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Riflessioni sull'Esoterismo

di Daniele Mansuino   indice articoli

 

La Via del Peccato

Dicembre 2018

 

Fin dalle prime apparizioni di quell’importante sottocentro dell’organizzazione esoterica che domina il mondo che è il Sabbataismo (o Sabbatianesimo), l’aspetto del suo insegnamento che più ha destato scandalo è la dottrina della redenzione attraverso il peccato.

Ad essa ho accennato in 666, dove i lettori possono anche trovare la sua formulazione simbolica: il mito del Messia nella Montagna (che, sul piano materiale, si manifestò nella Santa Apostasia del Messia Sabbathai Zevi, ovvero nella Sua conversione all’Islam).

L’apostasia rappresenta, per un Ebreo credente, il massimo peccato; eppure esiste nella tradizione talmudica anche il mitzvah ha’bah ba’ahverah, la possibilità di compiere un Comandamento violandolo.

Questa non deve essere interpretata come un’autorizzazione a cedere disordinatamente alle passioni inferiori: infatti i Sabbataisti distinguono tra peccare per il peccato e peccare per la redenzione, ed in questo secondo caso l’azione peccaminosa è sempre rituale, ovvero inquadrata nell’adempimento di un preciso progetto che viene detto di Dio (ma che, su un piano più esoterico, può essere senz’altro identificato col progetto dell’organizzazione).

Poiché (secondo i Sabbataisti) tanto il Bene quanto il Male provengono da Dio, la loro dottrina delle scorze insegna che le scintille divine abitano nel peccato, perché nessuna cosa è vuota di loro: in altre parole, sono circondate ed imprigionate dal peccato.

Il mezzo per tirarle fuori consiste nel far passare il peccato dalla potenza all’atto: solo per mezzo della sua realizzazione la scorza si dissolve, e la scintilla viene liberata.

Così l’uomo veramente giusto scende nel regno del peccato come il Messia Sabbathai scese nel Cuore della Montagna, e così anche Abramo scese in Egitto non per godere del peccato, ma per rompere la presa del peccato sulla Gloria di Dio: due affermazioni che, in primo luogo, spiegano e giustificano la presenza dell’Uomo al livello della manifestazione formale, che è il primo e più inevitabile peccato da cui tutti siamo macchiati.

Occorre specificare che le interpretazioni di questa dottrina non sono univoche. Per esempio, secondo alcune linee di discendenza donmeh la liberazione della scintilla non è istantanea, ma viene col pentimento (il che comunque non esime dal fatto che il peccato rituale debba essere commesso).

Questi Sabbataisti moderati si appellano soprattutto ai Diciotto Comandamenti che Sabbathai stesso aveva formulato, la cui impostazione moralista sembra avallare un approccio del tipo Il peccato è un male inevitabile, sì, ma è pur sempre un male: presso alcune delle loro scuole si giunge addirittura a negare che i gesti più estremi della vita di Sabbathai, come le pratiche sessuali irregolari o la conversione all’Islam, debbano essere imitati.

Invece in altre linee (perlopiù da Osmani Baba, Jacob Qerido e Jacob Frank; in queste ultime soprattutto, nelle quali l’operatività magica è più diffusa) la liberazione della scintilla coincide con il peccato stesso: un’interpretazione che favorisce la pratica della magia sessuale.

Anche qui, comunque, la pratica del peccato rituale viene svolta entro limiti ben precisi. Per esempio, non è consentito commettere peccati che comportino violazione delle leggi dello Stato in cui si opera, né che danneggino il benessere fisico, spirituale o emotivo di un’altra persona o di qualunque creatura.

 

L’accento viene posto sul valore del peccato in senso spirituale, invitando il praticante a concentrarsi sugli effetti da esso prodotti a livello interiore; il che peraltro non impedisce il verificarsi talvolta di fenomeni spettacolari, come la manifestazione auditiva e/o visiva della Liberazione della scintilla (secondo modalità molto vicine alle manifestazioni angeliche che si producono presso gli Eletti Cohen del Martinismo).

Stiamo ora per esaminare i due testi fondanti della Via del Peccato. Il primo è un importante trattato qabbalista, attenzionato soprattutto dai Frankisti (la cui presunta avversione nei confronti della qabbalah è pura leggenda): il Trattato dell’Emanazione sinistra di Isaac Ben Jacob ha-Kohen (1013-1103).

