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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Eugenio Lecaldano

Aprile 2012
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5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

Credo che la vita di ogni essere umano sia fortemente condizionata dalla sorte: una tesi che in formulazioni diverse troviamo nella filosofia di Aristotele e in quella di David Hume, che molto mi ha aiutato a divenire consapevole della mia esperienza. Alla sorte devo la nascita in un paese e in una famiglia e in un certo momento della storia dell’umanità e di conseguenza in uno specifico contesto storico-culturale e con determinate opzioni di fronte a me, mentre altri che sono nati altrove o anche nel nostro paese ma in una differente condizione sociale hanno trovato naturalmente davanti a sé qualcosa di ben diverso. Alla sorte debbo anche molto l’essere riuscito, sia pure con qualche lentezza e fatica, a mettere al centro della mia vita quello che in definitiva era per me importante e anche fonte di piacere. In effetti molta fortuna ho avuto nel poter mettere al centro della mia esistenza quello che non solo trovo importante e significante ma anche mi piace fare, studiare, insegnare, scrivere, discutere di questioni filosofiche e inoltre avere tempo libero da dedicare alla lettura di romanzi, all’ascolto della musica e a vedere films. Sicuramente sono un privilegiato. La sorte mi ha anche aiutato permettendomi di avere un contesto di relazioni personali che ha accettato che queste fossero le mie priorità di vita: forse con una prevalenza dell’insegnamento da cui ho ricavato le maggiori sollecitazioni ed esperienze. Non è dunque stata una fatica per me, e tuttora non lo è, svolgere per larga parte della giornata le attività che maggiormente mi gratificano. Un po’ di responsabilità forse ho avuto e ho tuttora nei particolari contenuti che ho privilegiato e dunque, di volta in volta: la filosofia analitica anglosassone, il pensiero inglese dal Settecento ad oggi e principalmente David Hume, Adam Smith, Jeremy Bentham, John Stuart Mill, e ancora  le questioni della bioetica,  la possibilità di avere un’etica facendo a meno delle religioni, le potenzialità di una prospettiva sulla morale che metta al primo posto i sentimenti e non la ragione. Molto del mio sforzo è stato quello di far conoscere meglio alle mie studentesse e ai miei studenti pensatori, testi, idee che mi sembravano sottodeterminate e che ritenevo importante fossero più conosciuti nella nostra cultura italiana. Muovendomi in una cultura che mi sembrava e mi sembra tuttora dominata da tendenze antiscientifiche e da un forte conformismo per le questioni dell’etica, dovuto al preponderante peso della morale cattolica, ho creduto che far conoscere meglio queste impostazioni secolari centrate sull’importanza della scienza e dell’esperienza poteva essere un buon contributo per il progresso della cultura del nostro paese. Non insisterei però più di tanto - anche se avrei qualche argomento - né sulla giustezza di questa linea di lavoro né sull’esito positivo dei miei sforzi. Propendo anzi nel ritenere  scarsi o quasi nulli gli esiti dei miei tentativi sul piano sociale e culturale, come del resto accade sempre per le elaborazioni così astratte e complesse della filosofia che si rivolgono a un uditorio molto limitato. Ma questo giudizio negativo e drastico sul piano oggettivo non mi sembra tolga il gusto che continuo a provare nelle attività che - una volta finito di insegnare - svolgo quotidianamente e cioè studiare, scrivere, discutere pubblicamente di filosofia. Del resto sono consapevole che prima o poi dovrò far ruotare le mie giornate su altre attività, quando non avrò più né la salute né la forza intellettuale necessarie  per gli impieghi del tempo che ho privilegiato finora e non sono sicuro di avere le risorse per accettare serenamente tipi diversi di quotidianità nè so, a quel punto, cosa mi offrirà la sorte o cosa sceglierò con quel poco di libertà che mi sarà rimasta.

 

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

A questa domanda si può rispondere in due diversi modi, o sul piano descrittivo e fattuale, ma in questo caso cederei la parola alla biologia e alla psicologia, poiché io non avrei molto da dire; oppure sul piano più normativo, e in questa direzione mi sembra di poter procedere con un argomento che si può  distinguere in due punti. Il primo - come affermava John Stuart Mill – è che tutti gli esseri umani vanno considerati come esseri impegnati, nel corso della loro vita, in un progetto di progressione e di sviluppo. Il secondo è che tale progetto non può essere valutato sulla base di concezioni generali su quelli che sarebbero i fini propri dell’essere umano. Ciò significa che ciascun essere umano – cioè tutti gli esseri umani, senza distinzione di sesso, cultura, nazionalità,  status economico ecc. - è dotato di una libertà naturale che lo porta a cercare di realizzare il suo personale piano di vita. Non vi sono dunque valori oggettivi e assoluti che possano graduare, gerarchizzare i diversi modi in cui ciascuno sviluppa il proprio progetto nel tempo della sua biografia; anzi, come è evidente, bisogna salvaguardare e stimolare la ricerca del proprio progetto da parte di ciascuno.

