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Scrittura e vita, simbiosi perfetta

Scrittura e vita, simbiosi perfetta di Matilde Perriera

di Matilde Perriera

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Primo Levi - Se questo è un uomo. Le prigioni interiori

Gennaio 2015

 

SE QUESTO È UN UOMO(1). Elaborarne una recensione è impresa titanica perché l’opera, scritta nel 1946 pochi mesi dopo la liberazione dal Lager, dall’ultimo al primo capitolo, è difficilmente collocabile …E’ un resoconto, un memoriale, un documentario, un romanzo neorealista, un’opera lirica, un trattato di sociologia, un'introspezione dell'animo umano? Primo Levi - Se questo è un uomoE’ tutto questo e molto di più, è una parenesi universale, secondo cui “esiste un assassinio peggiore dell’uccisione, quello di spegnere in un uomo la vitalità”, in “un mondo in cui ogni umanità è spenta, deserto radicale dello spirito, paradigma assoluto dell’inferno sulla Terra”(2). PRIMO LEVI(3), nello scorrere dei diciassette capitoli, ridando linfa alle eroiche lotte di uomini, donne, giovani, anziani, preti, militari, gruppi di differenti ceti sociali che hanno lasciato riaffiorare nel loro animo le coraggiose scintille di umanità intenzionalmente asfissiate dai crudeli e sistematici piani dell'organizzazione nazifascista, diventa specchio rinfrangente della drammatica deportazione degli Ebrei italiani ad Auschwitz nel 1944 … Ricorda gli scheletri viventi, che, sintesi tra nonuomo e sottouomo”(4), strisciavano come fantasmi nei lager, senza più dignità e coscienza di sé stessi, stroncati dalle proibitive condizioni ambientali, dal precario stato igienico-sanitario, dal lavoro massacrante ... Ricorda i supplizi sopportati per ore, giorni e anni nel pantano dagli “Häftlinge”(5), vermi che vagavano in mezzo a cadaveri e sterco, gelati, nudi, affamati, larve alla ricerca di un po’ di calore ... Ricorda le terrificanti esperienze in un microcosmo in cui per i deportati non esisteva un perché, in cui si entrava per non uscirne, in cui era previsto come unico fine la morte … Ricorda … per far sì che mai il seme maligno di Auschwitz, “negazione drastica dell’esistenza di Dio”(6), possa tornare a germogliare anche se “la matrice di questo mostro è ancora feconda”(7) e assume l’aspetto dell’intolleranza, del razzismo, del Nazionalismo, della negazione dei diritti fondamentali dell’uomo.

 

SE QUESTO È UN UOMO. Il narratore, massacrato lentamente e dolorosamente nell’anima e nel corpo, al termine della sua dolorosa avventura, ha avvertito “il bisogno naturale e irrefrenabile, tenero e violento al tempo stesso, di comunicare, di comprendere, di condividere quella fame di conoscenza che rende collaterale qualsiasi altra attività ne ostruisca lo sguardo”(8), di trasmettere i particolari più angosciosi a quanti “vivono sicuri nelle proprie tiepide case e trovano, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici”(9), non “allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa, ma a scopo di liberazione interiore”(10). Straordinaria la puntualità con cui PRIMO LEVI si sofferma sull'abbigliamento, sui riti del campo, sulle funzioni dei "kommandos"(11), sulla crudeltà dei drappelli di burattini sui prigionieri, sulla ferocia con cui venivano calpestati i diritti umani, sull’insieme di operazioni rese pericolose dalle condizioni fisiche, dal gelo, dal fango … un attimo di distrazione e la tragedia si compiva. Il recluso N° 174517 affida l’analisi dell’incubo vissuto a una scrittura rapida, snella, essenziale, distaccata, “senza fronzoli di mezzi linguistici, fedele alla forma mentis del chimico attento al giusto dosaggio degli elementi e al rigore del trattamento”(12), con “un’oggettività, che vuole essere scevra dal rancore per non alterare la capacità di giudizio, ma che non va confusa con un perdono facile e assolutorio”(13). Da figura volutamente eterodiegetica, non si lascia sfuggire alcuna imprecazione contro i suoi persecutori, né si ferma ad autocommiserarsi, né manifesta desideri di vendetta e rabbia. “Silenzio. Regredire nel mondo rappresentato in cui il tempo trascorre in un infinito presente, piatto e senza futuro. Silenzio. Descrivere in maniera credibile gli eventi. Silenzio. Lasciare i fatti parlare da sé. Silenzio. Riservare ad altri il compito di giudicare. Silenzio. Silenzio. Silenzio ... Nessuna esplicita riflessione, d’altra parte, potrebbe delineare in maniera obiettiva e credibile gli eventi o codificarne la sofferenza, eppure la macrostoria entra nella microstoria e consente ai lettori di introiettare assiomi di ampio spessore”(14). Uno dei venti sopravvissuti “più per fortuna che per virtù”(15) fra i 650 “sommersi”(16) arrivati con lui al campo si riserva impliciti commenti soltanto nei densi congiuntivi esortativi di SHEMÀ; con questi versi, che hanno il vigore di un’invettiva profetica, invita gli uomini di ogni tempo a meditare sulle sue parole e a scolpirle nel loro cuore, a considerare l’abbrutimento di chi, dopo aver inconsciamente imboccato la via della perdizione, ha lavorato nel fango, ha lottato per mezzo pane, è morto per un sì o per un no e i passaggi diventano ancora più energici se paragonati, contrastivamente, a “chi se ne va sicuro e l’ombra sua non cura”(17).

