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La Sfinge e Dintorni di Ignazio Licata

La Sfinge e Dintorni

di Ignazio Licata   indice articoli

 

Piccole Variazioni su Licata

Lucia Burello, scrittrice e giornalista, intervista Ignazio Licata

Ottobre 2017

 

Lucia Burello, scrittrice e giornalista, intervista Ignazio Licata, il fisico siciliano noto per i recenti lavori sulla Dark Matter, autore di “Piccole Variazioni sulla Scienza” (Dedalo, 2016), che ridefinisce i rapporti tra scienza e cultura oltre la divulgazione mondodimensionale.
Ignazio Licata - Trieste 2017Trieste, Caffè degli Specchi,
28 Settembre 2017

 

 

Lucia Burello: Dal suo libro emerge grande conoscenza dell’arte. Partendo dal presupposto che poesia, dal greco poiesis, significa creare e fare, cosa individua lei di poetico nella scienza e cosa di scientifico nella grammatica delle arti?

Ignazio Licata: Il termine greco è quanto mai opportuno, l’etimologia ci ricorda che creare è un fare, e che ogni creazione passa attraverso un “saper fare”. Né la scienza né l’arte o la letteratura possono farsi manipolando regole, ma stando dentro una tradizione e conoscendo strumenti e significati.  Se c’è questa appartenenza, allora è possibile il gesto nuovo, esatto, bello. E vale per ogni attività. Einstein è impensabile senza Newton quanto Picasso senza Cezanne o De Lillo senza Beckett.

 

LB: In alcuni punti lei usa metafore musicali, a partire da quella, bellissima, che la scienza è come un basso ostinato. E’ quasi rassicurante. Ritiene che la musica, arte temporale, sia tra le arti più appropriate per comprendere la dimensione dinamica dell’esperienza scientifica nella storia?

IL: Gli esiti della scienza, sia teorici che tecnologici, accompagnano sempre più intimamente ogni attività umana. Il problema è che ne percepiamo soltanto un breve disegno melodico e/o ritmico, in generale quello che riguarda l’ultima scoperta o l’ennesimo gadget tecnologico. In realtà la musica che c’è dietro ha un’armonia molto più complessa ed affascinante dei racconti che se ne fanno.

 

LB: Il suo saggio è atipico, perché lei scrive in prima persona. Questo fa intuire che ci sono aspetti suggestivi, ineffabili e misteriosi nella scienza e nel modo di comunicarla. Allora mi viene in mente una frase di Paul Valery che dice: “Non si può misurare il passo di una dea”. Questa impossibilità può essere anche attribuita a qualche momento dell’esperienza scientifica?

IL: Questo libro è un insieme di saggi che si sono accumulati nel tempo e quasi auto-organizzati, fino a darmi l’idea di un frutto maturo. Hanno in comune l’essere nati tutti come appunti in margine a qualcosa - una lettura, un’esperienza privata, un convegno -, e nella rielaborazione mi è sembrato necessario lasciare la prima persona. C’è un eccesso di terza persona nella comunicazione della scienza, e non va bene quando si riflette sul backstage della scienza o su alcuni nodi cruciali dei rapporti tra scienza e vita culturale, politica, economica, dove il gioco delle posizioni dev’essere chiaro sin dall’inizio. Il farsi del lavoro scientifico poi dev’essere narrato, e non affidato all’infingimento “oggettivo” di una terza persona. Bisogna far capire i vari aspetti di un problema, le soluzioni possibili, e perché si è scelta una strada piuttosto che un’altra. E la bellezza di tutto questo, con la fatica. Enunciare asetticamente una soluzione con “abbiamo scoperto che” non serve a nulla, se non  indurre consenso passivo.