Questa tolleranza va poi fatta interagire con un’altra pretesa normativa ricavabile da Mill, ovvero che gli esseri umani preferiscono essere un Socrate insoddisfatto piuttosto che un maiale soddisfatto. Questa è, com’è ovvio, una tesi che dobbiamo riuscire a rendere ragionevole con le nostre argomentazioni. In genere l’attività dell’insegnare e il contesto della scuola dovrebbero essere finalizzati proprio a mostrare come nella società e nella cultura esistano attività e impieghi del tempo qualitativamente migliori di altri. Il fallimento eventuale di istituzioni quali la scuola pubblica non credo giustifichi lo scetticismo o il cinismo sulla possibilità di rendere evidente la ragionevolezza di questa tesi. La scuola e la discussione pubblica dovrebbero ruotare intorno a questo, puntare ai meriti reali liberandosi delle apparenze. Una società si avvita su sé stessa quando questo obiettivo non è più al centro della sua attenzione. Se poi questo compito viene affidato alle chiese, come spesso è successo nella nostra storia, principalmente negli ultimi vent’anni con il dilatarsi della vuotezza dei mass-media, non possiamo non assistere a processi sociali di forte involuzione.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un’epoca dove l’individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

Di certo bisogna prendere le distanze da quelle forme di individualismo, eredi dell’antropologia di Hobbes, che ritengono che ciascun individuo è spinto solo dalle molle della paura e dell’accumulazione di beni materiali. Questa concezione degli individui mi sembra il frutto di una ideologia astratta fatta valere da gruppi e ceti che, rappresentando così gli individui, possono calpestare libertà e diritti individuali e lottare contro le diversità personali in nome dell’appiattimento e del conformismo. Questi ceti e gruppi, una volta negata la realtà e il valore delle individualità, possono riproporre la vacua retorica del bene comune in nome del quale salvaguardare il proprio  potere. Nel nostro paese non ha mai avuto molta fortuna l’idea, presente negli Illuministi e in pensatori utilitaristi come John Stuart Mill, che la natura umana come tale non esiste e che esistono solo individui - se si vuole, con un linguaggio da noi più commestibile: ‘persone individuali’. Senza questa concezione individualistica non c’è discorso in termini di libertà, eguaglianza e dignità che tenga, nel senso che questi valori possono essere fatti valere solo per individui, non certo per gruppi, comunità o società. Non mi sembra che tutti i discorsi sul fatto che ciascuno di noi è manipolato, controllato, condizionato possano giustificare il mettere in secondo piano le persone individuali. Certo, nella mia vita talvolta mi sono accorto di essere stato manipolato o controllato. Certo, capisco che tutte le mie scelte sono condizionate e limitate, nel senso che mi sono sottratte quelle che potrei fare in condizioni migliori per me irraggiungibili, o non mi sono presenti con l’urgenza con cui dovrebbero le scelte che si trovano di fronte persone di un altro sesso ( o che vogliono liberarsi dalla secca alternativa sessuale delle carte di identità), i giovani senza lavoro, le donne in gravidanza o quelle che subiscono violenza fisica e psicologica, le persone con gravi debilitazioni, gli immigrati che raggiungono le nostre coste ecc. Tutte queste scelte individuali posso solo immaginarle eventualmente facendomi aiutare, oltre che dai discorsi con la gente, dalla letteratura e dal cinema. Per cui il parlare di difesa della persona individuale, nel mio caso, può avere il significato di difendere un privilegio o una serie di privilegi e potrebbe essere illusoria la pretesa che si possa fare qualcosa - anche limitando alcune delle proprie opzioni - affinché analoghi privilegi e facoltà siano riconosciuti al maggior numero possibile (e possibilmente a tutti) di coloro che vivono nelle nostre società.  Ma non capisco perché dovrei poi cedere: le mie capacità personali di riflessione o  simpatizzare o approvare o disapprovare; il mio tentativo di impegnarmi per dare analoghe capacità ad altri, ai giovani e alle generazioni future. E abbracciare l’alternativa di portare tutto questo all’ammasso della difesa di qualche gruppo o comunità o chiesa. Per cui ritengo che, malgrado l’accezione negativa che esso ha in un paese comunitarista come il nostro (dove prevalgono le famiglie, i partiti, le classi, le chiese ecc.), l’individualismo vada difeso contro i mistificatori che lo riducono ad una concezione dell’homo economicus. A me sembra, veramente, che l’individualità sia la bandiera per l’estensione delle libertà e dei diritti a tutti gli esseri umani (e forse a tutti i senzienti dotati di consapevolezza).