 

Il protagonista di queste incisive lacrime di sangue è entrato nel “Konzentrations-Zentrum”(18) a testa alta, ma si è reso subito conto che la vita sarebbe stata una guerra. Nei primi tempi ha conservato le energie, riuscendo a svolgere le mansioni a lui assegnate, ma, col passare del tempo, le forze gli si sono indebolite a causa della pessima alimentazione; il suo ventre era gonfio, le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già aveva la fame cronica sconosciuta ai liberi, “quella che fa sognare di notte e siede in tutte le membra del suo corpo”. Dinanzi a quel folle progetto di distruzione, che “mutilava e annientava, che abbatteva chiunque stesse per cadere”(19), che rinnegava la pietà, che non conosceva più l’amicizia, la ribellione, la speranza, ha, però, dimostrato una grande capacità di adattamento, curandosi solo, assurdamente, di non morire, di mantenere in piedi quel mucchietto di ossa, di non aggiungere sofferenza alla propria condizione, anche lasciandosi condurre da chi, come “Steinlauf”, gli insegnava ad adottare piccole tecniche di difesa o a rispettare precisi codici …  “Lavarsi la faccia, anche senza sapone, nell'acqua sporca o camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità, per non cominciare a morire"(20). PRIMO LEVI è andato avanti neutralizzando  le coercizioni che “facevano tremare tutte le costole”(21). Lo hanno sostenuto l'intelligenza, l'istinto, la conoscenza di un po' di francese e di tedesco, l’astuzia, la determinazione, il coraggio, la disponibile comprensione, l’intuito nel cogliere immediatamente chi bisognasse corrompere, chi evitare, chi impietosire, chi tenere lontano per non lasciarsi derubare, nel considerare suoi di pieno diritto un cucchiaio, uno spago, un bottone trovati in giro per barattarli con camicie, coltelli o qualunque altro genere di prima necessità, sia pure un pezzo di pane raffermo o mezza razione di zuppa acquosa di patate; le stesse “Schutz-Staffel”(22) inducevano gli “Haftlinge” a compiere furti e altri atti illegali, con il preciso intento di annientarli nella loro dimensione di uomini, ma nessuno se ne sentiva mortificato perché, come purtroppo è naturale, l’individuo, di fronte a “sinistri segni di pericolo”(23), per cause di forza maggiore, si conforma a ogni legge iniqua, mette a tacere l’etica del bene e del male, soffoca i principi del giusto e dell’ingiusto, rimuove dal proprio orizzonte le regole di fratellanza e di civile convivenza. Un momento di respiro solo in caso di ricovero nel “Krankenbau”(24), un limbo per riprendere coscienza della propria identità; pochi vi soggiornavano più di due settimane e nessuno più di due mesi, entro questi termini i prigionieri o venivano curati o mandati alle camere a gas. Su tutto prevaleva l’attesa fiduciosa del “Feierabend”(25), che garantiva il rientro nello Schonungsblock”(26), anche se sotto la stessa coperta, in settanta centimetri di larghezza, sudore, odore, calore si fondevano e l’insufficiente quantità di cibo non aiutava a recuperare le energie per tener testa alle nuove angherie che sarebbero ricominciate al dispotico “Wstawac, Aufstehen”(27) che respingeva l’esile carezza del sonno.