 

LB: Da profana, ho la sensazione che la scienza, a un certo punto, sia stata debole e corrotta, con il risultato d’aver perso fiducia nei confronti di quell’elemento misterioso che collega il tutto: universo, esseri viventi, l’immenso invisibile, tutto insomma. Ecco che da una parte sembra essersi mossa seguendo la paura, dall’altra il profitto. Nel primo caso si è ostinata nella razionalità, volendo trovare ad ogni costo spiegazione a tutto, e rifiutando ciò che non sapeva spiegare o vedere, quasi volendo addomesticare la vita, esorcizzando il timore di ciò che, umanamente, forse è impossibile conoscere, o comprendere. Nel secondo caso ha allontanato sempre più l’uomo dalla natura, dall’ascolto di essa rendendolo sempre più inconsapevole di sé e vulnerabile, per propinargli a caro prezzo la tecnologia come ancora di salvezza.

Sono fuori strada?  Qual è stato, allora, il momento in cui ha perso la purezza, e perché?

IL: La scienza non è sfuggita ad un processo generale che riguarda l’occidente e le sue sorti magnifiche e progressive. Si è passati dalla curiosità del fanciullo del Saggiatore di Galilei e dall’incanto di Ismaele alla furia di Achab. O peggio all’imitazione dei tormenti e delle ambizioni di Faust, che com’è noto è nato tra i fumi delle birrerie tedesche del ‘500. Detto questo, la scienza non è mai stata pura. E non sarebbe neppure auspicabile. La scienza è un prodotto culturale e come tale è parte integrante del cammino collettivo, dello spirito del tempo, degli interessi e dei bisogni, dello scontro di idee tra gruppi e singoli. Fa anche uso della retorica perché cerca attenzione. Suscita reazioni e polemiche. Senza queste spinte legittime non ci sarebbe scienza. Il problema è quando si tramuta in scientismo, l’ideologia che cerca di zippare tutto in equazioni “ultime” ed in un grande “nient’altro che”.

 

LB: Se lei denuncia una certa scienza perché al servizio dell’ideologia e del profitto, chi sarebbero i responsabili di tutto questo? Io credo che gli scienziati stessi dovrebbero riappropriarsi del valore morale e culturale che si addicono a loro, dimenticando il profitto e intentare una nuova rivoluzione, trovare un nuovo umanesimo.

IL: Vorrei prendere le distanze dal linguaggio politico: per denunciare dovrei avere una soluzione, un antidoto, ma soprattutto dovrei circostanziare la critica. E’ del tutto virtuoso che la scienza dia un contributo al profitto. Non riesco neppure ad immaginare una scienza che “non serve a niente”, come diceva con entusiasmo Hardy dei numeri primi (non penso ci credesse davvero, poi è arrivata comunque la crittografia moderna…). Il problema è più circostanziato: oggi la scienza per essere finanziata deve dimostrare il valore commerciale dei suoi prodotti. Questo porta ad un’esasperazione delle proiezioni mediatiche e delle aspettative. E naturalmente a forti rischi di autoreferenzialità. Quando il politico si trova in condizione di dover fare una scelta su cose che non conosce, cosa fa? Si rivolge agli esperti del settore, e questi tenderanno inevitabilmente a privilegiare le loro soluzioni, quelle maturate dentro il paradigma dominante. Questo è un fenomeno del tutto generale, anche in politica: in un mondo sempre più competitivo ed interconnesso, l’ortodossia si va sempre più assestando su un livello omeostatico di basso profilo, ed ogni eterodossia diventa sempre meno praticabile o peggio caricaturale. Naturalmente vale anche per la fisica teorica. Le “teorie del tutto” vengono “vendute” come quel genere di risposta maiuscola che un tempo la gente chiedeva alla religione. Com’è facile immaginare si tratta invece di strumenti che hanno finalità molto più concrete, e delimitate. Tra l’altro, viste dall’interno, le più note sono tutt’altro che a prova di critica. Come dice R. Laughlin, Premio Nobel per la fisica nel 1998: “al di sotto del Modello Standard sono possibili una gran pluralità di approcci compatibili… Perché allora chiamarle teorie del tutto? E’ solo un nome roboante per una tecnologia di calcolo che dev’essere ancora testata!”.

