. 27.
65) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 77.
66) Ivi, pp. 78-79.
67) William Shakespeare, Amleto, atto terzo, scena prima; http://www.pensieriparole.it/racconti/classico/racconto-23159-1
68) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 90.
69) Ivi, p. 89.
70) Ivi, p. 98.
71) Citazione zen.
72) J. Krishnamurti - D. Bohm, Dove il tempo finisce, cit., p. 84.
73) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 109.
74) Ivi, pp. 110-111.
75) F. Capra, Il Tao della fisica, cit., pp. 257-258.
76) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 135.
77) M. Teodorani, Bohm, cit., pp. 24-25.
78) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 187.
79) Ivi, presentazione di Mauro Carbone, p. 13.
80) Ivi, postilla di Claude Lefort, p. 298.
81) Ivi, presentazione di Mauro Carbone, p. 13.
82) Ivi, p. 89.
83) AA.VV., La prosa del mondo, cit., pp. 5-6.
84) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 30.
85) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 63.
86) Ivi, p. 111.
87) R. Nozick, La vita pensata, cit., p. 58.
88) Dalai Lama, Nuove immagini dell'universo, cit., p. 111.
89) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 135.
90) M. Merleau-Ponty, Senso, cit., p. 22.
91) Ibidem
92) Ibidem
93) Ibidem
94) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 194.
95) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 4.
96) Ivi, p. 269
97) Ivi, p. 270.
98) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 264.
99) M. Cini, Un paradiso perduto, cit., p. 137.
100) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 179.
101) C. Rovelli, Che cos'è la scienza, cit., p. 179.
102)M. Merleau-Ponty, Il Visibile e l'invisibile, cit., p. 31.
103) W. Heisenberg, Fisica e Filosofia, cit., p. 129.
104) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 180.
105) M. Merleau-Ponty, Il Visibile e l'invisibile, cit., p. 88.
106) La negintuizione è la negazione della negazione: così come c'è l'intuizione dell'essere vi è anche la negintuizione del nulla. Il termine in questione è stato coniato da Sartre e ripreso da Merleau-Ponty che, a pagina 89 del libro Visibile e Invisibile, scrive: ".. c'è una percezione dell'essere e una impercezione del nulla che sono reciprocamente coestensive, che fanno tutt'uno".
107) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit. p. 86.
108) Ivi, p. 37.
109) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 181.
110) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 122.
111) Ivi, p. 37.
112) F. Capra, Il tao della fisica, cit., p. 343.
113) http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaA/anassagora1.htm
114) C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, cit., p. 118.
115) G. Pasqualotto, Il Tao della Filosofia, cit., p. 26.
116) Ivi, p. 27.
117) M. Teodorani, David Bohm, cit., p. 50.
118) http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1517
119) J. D. Barrow, Teorie del tutto, cit., p. 43.
120) Ivi, p. 111.
121) Ivi, p. 233.
122) M. Merleau-Ponty, La natura, cit., p. 126.
123) Ibidem.
124) J. D. Barrow, Teorie del tutto, cit., p. 377.
125) Chiudiamo il paragrafo con uno stupendo koan zen: "Se tutto è riducibile a Uno, a che cosa è riducibile l'Uno?". Ognuno, ovviamente, dovrebbe trovare la sua personale risposta. La mia risposta, così per gioco, è questa: "Bisogna andare anche oltre l'Uno che, in fondo, è un semplice e comodo concetto umano". Sto sorridendo di me stesso e della mia presunzione di poter essere "la misura di tutte le cose".
126) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit. p. 40.
127) Carlo Rovelli scrive invece a pagina 172 del suo libro già citato Che cos'è la scienza: "il linguaggio non si limita a rispecchiare la realtà, ma più spesso crea la realtà".
128) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 204.
129) Ivi, p. 117.
130) M. Merleau-Ponty , Segni, cit., p. 67.
131) M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 268.