 

Si è davanti a un testo di estrema semplicità? Solo in apparenza, forse, perché il dramma personale e storico vi è filtrato, ripensato e rielaborato attraverso grandi modelli culturali frutto dello studio accurato che, per tutta l’esistenza, gli aveva nutrito il pensiero. “La cultura salva, sempre”(28) e sono molte le occasioni in cui si registra in questo grande classico l’importanza di quel forte bagaglio personale che nessuno, mai, potrà togliere all’uomo, a cominciare dalla Divina Commedia. Rappresentativo, sotto tale ottica, è l’incontro con il “Pikolo” Jean, il venticinquenne studente che invita Primo ad accompagnarlo al ritiro della marmitta del rancio; l’insegnamento della lingua italiana è il corrispettivo per un'ora buona di cammino nel tiepido sole del giugno polacco, ma … Nella mente del “cavo teso tra la bestia e il superuomo”(29) solo ombre lontane di qualche raro verso del XXVI canto dell'Inferno … Frequenti interruzioni, lace­ranti oblii ... Troppo remote quelle parole, quegli studi … In maniera fulminea, però, si scioglie il canto poetico, “la poesia aiuta l’uomo a sopportare la sua croce e a vincere la barbarie”(30) ... Il canto di Ulisse  … “Considerate la vostra semenza … Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”(31) … Ed ecco l’epifania ...  Il significato riposto della terzina diventa per il redivivo eroe omerico terribilmente attuale... Sottoposto a maltrattamenti gratuiti e omicidi impuniti, viveva come un bruto, la semenza umana era calpestata, la virtù e la conoscenza erano allontanate dal bisogno della sopravvivenza. Le im­magini, che fluiscono sempre più spontanee, paiono dipingere la voglia di riscatto, ridanno sostegno alla dignità di uomo e, anche se le stanghe del recipiente della zuppa gravavano sulle spalle, il confinato è rientrato momentaneamente in possesso della propria dimensione per compiere un nuovo "folle volo"(32) ed ergersi al di sopra del feroce codice di Auschwitz. L’arrivo tra la folla sordida dei por­ta-zuppa segna la reimmersione nella quotidianità concentrazionaria, suggellata emblematicamente dal parallelismo fra la ripetizione degli ingredienti della zuppa in varie lingue, che allude al ritorno a una condizione animalesca attenta solo ai bisogni primari; il cortocircuito, però, ormai ha sfiorato la mente e il cuore dell’uomo-Levi e lo scrittore, soffermandosi sull'ultimo verso del canto, “infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso”(33), ha fatto un passo avanti, il sistema non lo ha del tutto schiacciato,  il suo spirito è ancora votato a librarsi nel cielo azzurro della piena libertà ... Se, infatti, si è inglobati in “una gran macchina per ridurre l’uomo a bestia, bestie non si deve diventare per portare testimonianza. Schiavi votati a morte quasi certa, sì, ma con la facoltà di negare il proprio consenso”  … E, poi, altri funzionali echi danteschi nelle trasparenti metafore “lager-inferno” o “viaggio verso l’inferno della città dolente”(34) in cui avviene la selezione della “perduta gente”(35) … E, ancora, ci si  ritrova sugli autocarri guidati dal “Caronte”, che il narratore, spregiativamente, scrive con la C minuscola, o si sentono i comandi del burbero “dimonio”  che assorda gli Häftlinge sprofondati “ne l’etterno dolore”(36), o ci si mortifica per l’umiliante nudità dei prigionieri paragonabili “a quell’anime lasse e nude”(37), o ci si coinvolge emotivamente di fronte a chi spinge vagoni, lavora di pala, si fiacca alla pioggia, trema al vento così come, nell’Inferno dantesco, i superbi spingono massi, i golosi sono oppressi da una "piova etterna, maledetta, fredda e greve"(38), i lussuriosi sono “voltolati, percossi, molestati dalla bufera infernale"(39)  … E non si può fare a meno di glossare le espressioni “giacere sul fondo, eccomi sul fondo, viaggio verso il fondo”, perifrasi allegoriche della “Buna”(40) o di chi, ridotto a sofferenza e bisogno, perde la capacità di discernimento, richiamando perfettamente la geografia dantesca, secondo cui al centro della Terra, nel fondo, si trova Lucifero, massimo simbolo del male ... E la stessa vita nel “Ka-Be”(41) è definita una parentesi di relativa pace per carburare le forze proprio come il limbo di Dante è il cerchio dell’inferno dove minore è la sofferenza dei dannati … E “Pannwitz”? Il “dottor” che gli fa sostenere l’esame di chimica "formidabilmente" incute paura ed esprime il suo giudizio dietro la sua scrivania non a parole ma con segni incomprensibili, allineandosi a “Minòs” che stavvi orribilmente e ringhia"(42), con sottile e perfida deliberazione … Si potrebbe continuare l’esame di passi perfettamente riconducibili alle due opere fino alla descrizione degli ultimi dieci giorni di vita nel campo, anche se, ovviamente, se ne devono sottolineare le sostanziali differenze. L'Inferno descritto in SE QUESTO E’ UN UOMO è realtà storica e se ne hanno le testimonianze, mentre i fatti narrati da Dante sono impossibili da verificare. I deportati chiusi nei campi di concentramento, inoltre, non hanno nessuna colpa, se non quella di essersi opposti al regime ed essere Ebrei, al contrario delle anime dannate di Dante che, per la legge del contrappasso, subiscono le pene per scontare i peccati commessi nella vita terrena, con un “divario tra il rapporto quasi matematico di punizione e colpa nell'Inferno e l’arbitrarietà di Auschwitz”(43). Dante, per di più, segue un percorso lineare e verticale in cui “la giustizia divina è vista negli esiti prodotti dalla sua negazione”(44), invece i campi di concentramento sono il frutto di un megalomane progetto nazista che si materializza immediatamente nella scritta derisoria che sormonta la “porta di schiavitù”(45).