In questo libro è importante, più di ogni altra cosa, la legittimazione tradizionale della Via del Peccato che esso fornisce trattando delle Rivelazioni della Torah precedenti a Mosè: dapprima infatti essa sarebbe stata comunicata da Dio ad Adamo, e da questo agli Angeli Caduti, il cui capo era Samael.

Per questo, ancora oggi, una fonte dell’Emanazione Suprema si trova nascosta nei sotterranei del Palazzo di Samael (il Satana della qabbalah, detto anche il Gran Serpente o il Faraone), e scavare alla sua ricerca equivale in ha-Kohen a quello per i Sabbataisti sarebbe diventato la Discesa nel Cuore della Montagna.

Il percorso che devi scavare nel Palazzo di Samael sarà lungo e profondo: sfugge infatti a tutti i maestri (di conoscere) la profondità del Bene e la profondità del Male.

Questo percorso è noto soltanto a pochi individui solitari, “il resto che il Signore chiamerà” (Gioele 3: 5), e non è mia intenzione deviare da esso per saziare un po’ della vostra sete; (pure, qualcosa dirò).

Hai già affrontato le Radici della Emanazione… dalla sommità della Suprema Corona, per il segreto della benedizione della Vita Eterna (riferimento alle Dieci Sephiroth). Ora è il momento che tu sia risvegliato dal segreto della Emanazione che irradia da loro: un’Emanazione che va per gradi, come l’immagine dei corpi per le anime

L’Emanazione cui ha-Kohen fa riferimento sono le Partsufim, o Persone Divine, entità che si possono considerare il risultato dell’intercorso delle Sephiroth con la creazione.

Le Partsufim sono 18, alcune delle quali si sono compiutamente manifestate in personaggi biblici: per esempio quella nota come Il Piccolo Volto si incarnò in Giacobbe, e La Figlia nelle sue mogli Lea e Rachele.

Ma a parte questi casi eccezionali, tutte le Partsufim sono potenzialmente presenti in ogni persona; quindi in ambito sabbataista vengono considerate le scintille umane, ovvero quella particolare varietà di scintille le cui scorze sono costituite dai nostri corpi.

La Redenzione dell’Uomo equivale quindi alla possibilità di liberarle, e la loro liberazione va avviata per analogia: cioè dandosi da fare per liberare dalla materia le altre varietà di scintille non umane, per mezzo del peccato rituale.

Di conseguenza, presso alcune linee del Frankismo, la conoscenza dettagliata del sistema delle Partsufim ha il valore di una sorta di mappa che aiuta il credente a peccare in modo più mirato e consapevole. Presso altre, invece prevale, una versione semplificata che lo prende in considerazione nella sua globalità, conferendogli il valore di una terza forza che adempie alla sintesi tra l’Albero Sephirotico e l’Albero Qlipothico (un ruolo più o meno analogo, in certe linee della qabbalah eretica, viene attribuito a Daath).

In questa sintesi, la Colonna di Sinistra dell’Albero Sephirotico viene detta Colonna di Eva, mentre la Colonna di Destra è detta Colonna di Adamo e la Colonna Centrale Colonna di Dio (infatti, se si sommano i valori gematrici delle sue Sephiroth si ottiene 26, che è il numero del Tetragramma).

È lungo la Colonna di Dio che si concentra l’Emanazione delle Tre Sephiroth superiori nella discesa verso Malkuth, ovvero nel miracolo dell’incarnazione; per questo è detto che il Messia discende lungo la Colonna Centrale come un bambino viene consegnato al ventre di sua madre.

Riguardo poi all’Emanazione delle Sette Sephiroth inferiori, il Trattato dell’Emanazione di Sinistra la associa ai Sette Angeli, ovvero a quelle entità che hanno la possibilità di interagire con i Partsufim nelle oscure arti degli Angeli Caduti (cioè a dire, nell’azione magica; del resto, già da quei tempi - molto prima di Isaac Luria - era questo l’uso principale cui la conoscenza dell’Albero Sephirotico era consacrata).

È inutile dilungarsi coi miei lettori, che di queste cose se ne intendono, sui tratti generali del settenario; diciamo però che appare verosimile la derivazione della dottrina di ha-Kohen dal Sepher Ha-Razim, un lavoro di magia cabalistica risalente al periodo ellenistico che descrive Sette Firmamenti (e l’Angelo preposto a ciascuno).

È descritto come un libro dai libri dei Misteri, che è stato dato a Noè, figlio di Lamech, figlio di Matusalemme, figlio di Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, da Raziel l’Angelo, nell’anno in cui Noè entrò nell’Arca.