132) Di recente mi è capitato di assistere a una intervista televisiva del grande neurologo italiano Giacomo Rizzolati. Si stava parlando dei famosi "neuroni specchio" che ci fanno capire e ripetere le azioni altrui per empatia e non tramite ragionamento. Il nostro scienziato è fra gli scopritori di questi particolari recettori. Riassumeva tutta la complicata questione con una semplice frase: "Vedo un gesto altrui e lo compio anch'io senza far intervenire nessuna forma di inferenza, si tratta solo di pura capacità di imitazione empatica e non razionale". Rizzolati proseguiva poi il suo intervento citando Merleau-Ponty e il caso del linguaggio: il linguaggio si forma sopra i gesti, è soprattutto gestualità che attiva i neuroni specchio di chi ascolta le parole e, soprattutto, vede i gesti. Concludeva poi asserendo che "la coscienza è materia che pensa a se stessa" e che "si ama per innatismo mentre si odia per cultura". Cioè a dire che l'uomo sarebbe portato dai suoi neuroni specchio ad amare il prossimo ma la cultura dell'ego, dell'io lo chiuderebbe agli altri. <<Ci sono persone ignoranti riguardo a questo principio, che si crogiolano nel loro specifico dogma, dichiarando che non esiste null'altro. L'idea di "paradiso" è il loro solo godimento. Il motivo principale per cui svolgono la loro attività è quello di raggiungere il piacere e il potere che promette il "paradiso". Così, anche se il loro movente generale è positivo, in verità sono piuttosto pieni di desideri egoistici>> così scrive La Bhagavad Gita opera già citata. Pensare di vivere eternamente in paradiso mentre altri uomini sono eternamente condannati alle pene dell'inferno è di una cattiveria tragica.
133) AA.VV., La prosa del mondo, cit., p. 94.
134) ibidem
135) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 117.
136) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 69.
137) C. Luk, Ch'an e Zen, cit., p. 153.
138) Ivi, p. 181.
139) M. Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, cit., p. 31
140) Eugen Herrigel, La via dello Zen, trad. it. di Stefania Bonarelli , Edizioni Mediterranee, Roma 1990, p. 45.
141) W. Heisenberg, Fisica e Filosofia, cit., p. 159.
142) Andrea Bonomi, Introduzione in M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 9.
143) Enzo Paci, Introduzione in M. Merleau-Ponty, Senso non senso, cit., p. 16.
144) Ivi, p. 12.
145) Ibidem,
146) Ivi, pp. 12-13.
147) Andrea Bonomi, Introduzione in M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 7,
148) Ivi, p. 9.
149) Luk, Ch'an e zen, cit., p. 270.
150) M. Merleau-Ponty,, Segni, cit., p.271.
151) Sandro Mancini, L'idea della filosofia nella Fenomenologia di Merleau-Ponty , in Anne-Marie Boetti (a cura di), La prosa del mondo, cit., pp. 17-18.
152) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 232.
153) M. Merleau-Ponty, La Natura, op, cit., p. 54.
154) Ivi, p. 65.
155) M. Merleau-Ponty , Fenomenologia della percezione, cit., p. 106.
156) Ivi, p. 108.
157) Sandro Mancini, L'idea della filosofia nella Fenomenologia di Merleau-Ponty , in Anne-Marie Boetti (a cura di), La prosa del mondo, cit., p. 13.
158) M. Merleau-Ponty , Fenomenologia della percezione, cit., p. 107.
159) Ivi, p. 386.
160) C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, cit., p. 129.
161) Ivi, p. 130.
162) Ivi, p. 223.
163) M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 46.
164) M. Merleau-Ponty , Fenomenologia della percezione, cit., pp. 291-292.
165) Ivi, p. 292.
166) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 36.
167) M. Merleau-Ponty , Fenomenologia della percezione, cit., pp. 293-294.
168) M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, cit., p. 272.
169) Ivi, p. 229.
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