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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Modi diversi di morire in versi

Conversazione con Carla Muschio
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- ottobre 2007

Carla Muschio, nata nel 1954 vicino a Milano, è traduttrice di letteratura dal russo e dall’inglese. Si è dedicata particolarmente a Lev Tolstoj ed al nonsense. Come scrittrice ha pubblicato opere molto varie, tra cui: il romanzo Il disco di Festo, dove ripercorre il mito del Labirinto; La cantina di Isabella, una storia lunga per bambini, e alcuni saggetti in cui rilegge in chiave moderna alcune attività femminili; Il maglione di Mozart, saggio narrativo.

 

Ottavio Fatica, eccellente traduttore anche delle strofe di Edward Lear, ha definito il nonsense dei limericks un “territorio fuorilegge” della letteratura, “una piccola catastrofe del cosiddetto Razionale”. Lei, signora Muschio, come definirebbe questo genere poetico?

nonsense edward learIl nonsense dei limerick, attualizzato così bene da Ottavio Fatica, è un nonsense particolare, con una struttura poetica molto rigida, che però offre un grande divertimento a poeti e lettori “fuorilegge”. Infatti il limerick è rimasto una forma poetica viva, praticata anche oggi. Io lo definirei: un trampolino per la fantasia. Rassicurati dalla semplicità e solidità della sua forma, ci si può lanciare verso l’assurdo. A me, oltre al limerick, piace il nonsense in generale, come spazio di libertà per la mente che riesce, ignorando la ragione, a dire verità profonde, o anche a non dirne, ma comunque a godere della lingua e del pensiero, libera dalla forza di gravità del senso, come i cosmonauti nello spazio.

 

E quando nasce il limerick?

Il limerick  è una forma poetica di cinque versi che rimano AABBA, di tono giocosamente assurdo. Purtroppo non so trovare un esempio, ma pare che sia presente già in Shakespeare. È molto usato nella poesia per l’infanzia e nella canzone popolare. Nel 1820 uscì la prima raccolta di limerick, The History of Sixteen Wonderful Old Women. Nel 1846 venne pubblicato il primo Book of Nonsense di Edward Lear, ricco di una particolare specie di limerick creata da lui: situazioni assurde ambientate ciascuna in un luogo geografico particolare, che è quello che dà il la alle rime. Il libro divenne un best seller e da allora tutti conoscono questo tipo di componimento. Ma non è chiaro perché questa forma si chiami così. Limerick è una città dell’Irlanda meridionale citata nel ritornello di una famosa canzone popolare, ma questa canzone non è un limerick, quindi non si capisce dove stia la connessione. D’altra parte, l’assurdo è l’assurdo, anche nel nome.

 

Fu Italo Calvino il primo a dire - nella quarta di copertina del libro "Una vespa! Che spavento" - che Toti Scialoja derivava molto dai limerick inglesi, dalle poesie nonsense di Lewis Carroll. Lo stesso Scialoja spiegò così il titolo di un altro suo volume “Versi del senso perso”: “Trovai un modo italiano di dire nonsense, che è appunto il senso perso, il senso che non è mai esistito o pareva che esistesse e poi si è perduto. Perso, anche perché versi del senso perso è tutto un giuoco allitterativo che appartiene al mio stile, al mio modo di fare poesia. Poi c'è una eco un po’ umoristica, diciamo, con il tempo ritrovato di Proust”. Conosce ed apprezza questa produzione poetica di Scialoja?

Sì, conosco e apprezzo infinitamente i versi nonsense di Scialoja. Li considero alta poesia, con una partitura sonora molto sapiente e un gioco sorridente con i significati che fa emergere sensi nuovi da parole comuni.

 

Quali atmosfere le suggerisce la poesia di Giorgio Caproni?

Mi piace molto la poesia di Giorgio Caproni e cito da “Per lei”, in Versi livornesi, due versi che illustrano ciò che di essa mi piace. “Per lei”, cioè per la madre Annina, Caproni dice di voler scrivere

 

“Rime che non sono labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.”

 

Caproni ha un candore che mi è caro, un verso sapiente ma modesto. Le atmosfere che Caproni spesso evoca sono atmosfere della provincia italiana, di luoghi comuni dove si svolge l’avventura umana con  semplicità, senza il glamour dell’ambiente cittadino. Ecco, questa sobrietà mi piace molto.

 

Ci sono altri autori italiani verso i quali nutre un certo interesse? Penso a poeti come Luzi, ad esempio, o Attilio Bertolucci o Cristina Campo

Prima di parlare dei miei gusti poetici vorrei fare una precisazione. Un conto è il valore assoluto di un poeta e un altro è il valore che ha per noi, secondo la particolare scintilla che si accende o meno nell’incontro. Proprio come con le persone che incontriamo nella realtà. La terna che lei cita è sicuramente una terna di grandi poeti, li ho letti, però non sono innamorata, come si dice in inglese, di nessuno di loro. Devo fare anche un’altra precisazione. Pur leggendo e scrivendo tutto il giorno, non ho una visione d’insieme della letteratura perché seguo poco le novità e non studio in modo sistematico, mi manca il tempo. Leggo seguendo stimoli casuali, come un cane al parco, e chissà quindi quanti autori, che pure potrebbero piacermi moltissimo, mi sfuggono. Comunque, dovendo dare dei nomi direi: Raboni e Pasolini, ma frequento poco anche loro.