Dalla saggezza e dai segreti di questo libro, Noè imparò e comprese come fare un’Arca di legno di cipresso per sottrarsi alla furia dell’alluvione, per portare gli animali con sé a due a due e a sette a sette, a rimediare per loro ogni tipo di cibo e ogni tipo di foraggio. E Noè pose il libro in un Armadio d’Oro e lo portò nell’Arca, e da esso imparò le ore del giorno e della notte in cui pregare il Signore. E quando uscì dall’Arca continuò ad usare il libro per tutti i giorni della sua vita, ed al momento della sua morte lo lasciò ad Abramo, ed Abramo ad Isacco, ed Isacco a Giacobbe, e Giacobbe a Levi, e Levi a Koat, e Koat ad Amram, ed Amram a Mosè, e Mosè a Giosuè, e Giosuè agli Anziani, e gli Anziani ai Profeti, e i Profeti ai Saggi, e così via di generazione in generazione fino al sorgere di Salomone.

Ai Sette Firmamenti di cui tratta il Sepher Ha-Razim corrispondono i sette colori dell’Arcobaleno che è il simbolo della Massoneria Noachita. Ciascuno di essi può poi essere collegato ad una delle Sette Emanazioni di cui parla ha-Kohen nel suo Trattato, e come queste corrisponde all’azione di uno specifico Angelo (gli Angeli del Sepher Ha-Razim sarebbero poi transitati nella dottrina qabbalista dei Sette Palazzi che occorre visitare prima di ascendere alla Presenza Divina, e di lì in quella dei Sette Cieli attraverso i quali l’Arcangelo Gabriele accompagnò Muhammad, su di Lui la benedizione e la pace; arricchendosi, in ciascuno di questi passaggi, di nuove valenze per quanto concerne il lavoro di alchimia interiore).

Dal settenario trasse ispirazione anche Jacob Frank, per i suoi celebri Sette Insegnamenti:

1 - A Smirne, ho fatto un sogno. Mi trovavo alle porte di un Palazzo, capisci, e il Portinaio mi disse: “Pulisciti i piedi prima di entrare”, e per farlo mi indicò uno scialle da preghiera che giaceva al suolo. “Dio non lo voglia!” esclamai: raccolsi lo scialle e lo strinsi al mio cuore, e con esso corsi per molte strade, offrendolo ad ogni Ebreo e ad ogni Gentile che incontravo per la strada.
2 - C’è un commento talmudico che dice: al Sabato non si possono toccare le foglie di palma. Ma se, prima del Sabato, si dice: “Queste foglie di palma non sono impure per me”, allora si può non solo toccarle, ma anche usarle come giaciglio.
3 - Per mezzo della volontà, l’Uomo può rendere accettabili le cose proibite. Questo è il motivo per cui Sabbathai pronunciava questa benedizione sul grasso dei reni di agnello: “Benedetto sei tu, Signore Iddio nostro, che hai reso lecite le cose proibite”.
4 - I Rabbini non vogliono che si sappia che un Comandamento può essere soddisfatto con l’infrangerlo. Ma io, un ignorante, ti rivelo ciò che essi tengono nascosto: per mangiare una mandorla, è necessario romperne il guscio (allusione alla dottrina delle scorze).
5 - Un Ebreo una volta mi ha visto mangiare carne di maiale. “Che stai facendo?” mi chiese scandalizzato. Io gli risposi: “Anche qui sono le Scintille sacre, ed io desidero di farle tornare da dove sono venute”.
6 - Mia madre mi dice che da bambino feci questo sogno: ero in una grande sala piena di ambasciatori di tutte le nazioni, tutti vestiti secondo la foggia dei loro Paesi.  Ognuno gridava all’altro: “Io sono Giacobbe e tu sei Esaù!”.
7 - Allora presi posto su un podio, e cominciai a metterli in ordine: “Tu, a sinistra! Voi, a destra!”, finché non mi riuscì di separare tutte le Sacre Scintille dalle scorze del Male, proprio come il Cristiano (Gesù) aveva fatto prima di me.
Passiamo ora alla seconda base fondante della Via del Peccato, che è racchiusa nell’episodio biblico della Verga di Aronne (Esodo: 7): secondo i Sabbataisti, esso descrive il momento nel quale la Via del Peccato si incarnò nella storia, codificando quella che sarebbe diventata la loro missione esistenziale in un processo dinamico.
Questo processo viene abitualmente definito in vari modi: i due più comunemente usati sono L’Incarnazione Continua (di Dio) e La necessità dell’Io (superfluo dilungarsi qui sull’influenza del pensiero sabbataista sulla filosofia tedesca, e su quella hegeliana in particolare).
La Necessità dell’Io è un tema che era stato sviluppato tanto nel Sufismo (cfr. 666, cap. 6 della terza parte, riguardo al Nome di Dio) quanto nella qabbalah, ma soltanto nel Sabbataismo è stato portato alla sua estrema conclusione: che esiste una contrapposizione Dio/Uomo (quella delineata nello Schema 1-2-1 dell’organizzazione, da me esposto in Signori di Volontà e Potere e più volte citato in vari articoli) la quale non va intesa nel senso di guerra o ribellione dell’Uomo nei confronti di Dio, ma come una necessità legata allo sviluppo del progetto divino (nota: René Guénon avrebbe scritto probabilmente della possibilità universale), la collaborazione al quale è il primo dovere dell’uomo.