 

LB: Come riconoscere la scienza quando imbroglia?

IL: In generale quando enuncia soluzioni troppo semplici e troppo velocemente. Quando la scoperta tende a ridursi ad un “tag”, ed innesca reazioni bipolari del tipo “da questa parte tutto vero, dall’altra tutto falso”, bisogna iniziare a sospettare. Il fatto è che è molto difficile rendersene conto. In Matematica i confini tra vero e falso sono netti, non è così nelle scienze sperimentali, dove piuttosto le categorie in gioco sono il rilevante e l’irrilevante. Ma cosa è rilevante è selezionato dal modello e dalla metodologia che si sceglie per rendere i fatti “fattibili”. E se a volte una posizione irrilevante si fa passare per rilevante con un po’ di manipolazione statistica (è il caso dei “geni della felicità” o del vaccino contro l’HIV), in altre situazioni è decisamente più difficile. Ad esempio oggi ci sono strumenti raffinatissimi per fare cosmologia di precisione. Ma gli scenari teorici dove vengono infilati questi dati nuovi di zecca sono piuttosto datati. Siamo così sicuri che non abbiano bisogno di una “rifrescata”? Questo vale per molte teorie. Non sappiamo se il modello standard della fisica delle particelle si completerà o ci esploderà tra le mani. Esiste dunque una vasta gamma di forzature possibili nella scienza, dai dati usati alla scelta del modello (pochi i casi di imbroglio vero e proprio, in questo senso il sistema funziona!), ma è un po’ come per i ladri: ci vuole un altro ladro per scoprirli!

 

LB: Se l’economia domina il mondo attraverso la tecnologia, allontanando l’uomo dalla terra, dal sentire che poi è il conoscere, come colmare ora questo distacco?

IL: Esiste una sempre maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse naturali, della necessità di gestirle diversamente ed in generale promuovere un atteggiamento meno “colonizzatore” verso la natura, e lo spirito. E’ poco ma ci sono segnali significativi in questa direzione. Naturalmente la scienza sarà indispensabile nel definire le nuove rotte possibili tra epistemologia, economia ed ecologia.

 

LB: Lei mi ha fatto venire alla mente le parole del cardinale Bagnasco: “la scienza non è puramente oggettiva né assoluta. Ha bisogno di interpretazione e correzioni; non deve però avere paura della fede, così come quest’ultima ha bisogno di una comprensione sempre più approfondita dell’uomo e non può mettersi in ascolto solo della scienza”. Insomma, serve una concezione antropologica integrale?

IL: Questo è già un problema antico. Nel 1955 W. Pauli ha scritto delle pagine bellissime su un momento in cui lui sentiva che si stava delineando un’opposizione tra un razionalismo scientista troppo limitato ed una fascinazione mistica generica e non convincente. E concludeva dicendo che chi sta in mezzo non può che accettare queste inasprite posizioni ed i loro conflitti. Solo così potrà cercare la sua via interiore di salvezza. Concordo in pieno, e trovo che l’atto di sintesi è sempre individuale.

 

LB: Lei è credente?

IL: Si. Ma se mi chiedi se influenza il mio modo di approcciarmi alla fisica, rispondo subito di no. Sono molto “laico” come fisico teorico, lavoro con diversi approcci anche diversi da loro, e vedo fin dove mi portano. Ho le mie preferenze, ma si tratta di gusti, simili a quelli che si hanno per i vini o i tabacchi, roba tecnica, diffido delle “visio” unilaterali ed esaltate.

 

LB: Le chiedo queste cose perché Papa Francesco dice che “tutto è connesso” e richiama all’integrazione del sapere scientifico alle altre aree “classiche” di conoscenza. Lei sostiene che la cultura è una, e si sovrappone alla non cultura. Dunque è in linea con quanto sostiene la chiesa?

