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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Eugenio Lecaldano

Aprile 2012
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Eugenio Lecaldano è ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma La Sapienza, dove dirige anche il Master di Etica pratica e bioetica. È membro dei comitati scientifici delle riviste "Ethical Theory and Moral Practice", "Iride", "Ragion Pratica", e dei comitati direttivi di "Bioetica", "Filosofia e questioni pubbliche", "Rivista di Filosofia". È membro del Comitato Nazionale di Bioetica. È stato fra i fondatori della Società Italiana di Filosofia Analitica. Dirige la collana "Etica Pratica" per l'editore Laterza. Nel 1997 per il volume Etica (UTET Libreria, 1995) è stato insignito dall'Accademia delle Scienze di Torino del premio "Cesare Gautieri" per la Filosofia del centenario 1896-1996.

Tra le sue pubblicazioni edite da Laterza si ricordano: Hume e la nascita dell'etica contemporanea, (III ed.), 2001; Bioetica le scelte morali, 2005; Un'etica senza Dio, 2006; Dizionario di bioetica, (II ed.), 2007; Prima lezione di Filosofia Morale, 2010.

 

1) Normalmente le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo, che cos’è per lei la felicità?

Personalmente credo che ci sia molta retorica nell’ idea che una riflessione sul senso della propria esistenza nasca in situazioni di sofferenza e dolore.
Sottolineo che tutte queste riflessioni sono largamente personali, nel senso che dipendono da quello che è accaduto nella mia vita e cercano di elaborare reali esperienze che mi sono capitate. In nessun modo si tratta di considerazioni oggettive. Dunque, nel momento in cui queste considerazioni assumono una formulazione linguistica, esse possono forse interessare chi ha avuto esperienze analoghe o chi è aperto al resoconto che altri danno delle proprie esperienze – a meno che, con Wittgenstein, non riteniamo che le grandi domande sull’esistenza e sul senso della vita si dissolvono nel momento stesso in cui troviamo per esse una riposta e non abbiamo più alcun bisogno di esprimere con il linguaggio questa scoperta.
Nelle occasioni in cui ho avuto a che fare con malattie o sofferenze le mie condizioni erano tali che non avevo alcuna forza ed energia intellettuale per dare un senso a ciò che mi stava accadendo. Ciò che aspettavo era solo che le sofferenze passassero e la mia mente fosse più libera per ripensare a quello che mi era accaduto. Di certo la malattia non mi ha convinto a credere che le sofferenze siano una condizione che stimola le mie capacità di comprendere la realtà, ma mi ha molto aiutato a capire ciò che conta nella mia vita e ad apprezzare il ritorno ad un normale tran-tran fatto anche di piccole cose (svegliarsi, la colazione, la preparazione delle lezioni ecc.), una volta appreso cosa significa essere malato. Forse la felicità, per quanto mi riguarda, è proprio questo tranquillo tran-tran quotidiano fatto delle cose semplici e delle attività abituali che riempiono la mia giornata; mentre mi sfugge la possibilità di esprimere giudizi così stabili e definitivi come sembra ammettere chi ricorre al linguaggio della felicità, e persino il vero significato di frasi come ‘oggi sì che sono felice!’, o ‘mi manca tanto la felicità’.

Non diversamente, ritengo sia troppo affannosa e triste la vita quando si ammala o ci viene a mancare una persona a noi cara per riuscire a collegare a queste condizioni le riflessioni sul senso della vita. Anzi, dopo che le tempeste sono passate, ti è chiaro che sofferenze e dolori non hanno in sé alcun valore. In effetti lentamente attraverso le mie esperienze sono riuscito - o almeno così spero -  a liberarmi di miti e ideologie molto diffuse nella mia giovinezza, che indicavano nella sofferenza una condizione che permetteva di crescere: un atteggiamento che porta a covare la malattia - ad esempio la depressione -  come connessa con una eccezionale e sofisticata  capacità di percepire e sentire che si collegherebbe al soffrire (una tematica al centro di molti romanzi di Thomas Mann). Ricordo come un grande avanzamento nella mia vita gli anni nei quali lentamente sono riuscito a liberarmi dall’idea che la condizione di sofferenza può accrescere le proprie capacità di comprensione. Ciò non vuole dire che dopo aver attraversato periodi di sofferenza le realtà di cui facevo esperienza non avessero una particolare intensità e luminosità: ma probabilmente in modo analogo a quello che accade ad un naufrago che raggiunge finalmente la terra ferma. Dato che nella mia vita è presente sia l’esperienza del soffrire sia quella dell’uscire dal soffrire non sono in grado di generalizzare e dire qualcosa su una vita in cui il soffrire è sempre presente o nella quale non via sia mai alcuna sofferenza: certamente non userei i termini ‘inferno’ per la prima e ‘paradiso’ per la seconda.