Il compito del credente non è quello di diventare Dio, ma di aiutare Dio nella sua lotta verso la riunificazione con Sé stesso, come espresse Jacob Frank in quella che forse è la più famosa delle sue massime:

Gli altri Ebrei mi chiamano eretico. Beh, io sono anche di peggio: sono un iconoclasta. Il mio compito è niente di meno che la rottura di tutti i contenitori religiosi (quindi, non solo dell’Ebraismo), per il gusto di liberare Dio.

Nel settimo capitolo dell’Esodo, il Signore - che assume qui il nome di Eheyeh - svela a Mosè come egli sia destinato a diventare un Dio per Faraone; ed Aronne, tuo fratello, sarà il tuo profeta.

Secondo i Sabbataisti si tratta del conferimento a Mosé di un vero e proprio ruolo messianico, testimoniato dal fatto che in gematria il numero di Eheyeh è 543 e quello di Mosé 345: il Signore fa di lui il suo riflesso nel mondo (segnalo di sfuggita la possibilità di servirsi del nome Eheyeh, inscritto in un pentacolo che riproduca il rapporto 543-345, per tutti i riti magici miranti ad ottenere una trasmissione di energia).

 

Riguardo poi all’affermazione che Aronne sarebbe stato il suo profeta, vuol dire che Mosè era stato investito del potere di trasmettergli lo Spirito Santo; delegandogli, come stiamo per vedere, anche la possibilità di compiere miracoli in suo nome.

Infatti, nei versetti da 8 a 10, il Signore ordina ai due fratelli: Se il Faraone vi dice, “Producetemi qualche meraviglia”, tu Mosè devi dire ad Aronne: “Prendi la tua Verga, gettala dinnanzi al Faraone, e falla diventare un Serpente” (è da notare che le parole Messia e Serpente hanno lo stesso valore, 358).

Allora Mosè ed Aronne andarono dal Faraone e fecero come l’Eterno aveva ordinato: Aronne gettò la sua Verga dinnanzi al Faraone e alla sua corte, ed essa si trasformò in un Serpente. E Faraone a sua volta invitò i saggi e gli stregoni, e con la loro stregoneria i maghi d’Egitto fecero lo stesso: ognuno gettò la sua verga e questa si trasformò in un Serpente. Ma la Verga di Aronne inghiottì quelle dei maghi.

Il fatto che la creazione di un Serpente sia stato il primo miracolo del Messia Mosè si rispecchia nell’appellativo di Serpente Santo, che era uno degli attributi messianici di Sabbathai (mentre Nathan di Gaza era la sua Lampada Santa).

In che modo il Serpente Santo si distingue dagli altri serpenti, che santi non sono?

Per spiegarlo, occorre precisare che prima del Protoevangelo (Genesi 3: 14-16), ovvero prima che Dio maledicesse i serpenti e li condannasse a strisciare, essi avevano forma umana: non si spiega altrimenti come il loro progenitore Nacnash abbia potuto far sesso con Eva (o, per essere più precisi: come abbia potuto desiderare di farlo).

Una prova poco nota di questo fatto è riscontrabile nelle parole utilizzate da Dio in Genesi 3:14. Quando Egli maledice il serpente tra le bestie dei campi (hashadeh chaiotim) e non tra le creature (itzirim), intende con ciò puntualizzare che la sua maledizione non è rivolta alla specie animale: infatti, la parola chaiotim è un termine che può riferirsi anche a persone umane - è usato ad esempio, nello Zohar, per definire Caino che ha ucciso Abele.