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

Personalmente ritengo che si possa, come esseri umani, distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, in quanto non possiamo fare a meno di partecipare (le parole più usate sono ‘simpatia’ o ‘empatia’) alle gioie o alle sofferenze in primo luogo di coloro che ci sono più vicini, ma in realtà di tutti gli esseri umani (meglio: di tutti gli esseri senzienti consapevoli) con cui entriamo in contatto. Come potremmo mai essere indifferenti al pianto di un bambino o di una bambina che soffre, o all’oscillare di una persona che davanti a noi sta per precipitare da un muro se non la reggiamo? Questa partecipazione ci dice con chiarezza che, come nel nostro caso, le gioie sono positive e le sofferenze sono negative e ciò sta alla radice della diversità tra bene e male. La nostra sensibilità, o sentimento morale, è nient’altro che una espansione di questa simpatia, per cui non possiamo evitare di considerare viziosa la condotta di una persona che causi ad altre persone delle sofferenze che esse non vogliono. La moralità ha infatti a che fare con la nostra reazione alla condotta di altre persone, che in nessun modo valutiamo alla stregua di eventi naturali: non avrebbe alcun senso, infatti, accusare un terremoto di essere cattivo o malvagio, mentre non riusciamo ad essere indifferenti nei confronti degli aguzzini che usano (o hanno usato) il loro potere per uccidere, torturare e imprigionare le persone. Ripeto: la nostra disapprovazione per chi tortura un altro essere umano è quasi necessaria sulla base di come siamo fatti.

Diventa chiaro, allora, che è del tutto erroneo derivare la distinzione tra il bene e il male da qualche ragionamento o da qualche ordine imposto da un essere superiore, magari una divinità. Nessun ragionamento o ordine può farci sentire la negatività delle sofferenze altrui in modo così diretto come può fare la nostra sensibilità morale anzi, un ragionamento non accompagnato da una concreta sensibilità è del tutto inutile. Va anzi rilevato che generalmente distinguere tra bene e male muovendo dal richiamo alla ragione o a principi o a comandi in morale è stata nella storia dell’umanità la via con cui si è finito con l’annullare o contrastare quello che risulta chiaro con immediatezza sulla base della sensibilità. Pensiamo alle atrocità commesse da forme di razzismo o di fanatismo religioso che in nome di principi aberranti hanno oscurato in coloro che li condividevano l’esperienza sensibile che tutti gli esseri umani con cui avevano a che fare erano esattamente come loro per quanto riguarda le gioie e le sofferenze. Il nucleo portante della moralità sta dunque nell’evitare in tutti i modi di produrre negli altri sofferenze non volute (ed eventualmente provare ad accrescere le condizioni che permettono agli altri di gioire).

Sfortunatamente la nostra storia ci ha mostrato e continua a mostrarci la presenza di esseri umani e spesso anche di gruppi o strutture organizzate che non tengono in alcun conto le sofferenze altrui e si muovono schiacciando, opprimendo, uccidendo, torturando nei modi più orribili. E non abbiamo solo esperienza di singoli individui con forti disturbi, che diagnostichiamo come psicopatici, che commettono atti efferati; sappiamo purtroppo che tutta l’elaborazione sui diritti umani, nel corso dell’ultimo secolo, si è dovuta confrontare con la barbarie di vere e proprie strutture sociali psicopatiche: come ad esempio ha documentato Antonio Cassese nei suoi libri che narrano della sua esperienza di giudice nelle corti internazionali penali e dei diritti. Nulla ci garantisce che nel nostro futuro non si realizzino i nostri incubi peggiori e che la fragile forza della sensibilità morale individuale non possa finire con illanguidirsi ulteriormente. Non è del tutto impossibile che un eventuale processo del genere si realizzi, comportando probabilmente la scomparsa dell’umanità; contro questi abissi non possiamo che ribadire  le nostre raccomandazioni etiche sperando che siano capaci di opporvisi.

 

9) L’uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall’ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?