 

Un ruolo decisivo, nel centro di sterminio nazista, ha giocato la scarsezza di mano d'opera dovuta allo sforzo bellico; tale contingenza, infatti, ha permesso al primo attore di impiegarsi, verso la fine della sua prigionia, nel laboratorio del colosso tedesco “IG Farben”(46), sebbene nessuno avrebbe potuto riconoscere in quelle mani sporche e piagate o in quei pantaloni incrostati di fango “il dottore in chimica organica summa cum laude”. La biancheria nuova, la rasatura ogni mercoledì, l’avvolgente tepore della fabbrica, il piacere di scoprire come il serbatoio dei ricordi, pur dopo la lunga inerzia dello spirito, gli abbia permesso di rispondere alle domande con inaspettata docilità lo hanno spinto a reagire, anche mentalmente, ai problemi di sopravvivenza da affrontare fino al gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione, proprio quando i civili tedeschi, i politici e le SS, nel furore dell'uomo sicuro che si desta da un lungo sogno di dominio e si rende conto della sua rovina, vedendo o credendo di vedere, in ogni viso dei prigionieri, lo scherno della rivincita e la crudele gioia della vendetta, avevano raddoppiato la loro ferocia. Senza il sostegno della solida preparazione acquisita durante le scuole superiori, senza l’abilità professionale, senza la fitta serie di interazioni nella quotidianità che lo aveva formato, dunque, questa miliare figura auto-omodiegetica, sclerotizzandosi, probabilmente, “in una forma di vita-nella-morte”(47), non avrebbe lasciato il capolavoro decisivo e unico nel suo essere testimonianza di quanto è accaduto all’umanità nel secolo scorso o, più semplicemente, non avrebbe trovato il modo e le parole per incidere nei cuori il suo messaggio pregnante corroborato dalla speranza che esso possa evitare al futuro di perdersi ancora nello stesso naufragio.