Parentesi: sarebbe qui un’interessante deviazione dal nostro tema illustrare ai lettori come, in seguito all’azione dei missionari sabbataisti settecenteschi, prese forma nella Massoneria del Marchio un’interessante famiglia di rituali che rilasciavano il cosiddetto Marchio di Caino: ce n’erano almeno tre o quattro forme di grande suggestione e bellezza, purtroppo destinate ad estinguersi tutte nel corso dell’Ottocento.

Allora Caino disse al Signore: Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questa terra, e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla Terra, e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere.

Ma il Signore gli rispose: Molto bene, allora chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte. Il Signore impose a Caino un Marchio per evitare che chi lo incontrava potesse colpirlo, e Caino lasciò la presenza del Signore e si stabilì nel paese di Nod, ad Oriente dell’Eden (Genesi, 4: 13-16).

Tra i discendenti di Caino che portano il Seme del Serpente c’era anche Misraim, fondatore del Paese d’Egitto. Il suo erede - il Faraone o Gran Serpente - usava indossare sul capo una Corona di Serpenti, e quando stava assiso sul Trono stringeva in mano uno Scettro dalla Testa di Serpente, che secondo gli Ebrei aveva ereditato da Nacnash in persona. Per questo il suo potere venne spezzato dal primo Serpente Santo con l’inghiottire i serpenti-verghe dei maghi a lui asserviti; ed all’incirca cinquemila anni dopo un secondo Serpente Santo, Sabbathai, avrebbe riprodotto la stessa esperienza sul piano cosmico, penetrando simbolicamente nel regno di Samael/Faraone/Gran Serpente per condurre a termine la liberazione delle scintille dalle scorze del Male.

La sua Discesa nella Montagna, e la Santa Apostasia che ne fu la manifestazione esteriore, costituiscono dunque il vero e proprio archetipo del peccato rituale, al quale tutte le sue riproduzioni successive debbono conformarsi - il che ha fortemente condizionato tanto la sua pratica quanto la sua definizione teologica.

Per esempio, il fatto che la conversione di Sabbathai non abbia presentato il carattere di uno sfregio nei confronti della religione ebraica o di quella mussulmana, bensì sia stata da parte sua un atto eseguito allo scopo dichiarato di riparare il Volto di Dio dalla frammentazione che Lo affligge, ha non solo avviato la tradizione sabbataista di studiare ed approfondire tutte le religioni (innescando processi di sincretismo che ormai si sono trasferiti dall’ambiente degli addetti ai lavori anche al mondo profano), ma ha anche determinato la necessità ambientale che il Sabbataista nasconda la vera natura delle sue pratiche; è di lì che è derivata l’importanza progressivamente assunta nella gerarchia dei peccati rituali dal peccato di Dissimulazione, la cui manifestazione più estrema sta nel massa dumah dei Frankisti.

Ancora, deriva dalla Santa Apostasia l’usanza - cui ogni bravo Sabbataista cerca di conformarsi - di praticare simultaneamente almeno due religioni, le prescrizioni dell’una contraddicono fatalmente quelle dell’altra.

Glie ne derivano vantaggi particolarmente adatti ad essere descritti nella terminologia dell’organizzazione (vedi Signori di Volontà e Potere), in quanto l’atto mentale di rapportare due regole religiose diverse incrementa l’oscillazione e giova all’espansione della coscienza collettiva; ma molto più semplicemente, il Sabbataista ritiene di poter raddoppiare in questo modo il numero dei peccati, e dunque poter liberare un numero doppio di scintille.

È anche da notare che, nella prospettiva di ciascuna religione, le azioni suggerite dall’altra assumono la valenza di gesti insensati (in ebraico, ma’asim zarim): la pratica dei quali veniva considerata fruttuosa per l’evoluzione interiore anche prima di Sabbathai, e al cui sostegno i Sabbataisti amano citare la seconda Epistola agli Efesini - Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia (tra gli opposti), per creare in sé stesso dei due un uomo nuovo (…) e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo.

Proprio questa chiamata in causa di Gesù nel ruolo di Riconciliatore ci consente di ricollegare la Via del Peccato a quell’antica pratica sciamanica, anch’essa fondata sull’attuazione di gesti insensati, che si chiama kula o non fare: ne ha parlato parecchio Castaneda, e nel suo piccolo anche il sottoscritto in vari articoli, nonché in Signori di Volontà e Potere.