In primo luogo probabilmente sono stato aiutato dalla crescente consapevolezza che larga parte della mia vita è affidata al caso, dato che le mie capacità di controllare quello che mi accadrà nel futuro sono molto limitate. Mi sembra poi che, da questo punto di vista, la mia vita non sia diversa da quella degli altri esseri umani. Bisogna distinguere bene tra la consapevolezza di non poter evitare il caso dalla paura o l’angoscia per l’ignoto. Paura e angoscia certo sono stati d’animo che possono accompagnare larga parte della nostra vita proprio per la consapevolezza di quanto poco possiamo controllare o prevedere quello che ci accadrà. In un certo senso, come è ineliminabile la consapevolezza che la nostra dimensione oggettiva è affidata alla casualità, così potremmo sostenere che dalla nostra vita è ineliminabile la presenza della paura e dell’ angoscia. Mi sembra frutto di errori conoscitivi e di una concezione sbagliata della vita umana cercare di eliminare completamente paura e angoscia dalle esistenze umane. Tanto più mi sembra che ci troviamo di fronte a mezzi terapeutici inaccettabili se tali rassicurazioni - ammesso che siano capaci di funzionare durevolmente - sono connesse alle illusioni delle religioni, che affidano la vita individuale alla protezione di una provvidenza divina e, nel timore che ciò non basti a garantire il potere di chi amministra queste illusioni, fanno leva sull’ulteriore mito consolatorio di un’altra vita, la vera vita, dopo la morte. Non riesco proprio a capire come ci si possa tranquillizzare raccontandosi narrazioni che non reggono ad alcuna riflessione critica basata su di un minimo di esperienza su come stanno effettivamente le cose del mondo.

Nella mia vita, poi, il superamento di condizioni insostenibili di paura ed angoscia per quello che mi poteva capitare nel futuro non mi sembra sia stato realizzato con l’aiuto della ragione. L’aiuto dei saggi stoici o di Pascal o dei romanzi di Thomas Hardy non mi ha affatto aiutato a superare paura, angoscia o disperazione per un futuro che mi sembrava cupo e senza speranza. Né queste condizioni, nel mio caso, avrebbero potuto essere spazzate via affidandomi con fede a un essere supremo o a un’altra vita. Non credo in queste dottrine e dunque sarebbe stato assurdo percorrere questa strada. Un notevole aiuto, invece, mi è giunto dall’approfondimento, condotto con uno psicoanalista, delle radici profonde del mio malessere: una incapacità di accettare l’aleatorietà dell’esistenza, che spesso ci imprigiona in difese morbose finendo con l’ottundere la sensibilità, l’affettività e le passioni che sole ci permettono di abbandonarci al piacere o al dolore per gli eventi che si stanno sviluppando in un certo momento della propria vita. La cura non viene dunque da ragionamenti ma dal coinvolgimento nelle esperienze che si sviluppano nell’esistenza e da un recupero del nostro attaccamento a persone e ad attività. Nulla, tuttavia, garantisce che di fronte ad evenienze quali una malattia, la morte di una persona cara, una profonda crisi della società in cui si vive, la paura e l’angoscia divengano un’altra volta insostenibili e che non si trovino più risorse per progettare qualche minima attività che ci rassicuri o ci dia piacere. In situazioni del genere forse l’uscita di sicurezza della morte è l’unica dimensione che potrebbe divenire, ahimè, non casuale.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

In parte il problema del senso della vita si presenta per me come un problema filosofico. Negli ultimi anni mi sono infatti interrogato, come forse altri fanno, sulla possibilità di dare un senso alla propria vita da parte di persone come me, atee e con una concezione naturalistica e secolarizzata della propria vita. Mi sembra vada completamente rifiutata la pretesa delle concezioni religiose secondo cui solo chi accetta le credenze in un autore della natura che ha progettato l’universo e in una immortalità dell’anima individuale può riuscire a dare un senso alla propria vita. Per me è del tutto incomprensibile come si possa riuscire a dare senso alla propria vita ricorrendo a credenze o dichiaratamente false o certamente molto opinabili. Dare senso alla propria vita è qualcosa che non può certo dipendere dall’accettare o meno le dottrine caratteristiche delle religioni, un tema, questo, che ho trovato sviluppato in molti libri recenti, come quello di Owen Flanagan, The Really Hard Problem. Meaning in a Material World, Cambridge (Mass.), Mit Press, 2007.

Ma questo modo di impostare la risposta è forse troppo astratto e quindi è solo un preliminare.  In concreto credo di avere già risposto in alcune delle questioni precedenti  facendo riferimento alle vie lungo le quali le relazioni affettive, le attività di insegnante, lo studio e la scrittura, la curiosità, il provare gusto per la letteratura, il cinema, la musica hanno per fortuna arricchito di qualche minimo senso la mia vita. Accettando la contingenza e la casualità della propria vita, il senso starà tutto in quel poco che siamo riusciti  a fare e nel piacere o curiosità che continuiamo a provare in certe situazioni. Forse non è molto, ma se basta ci si può arrischiare a dire che un senso c’è. Certo, se il nostro presente è pieno di dolore, angoscia e paura in modo continuativo e senza scampo, sarà difficile che la nostra vita abbia senso: solo morire potrebbe averne. Ma queste sono situazioni straordinarie e uniche, dato che nella quotidianità ciò per cui ci siamo impegnati e ciò per cui continuiamo a impegnarci, così come la trama delle relazioni che abbiamo, continua a dare alla nostra vita quel minimo di senso a cui ciascuno di noi - con la sua fragilità e finitezza - può aspirare.

 

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