IL: La cultura è un’unica rete in cui siamo tutti immersi. I nodi di preferenza e gli attrattori possono essere diversi. L’unità e l’integrazione sono processi continui, non formule statutarie. Penso però che tra Scienza e Religione può esserci una compatibilità che è più di una coesistenza. Non bisogna però dimenticarsi che sono “gradi del sapere” diversi, come sosteneva Maritain.

 

LB: Da scienziato cosa preferisce tra queste parole: religione, spiritualità o trascendenza?

IL: Spiritualità con un po’ di religione al centro. Come ancoraggio, diciamo. Agitati, non mescolati. Trascendenza è filosoficamente vago, la spiritualità da sola rischia di essere un trip soggettivistico. La religione fa diventare la tensione mistica un patto.

LB: Lei condanna il relativismo. Ma non esiste solo quello di basso profilo, c’è anche quello di alto profilo, come nella frase attribuita a Voltaire (forse della biografa Beatrice Hall): “non sono d’accordo con te, ma sono disposto a dare la mia vita affinché tu possa esprimere la tua opinione”.

IL: Più che condannare il relativismo, ritengo sia inutile fare a pugni con i fatti, che devono sempre essere considerati con il massimo rispetto. Idealmente non c’è limite alle possibilità interpretative, ma ognuno di noi si fa una mappa operativa di quello che si avvicina pericolosamente alla patologia.

 

LB: Diciamo allora che per salvare il mondo urge un dibattito aperto fra tutte le parti, un dibattito scientifico, culturale, sociale. Siamo davvero in tempo?

IL: Non sarei uno scienziato se pensassi che non si può fare nulla. E se la buona volontà scarseggia, succede sempre qualcosa che ti rimette in riga.

 

LB: Voglio tornare al fatale distacco dell’uomo dalla terra. Io credo ci sia una sostanziale differenza tra cultura e conoscenza. La prima si costruisce attraverso il pensiero, la divulgazione, le nozioni, perfino alle mode. La seconda attraverso il Sentire, con la S maiuscola. E questo avviene soltanto attraverso una connessione alla terra in primis e al tutto di conseguenza. La conoscenza è un’esperienza intima che ci riporta, credo, al senso delle cose. O alla vita, che poi è il senso stesso. E’ una differenza corretta?

IL: Ritengo sia corretta, ma il confine tra le due è un fatto squisitamente personale. Purtroppo aggiungo. Del resto la nostra specie è bravissima nel manipolare istinti ed intimità e convincersi poi della naturalezza dell’artefatto. Anche quando è fatto male.

 

LB: Secondo lei, cos’è la mente?

IL: La musica che suona un cervello quando è immersa nel mondo.

 

LB: E secondo lei, con lo strumento mente, (la mente che mente, diceva Giorgio Nardone, credo) saremo capaci, un giorno, di conoscere quel mistero, o quella vera consapevolezza che ci rende un tutt’uno con il creato? O forse ha ragione Kant dicendo: “La ragione umana non è fornita di siffatte ali da poter fendere le alte nubi che velano ai nostri occhi i segreti dell’altro mondo, e ai curiosi che sono così smanianti di indagarli si può dare la risposta semplice, ma molto naturale, che la cosa più prudente è di rassegnarsi ad avere pazienza finché non arrivino là”?

IL: C’è sempre una siepe Leopardiana tra noi e questi sogni a darci la misura esatta della nostra posizione nel mondo. E Keats aggiungerebbe “sennò forza gli sarebbe rinunciare alla sua mortal natura”

 

LB: A proposito della sua lezione al Forum dei giovani, sull’Economia come sistema complesso. Lei condanna la scienza riduzionista a favore della complessità. Potrebbe argomentare meglio?