Del non fare, tradizionalmente, viene considerato uno dei più importanti esempi la Crocifissione di Cristo: della quale, tra l’altro, non soltanto è lecito dire che potrebbe legittimamente essere classificata anche tra i ma’asim zarim, ma pure che fu causata da parole e gesti di Gesù al limite dell’apostasia (anzi, secondo il Talmud babilonese il Sinedrio avrebbe esplicitamente motivato in termini di apostasia la ragione della Sua condanna), e presenta dunque almeno due dei più importanti tratti distintivi di un peccato rituale.

Ha avuto origine probabilmente nel non fare la convinzione, propria di molti Sabbataisti che si rifanno alle linee più estreme, che a loro e a loro soltanto spetti il privilegio di dare il disco verde al decollo delle scintille verso l’Assoluto; quindi, anche in assenza di peccato, si sforzano di visualizzare la liberazione della scintilla ogni qualvolta se ne presenti l’occasione - per esempio quando mangiano si sforzano di visualizzarla in ogni boccone masticato, e così pure nelle carcasse degli animali investiti che si incontrano per strada, eccetera.

Sebbene la figura di Sabbathai Zevi sia sempre il primo modello di riferimento per ogni Sabbataista, per quanti non si sentono all’altezza di ispirarsi direttamente al suo esempio si è sviluppata nel corso dei secoli una sorta di mitologia parallela, traente alimento da una figura già presente in altre tradizioni anche prima del Sabbataismo: mi riferisco al cosiddetto Holy Sinner, il Santo Peccatore.
San Paolo identificava sé stesso nel Santo Peccatore quando scriveva: Poiché le esperienze che ho avuto sono state davvero straordinarie, Dio temeva che potessi montarmi la testa. Per questo ha messo una spina nella mia carne, come un inviato di Satana che mi tormenta e m’impedisce di essere orgoglioso. Per ben tre volte ho pregato il Signore di liberarmi da questa sofferenza, ma egli mi ha detto: No, perché la mia grazia ti basta. La mia potenza si manifesta pienamente in coloro che sono più deboli.
Ecco perché sono contento di vantarmi della mia debolezza, di essere una dimostrazione vivente della potenza di Cristo, anziché fare sfoggio della mia forza e delle mie capacità. Per questo sono contento nelle infermità, negli insulti, nelle privazioni, nelle persecuzioni e nelle difficoltà; perché quando sono debole, allora sono forte; e meno possiedo, più dipendo da lui (2 Corinzi, 7-10).
Nella sua declinazione sabbataista, il Santo Peccatore è raffigurato a livello macrocosmico nel popolo d’Israele, le cui ripetute infedeltà sono descritte nell’Antico Testamento. A causa di queste, Dio ha sentenziato che esso sia per sempre disprezzato e reietto dagli uomini (Isaia, 53: 3); ma nel suo seno si celano i Giusti, come nell’anima del Santo Peccatore le Partsufim.
È proprio questa analogia che consente di collegare il Santo Peccatore alla Necessità dell’Io: infatti la funzione dei Giusti è che, per grazia delle loro opere, Israele (l’Io) sopravviva (pur condannato ad essere, ancora per un tempo indeterminato, l’agente della propria sofferenza) fino a che essi possano conoscere che il Signore discrimina tra loro e Israele, come ad Abramo fu promesso.
Tra i successori di Sabbathai Zevi, fu Jacob Frank ad incarnare il Santo Peccatore nella sua forma più compiuta ed estrema. Gershom Scholem parla di lui come di uno dei fenomeni più spaventosi di tutta la storia ebraica: un leader religioso che, vuoi per motivi puramente egoistici o altro, fu sempre - in ogni sua azione - un individuo estremamente corrotto e degenerato.

Diceva Frank di sé stesso: un aspetto della Divinità, un vero aspetto, è cresciuto in me come una perla che cresce da sola; e non c’è nessuno a cui io possa rivelare la verità.

Non c'è più bisogno di Comandamenti e di preghiere, ma soltanto di ascoltare, fare ed andare avanti, fino a quando non si arriva ad un certo luogo nascosto.

Nei Vedanta, questo luogo nascosto è Samadhi, la fusione completa della mente nella conoscenza di Dio; nello Zen è Satori, prima del quale si taglia l’acqua e si porta la legna, dopo il quale si taglia la legna e si porta l’acqua.