 

Ebbe occasione di vedere lo spettacolo-concerto televisivo di Carmelo Bene (trasmesso in due parti il 27 e 28/10/1977, Rai 2): “Bene! Quattro modi diversi di morire in versi: Majakovskij-Blok-Esènin-Pasternak”?

No, purtroppo non vidi quello spettacolo di Carmelo Bene, ma certo i quattro poeti che lei cita “morirono in versi”, più o meno letteralmente. Dei loro tempi ha detto con felice espressione il linguista Jakobson: “Una generazione che ha sprecato i suoi poeti”. Ai russi piace sprecare.

 

Trova anche lei che la stagione russa che va da Annenskij a Chodasevič, e si concentra intorno a Blok, Mandel’štam, Achmatova, Pasternak e Cveateva sia irripetibile? E che nella poesia russa, anche alla più estrema complessità non va mai disgiunta l’immediatezza e che l’effetto d’urto è fortissimo?

No, non trovo che la stagione da Annenskij a Chodasevič sia irripetibile, per quanto, concordo con lei, sia una stagione assolutamente straordinaria. Anche della pleiade puškiniana si diceva che fosse irripetibile, eppure sono venuti, come dice lei, Mandel’štam, Pasternak eccetera. E spero bene che la fertilità della letteratura russa continui, tutto fa pensare così. Infatti non riesco a togliermi dal tavolo un’antologia della poesia russa contemporanea, In preda a strani pensieri (In the Grip of Strange Thoughts, a cura di J. Kates, Bloodaxe Boks 1999), che è una bomba di novità e vitalità.

 

Mi disse ancora Fatica, nel corso di un nostro incontro: “Certo, lavorando soprattutto sull’inglese, conosco e apprezzo anche i minori, i minimi di questa lingua; ma torno sempre a figure come Yeats o Eliot, di recente prese così accanitamente di mira in patria. Buona parte della poesia contemporanea è accademica; quella americana in chiave più “modernista”, quella inglese più tradizionale;e poi c’è sempre qualche irlandese col suo estro. I due contemporanei, non più di primo pelo, ma senz’altro di vaglia, le voci più autorevoli diciamo, sono Geoffrey Hill e, nel deserto francese, Jude Stefan”. Condivide queste predilezioni ed opinioni?

Ohimè, di nuovo la devo deludere. Pensi che non conoscevo neppure il nome di Geoffrey Hill e Jude Stefan. Il mio eroe nel campo della poesia anglofona contemporanea è Vikram Seth, seguito da Louise Gluck. Due autori che scrivono con leggerezza e ironia, due grandi virtù. Yeats e Eliot, concordo con Ottavio Fatica, restano ancor oggi due grandi (a me Eliot piace particolarmente) e si torna sempre a loro, perché ci vogliono tanti decenni per assorbire la lezione di un grande poeta.

 

“Il traduttore, una lastra di vetro il cui unico compito è lasciar passare la luce? Un messaggero, un go between che trasmette il messaggio e forse tanto meglio quanto più ignora tutto delle intenzioni dell’emittente e delle intenzioni del ricevente?”: sono alcune immagini proposte dallo psicoanalista J.B. Pontalis nel suo libro “Perdere di vista”. Cosa vuol dire per lei tradurre?

Non mi ritrovo affatto in queste immagini di Pontalis. Io faccio l’opposto. Ho avuto la fortuna di avere per professore all’università un grande anglista, Carlo Izzo, che tra l’altro è stato il primo traduttore in italiano dei limerick  di Lear. Lui ce l’aveva molto con i “traduttori-traditori”, come li definiva lui, che rendono il testo da tradurre, quale che sia, sempre nella stessa lingua espressiva, la propria, ignorando le peculiarità dell’autore. La mia tecnica invece è questa: mi impersono meglio che posso nell’autore, poi rendo il suo testo in italiano come immagino l’avrebbe fatto lui se fosse stato bilingue, come ad esempio era Nabokov, che traduceva in inglese i suoi romanzi scritti in russo e viceversa.

 

Ha mai scritto poesia in proprio?

Senza essere un po’ poeta non si può tradurre poesia, e infatti anch’io, non molto, ma qualcosa scrivo. Scrivo soprattutto poesia d’occasione, per accompagnare un regalo, festeggiare una ricorrenza, quindi, rivolta a qualcuno. Più raramente scrivo poesie per sviluppare un’impressione, un pensiero. Per il resto, ho una produzione mia che ha sempre più spazio nella mia attività, ma è in prosa.

 

Ha mai fatto letture di carattere psicoanalitico?

Ho letto qualche libro di Freud all’università, ho sviluppato grande stima per la psicoanalisi, ma non avrei più letto altro, dato che a me piace leggere soltanto poesie, racconti e romanzi, se non avessi sposato uno psicoanalista. Nello scambio di pensieri con lui mi capita di leggere articoli e saggi, più i libri degli psicoanalisti che conosco personalmente: Antonino Ferro, Dina Vallino, Luis Kancyper ed altri.

 

C’è un tema particolare su cui attualmente sta concentrando la sua attenzione?

Sì, sto facendo varie letture (poesia, prosa, saggi) su un tema vastissimo, l’amore tra uomo e donna, finalizzato a una sorta di saggio molto particolare che ho progettato. Per il resto leggo e scrivo quello che capita. Ad esempio, in questi giorni ho sul comodino un’antologia dei Peanuts del grande Schulz. Anche lui in senso lato è un poeta.

 

    Doriano Fasoli

 

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