 

L’autore, con la sua documentazione ad ampio raggio, segue, da un lato, la teoria revisionista per far accettare al popolo tedesco una responsabilità almeno parziale su quanto è stato fatto in proprio nome e, dall’altro, s’impone con velati imperativi affinché si prenda atto del serpeggiare della violenza nel momento in cui “far vivere e far morire si incrociano, così come la biopolitica coincide con la tanatopolitica”(48). Nell’explicit, è vero, “l'inferno in terra è sconfitto e frantumato, l'aspetto cadaverico del mausoleo di terrore e morte giace in miseri resti fumanti; si sente riaffiorare tra i prigionieri il mai sopito attaccamento alla vita e la notorietà del racconto dimostra che, almeno in questo senso, la lezione è servita”(49)… Eppure … Eppure … Divorate le 209 pagine, la parola “fine” perde ogni oggettività perché, proprio da questo momento, la mente, il cuore, l’anima si mettono in azione …  Le tante prospettive polifoniche sollecitano il lettore a chiedersi perché le persone si siano comportate in quel modo ad Auschwitz, perché alcuni siano sopravvissuti e altri no, perché "la zona grigia" si sia prestata a lavorare per i Tedeschi, perché …  “lasciando indirettamente prevalere l’indignatio, la rabbia sofferente per quanto l'uomo ha osato fare all'Uomo”(50). Lo sterminio degli Ebrei, infatti, “è costato all'Italia 7.500 persone”(51), molto meno del contributo di altri Paesi europei, ma il tributo di sangue, qualunque sia stata la sua dimensione, è inaccettabile non soltanto per la sua efferata violenza, ma per il fatto stesso che uno Stato sovrano abbia deliberatamente scelto, deciso e messo in pratica lo sterminio, l'eliminazione fisica di un intero popolo. Non sono solo i morti che pesano, ma tutto l'insieme di vite spezzate, violentate, rovinate, stuprate dall'oltraggio.

 

E PRIMO LEVI? 1987 … E’ stato trovato morto, all’età di 68 anni … Un suicidio? E perché?  “La sua mente era bombardata dalla propria esperienza terribilmente disumana e disumanizzante? L’incessante rovello su quel grumo doloroso avrebbe continuato a tormentarlo? … ARBEIT MACHT FREI … Lo ha ucciso proprio quel lavoro che, secondo quanto recita il cinico postulato all’ingresso del Lager, avrebbe dovuto affrancarlo? Perché un ingegnere chimico, che aveva dei piani per l'immediato futuro e che, comunque, era in grado di procurarsi numerosi veleni, si sarebbe ammazzato gettandosi dalle scale della sua casa di Torino? Aveva, forse, rivelato pericolosi segreti o disturbato potenziali nemici? Sarebbe più corretto, semmai, credere alla tragica supposizione di un incidente?(52) ... Gli enigmi si accavallano e i misteri s’ingarbugliano … Rita Levi Montalcini e Giovanni Tesio affermano di avergli parlato il giorno prima della sua morte e di “averlo trovato di buonumore”(53) … Elio Toaff rivela che Levi “era depresso perché il volto della madre malata di cancro gli ricordava le facce di quegli uomini in fila dietro i reticolati di Auschwitz”(54)Ferdinando Camon, parafrasando la  lettera che l’ex deportato gli aveva spedito la mattina stessa del presunto suicidio, ne coglie un trascinante “inno alla vita con un vortice di programmi, disegni, desideri così infiammati da riempire settimane, mesi e anni”(55) e sottolinea come le spiegazioni non debbano essere cercate “in quel che è successo in quel tragico undici aprile, ma in quel che era avvenuto 45-40 anni prima”(56)… Il martire della detenzione ad Auschwitz aveva cercato di guardare oltre le grate, di proiettarsi oltre il filo spinato, di godere del coinvolgente ritorno del sole, di “rispondere al credo senza tempo che, riassumendo lo spirito di un popolo, pone come diktat prioritario quello di pretendere per tutti gli uomini uguali diritti e uguali opportunità”(57), ma “l’irresistibile vertigine, causata dagli strappi che lo avevano allontanato dal vivere ordinario”(58), non lo ha mai abbandonato … L’itinerario labirintico da lui percorso dopo la liberazione lo ha riportato in patria fisicamente, ma la sua anima si è perduta nel gran mare dell’essere, la catarsi non è avvenuta; le ferite insanabili, che, probabilmente, lo avevano trasformato in polvere prima della morte, hanno fatto sì che “l'impulso a flettersi prendesse il sopravvento … Per lui, nessun viaggio interstellare”(59), le prigioni interiori, che inaridiscono la psiche umana, gli hanno impedito di salvarsi dalla dissoluzione spirituale.

 

      Matilde Perriera

 

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