È da notare ancora come la forma di Redenzione offerta dalla Via del Peccato non implichi affatto l’annullamento dell’Uomo in Dio; anzi, a proposito del Samadhi, Sri Ramakrishna specifica espressamente che dopo averlo raggiunto per mezzo della devozione, rimane la consapevolezza dell’Io; perché Dio vuole mantenere un po’ di Io nel suo devoto anche dopo avergli dato la conoscenza di Brahma.
Nella qabbalah, la dualità facente capo ai due poli rappresentati dal Santo… normale e dal Santo Peccatore viene espressa nella lettera shin. Questa lettera al diritto rappresenta il potere divino, al contrario l’opposto: l’estrema corruzione, o in alternativa anche il potere umano che si contrappone a quello di Dio.

Quando il dages (punto consonantico) della shin è posato sul suo ramo di destra, i due rami laterali rappresentano i Due Alberi, Sephirotico e Qlipothico, ed il ramo di mezzo il sistema delle Partsufim (o - per le linee sabbataiste che non ne fanno uso - l’Adam Qadmon); se invece è posato a sinistra la lettera viene pronunciata sin, come la parola inglese che significa peccato.

Secondo il maestro donmeh Rab Yakob Leiv (1934- ), il Santo Peccatore sta al giusto come sin sta a shindi questa biforcazione nella natura di Dio - e di conseguenza, in coloro nei quali Egli impianta sé stesso - Jung scrive: di fronte a queste complicazioni, non si può dubitare dell’Unità di Dio. (Chi Lo ama) ravvisa in esse chiaramente che Dio è in disaccordo con sé stesso: è il caso di Giobbe, che è certo di poter trovare in Dio un alleato contro la Volontà di Dio.

Come (Giobbe) è certo del Male in Dio, è altrettanto certo del Bene…(bisogna infatti tener presente che) il Signore non è un essere umano, ed egli è per noi allo stesso tempo un persecutore e un aiutante

(Sarebbe un errore cogliere in questo una contraddizione, bensì occorre comprendere il senso dell’) antinomia: la totalità dei suoi aspetti interiori, condizione indispensabile per la sua dinamicità.

La bipolarità messa in luce dal Santo Peccatore costituirebbe dunque un mezzo per poter cogliere la dimensione dinamica di Dio: l’Incarnazione Continua, la cui manifestazione ai nostri sensi è lo spaziotempo - un concetto che collima con le cosmogonie retrostanti alle principali religioni, e che nella terminologia dell’organizzazione viene reso col già citato concetto di oscillazione.

Nelle parole di Jacob Frank: Sabbathai si rivolse a me, e mi chiese: Sei tu il saggio Giacobbe di cui ho udito parlare? Siamo sullo stesso cammino, ma non tutti hanno la forza di percorrerlo sino in fondo. Sii forte, e il tuo nome ti aiuterà. Molti Padri si sono assunti questo onere, e hanno fallito.

E mi mostrò dalla finestra una profondità come il Mar Nero coperta da una terribile oscurità, e al suo fianco c’era un’alta Montagna che pareva raggiungere il cielo.

Ed allora Sabbathai mi gridò: qualunque cosa debba avvenire io sto andando là, che Iddio mi aiuti.

 

Qui Sabbathai trasferisce il concetto di oscillazione alla dualità da sempre esistente nell’uomo individuale e frammentato: che per quanto si sforzi di essere attore della propria vita, rimane sempre in primo luogo un osservatore passivo del dispiegarsi dello spaziotempo, al quale la sua partecipazione attiva è minima e insignificante.

Le religioni sviluppano in genere questo tema nella direzione di un invito all’umiltà e alla sottomissione; invece il movimento sabbataista - pur non disconoscendo il valore di tali virtù - lo sviluppa nel senso di una massimalizzazione delle energie dell’individuo, che è chiamato a utilizzarle magicamente affinché la propria influenza sul corso degli eventi sia più forte e incisiva.

Ci sono infatti metodi per trasmutare l’automatismo del rapporto mente/pensiero in un rapporto del tipo mente che osserva il pensiero. Parecchi esoteristi riescono a realizzare in sé stessi, almeno in parte, questo cambiamento; ma è solo un primo passo, il successivo è la creazione di un rapporto del tipo “Chi sono io?”, nel quale (secondo le parole di un gigante dell’Induismo advaita: Sri Ramana Maharshi, 1879-1950) lo Specchio che brilla resta compreso (lett.: imprigionato) nello Specchio che non brilla, così che quanto prima era la Mente, e poi è diventato altro da lei, possa vedersi e riconoscersi nel suo riflesso.