IL: Ancora una volta, non condanno. Nessuno scienziato potrebbe dirsi anti-riduzionista in senso metodologico. Bisogna semplicemente comprendere che è un metodo che non va bene per tutto. E dove comincia a vacillare è proprio nello studio dei processi, come quelli biologici, cognitivi e socio-economici. In particolare l’economia, ispirandosi al fisicalismo, ha per molto tempo considerato l’homo oeconomicus come un punto materiale soggetto a forze sotto il vincolo del massimo profitto. Ma l’agente economico ha una struttura interna molto più complessa fatta di volizioni, desideri, aspettative. Cultura. Storia. Basti pensare da dove viene il valore di un Leonardo o Caravaggio. Oggi gli economisti parlano di razionalità limitata, ma io direi piuttosto “estesa” per arrivare a reintegrare le componenti espulse di quella che potremmo chiamare la semantica del mercato. Quando Adam Smith scrisse il suo formidabile saggio, il mercato non era considerato un destino, ma sorgente di opportunità, la festa dello scambio e delle idee. Bisogna ridare significato ad alcune parole “smarrite” e marginalizzate, come cooperazione, sostenibilità, etica. Non come valori astratti, ma pratiche possibili. Non si tratta più di realizzare il punteggio più alto, ma di inventare giochi nuovi.

 

LB. L’esistenza, dunque, sarebbe come una gigantesca caduta delle tesserine del domino?  Ma se così è, dove starebbe il libero arbitrio dell’uomo? A me sembra che una volta avviate le tesserine, sia un percorso sempre e comunque obbligato.

IL: No. Le tessere hanno molti modi di mescolarsi e dare vita a combinazioni imprevedibili. E’ il “More is Different” di Anderson che vediamo all’opera continuamente intorno a noi. Un determinismo rigido vale solo per la descrizione di una particella newtoniana ideale soggetta a poche forze. Più il sistema si complessifica meno è possibile assegnare persino probabilità a priori. Ci sono emergenze ovunque. Questa visione che dici, dell’obbligato, deriva da una concezione troppo limitante delle leggi fisiche. Una legge fisica, diceva Bohm, è una griglia di possibilità di quello che può accadere. Caso e causa non sono contrapposti, sono i due fattori che rendono il mondo così vario.

 

LB: Cambiamo argomento. Per lei cos’è la perfezione e cos’è l’imperfezione?

IL: Qualcosa che si affaccia per poco tempo nella sospensione ammirata di qualcosa.
Poi l’incompiuto e l’imperfetto ci rimettono al lavoro.

 

LB: Mi consenta questa confidenza: da bambina pensavo che il difetto, l’imperfezione, il paradosso, fossero un varco attraverso il quale fosse possibile intravedere l’occhio di Dio, ammiccante. Insomma, credevo fossero suggerimenti dati da quel tutto che ci collega, al fine di elevarci a una comprensione superiore. Ero fuori strada?

IL: Dio e il diavolo si nascondono nei dettagli. Anche in fisica i “difetti” di una teoria ci spingono più avanti e più in profondità rispetto ai suoi pregi. E’ sempre un bene quando un conto non torna.

 

LB: Uno scienziato a noi vicino, Nicola Tesla, disse che l’obiettivo di una scoperta, o di un’invenzione, non consiste nel profitto ma nello sfruttamento delle forze naturali per necessità umane. Anche se potrebbe fare una buona impressione, a me questa frase fa un po’ paura. E’ possibile che un errore fondamentale che anche la scienza commette, è mettere l’uomo al centro di tutto. Essere troppo antropocentrica, lasciandosi sfuggire il dialogo con l’immenso attorno? Per essere davvero pura, la scienza, dovrebbe spostare lo sguardo?

IL: C’è una famosa frase di Einstein sui momenti in cui ci sembra di esserci liberati dai limiti della condizione umana e possiamo guardare “come da un lontano pianeta e con sgomento la bellezza fredda, eppure commovente dell’eterno, e dell’insondabile”. Ma poi torniamo alla bottega, e dobbiamo occuparci di fare cose belle e buone. Qui dove fa caldo.

 

Ignazio Licata - Trieste 2017

Trieste, Caffè degli Specchi, 28 Settembre 2017

 

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