Questo procedimento è in grado di ribaltare la sproporzione tra la piccolezza della nostra individualità e l’immensità del cosmo in un vantaggio. È infatti proprio la nostra piccolezza a rendere possibile l’azione magica che ai Titani fu negata: in quanto più siamo piccoli, più l’immagine che si riflette in noi è grande.

All’Uomo, e soltanto all’Uomo, è dato dalla natura di aumentare l’oscillazione tra il Sé e l’Io, tra il Pensiero e la Mente che osserva il Pensiero, creando nella Mente stessa quel processo di espansione assoluta che riproduce l’azione creativa di Dio (qualunque cosa debba avvenire io sto andando là, che Iddio mi aiuti).

Il lettore non ha idea di quanti mi abbiano criticato per avere affermato, in Signori di Volontà e Potere, che la tecnica del non fare sta alla base dei rituali minori messi in opera dall’organizzazione: sembra davvero che alla mente umana riesca difficile digerire il concetto per cui le correnti sottili messe in azione tramite un gesto magico apparentemente irrazionale possano esercitare effetti enormi sullo svolgimento della storia.

Eppure, le stesse persone concedono senza problemi il loro assenso al famoso assioma (a sfondo ecologico, ma non solo) della farfalla che battendo le ali in Brasile scatena un uragano a New York, e sono anche probabilmente buoni estimatori dell’arte surrealista; senza rendersi conto che in entrambi questi esempi possiamo riscontrare la stessa identica concatenazione subliminale di cause ed effetti che troviamo alla base dell’operatività magica sabbataista.

Sarebbe forse qui il caso di citare Edinger, laddove osserva che l’esperienza di essere il soggetto conoscente (…) è solo un mezzo del processo di conoscenza: l’altra metà è l’esperienza di essere l’oggetto conosciuto. L’Io conoscente conquista l’altro da sé relegandolo allo status di oggetto conosciuto, ma questa non ha niente a che vedere con la coscienza (consapevolezza) in senso pieno (…). Per conquistare l’autentica coscienza, l’Io deve passare attraverso l’esperienza di essere l’oggetto della (propria) conoscenza: ovvero sperimentare la funzione del soggetto conoscente che prende dimora nell’altro da sé.

E Yakob Leiv commenta: Così, l’atto del conoscere inizia da ciò che è riassunto nella formula indù Om Tat Sat (È questo). Il pensatore deve separarsi dal pensiero al fine di intuire l’origine comune di entrambi: l’Inconoscibile Conoscitore, che Karl Gustav Jung descrive come “Colui che abita in noi, la cui forma non ha confini conoscibili - egli infatti comprende noi da tutte le parti, insondabile come gli abissi della Terra e vasto come il Cielo”.

Un trucco tipico delle tecniche di meditazione sabbataista (che sono, lasciatemelo dire, le più sbalorditivamente potenti che esistano al mondo) è sforzarsi di andare nella direzione opposta a ciò che tali presupposti suggerirebbero: ovvero non sforzarsi di percepire l’Unità di tutte le cose, ma concentrarsi sulla loro separazione.

Se nella meditazione, per esempio, sto osservando il mio pensiero, allora ci deve essere una separazione tra me e lui, tra soggetto e oggetto, tra pensatore e pensiero. Se riesco a percepirla con nettezza, ciò vuol dire che sono riuscito a districare questi due elementi l’uno dall’altro: impresa molto più difficile dell’assecondare la tendenza della nostra mente ad adagiarsi su un comodo Ah, sì, tutto è Uno e a dispensarsi dal pensare oltre.

Invece, come affermano le Scritture dell’organizzazione: se il fine del meditatore è quello di attrezzare la propria mente per agire a livello magico sulla realtà, ad ogni bivio offertogli dalla ragione sarà suo interesse scegliere il cammino che crea più attrito.

A Jacob Frank la chiusura:

Quando sarai pronto per venire a Esaù (cioè alla Via di Edom, il cammino iniziatico che Frank aveva predisposto per l’azione sabbataista sul mondo dei Gentili - vedi 666), allora vedrai la maledizione sollevarsi dalla Terra, e l’Oro risplenderà; e (per te) non ci sarà mai più né caldo né freddo, ma solo un clima mite e temperato.

Ed ogni giorno, per centodieci anni, le Rose fioriranno; ed il Sole splenderà indescrivibile, e sarà sempre giorno e mai notte; perché la notte è la punizione del mondo.

 

  Daniele Mansuino

 

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