La maturità, o quell’obiettivo a cui si potrebbe cercare di giungere formando il proprio carattere, mi sembra stia nell’evitare le sofferenze laddove questo dipenda da noi e nel cercare di realizzare condizioni di serenità, tranquillità e anche intensità di vita con i nostri cari e nelle attività che preferiamo. Chiamare tutto questo felicità significa pretendere di dare uno statuto oggettivo a quello che non può non essere personale. Queste mie riflessioni personali, oltre che dalle esperienze, sono state precisate e  rafforzate dall’incontro con pensatori del passato, come spesso mi accade. Ad esempio leggendo le opere di David Hume e John Stuart Mill ho imparato a comprendere le diverse implicazioni dello sforzo di mettere da parte quella componente di dolorismo - ovvero del culto del dolore come strumento di conoscenza e dunque come un valore - che è presente in alcune versioni dell’etica cristiana.

 

2) Professore Lecaldano cos’è per lei l’amore?

Anche nella risposta a questa domanda debbo fare riferimento alla mia esperienza personale. Debbo dunque pregare il lettore di perdonarmi perché questa mia risposta risente di un lungo sforzo fatto nel cercare di liberarmi dalla retorica sull’amore così fortemente diffusa nel nostro paese. Tale retorica, facendo dell’amore una sorta di forza cosmica e quasi un dovere universale, ovvero una emozione che va sentita sia per Dio che per tutti i nostri simili, secondo me crea gravi problemi nelle vite concrete delle persone. Da una parte queste persone si sentono inadeguate alla richiesta, fortemente espressa dal senso comune della società in cui vivono, che per essere persone dignitose devono provare questo tipo di amore; dall’altra, impegnandosi nel soddisfare questi schemi di agapismo perfezionistico, finiscono spesso con il perdere di vista una dimensione più reale e umana dell’amore e dell’affettività. Molto spesso, per non dichiarare fallimento, sono costrette ad aggrapparsi all’uso di espressioni ipocrite che possono scambiare con le altre persone e che permettono la convergenza in un linguaggio svuotato di qualunque contenuto affettivo reale. Ma certo potrei sbagliarmi.  Comunque per me è stato faticoso dare un senso a questa espressione essendo continuamente accerchiato da persone che riempivano i loro discorsi di questa parola e rendevano spesso impossibile continuare a usare questo concetto, specialmente se si badava alla loro effettiva condotta. Si può amare una persona se non si riconosce la sua peculiare sofferenza o non si riconosce che essa ha tutti i nostri stessi diritti? Di certo amare una persona è differente da istituire con essa relazioni che vengono considerate apprezzabili dal punto di vista della sensibilità morale, ma non si riesce a capire che cosa farsene di un amore talmente astratto o incolore da non accompagnarsi con il riconoscimento del valore della persona amata. Per cui di certo non posso negare che molti miei concittadini  amino il loro dio, ma posso negare che amino gli immigrati, i gay, i diversi, gli atei, i morenti che chiedono l’eutanasia, le coppie che vogliono ricorrere alla fecondazione assistita con donazione di gamete ecc.

Al di là del frastuono di fondo veramente intollerabile in un paese cattolico che è sicuro di distribuire a tutto il mondo tanto amore, ho poi avuto la fortuna di trovare un senso per questa espressione in relazioni speciali avute nel corso della mia vita con persone particolari. Forse relazioni così diverse che non possono permettere di dare un significato univoco a questa parola. Il senso che privilegerei è quello legato non solo ad una relazione affettiva profonda e indispensabile per la propria vita, ma anche alla propria vita sessuale, fisica e corporea. L’amore si presenta dunque come una relazione del tutto personale con un’altra persona, di volta in volta con persone diverse, che passa comunque attraverso una relazione fisica e corporea  di vicinanza e che in alcuni casi si collega con una precisa dimensione erotica e sessuale. Una caratterizzazione che può essere data solo da chi, come chi scrive, è stato fortunato a questo proposito;  tanto fortunato da poter prendere le distanze non solo da quelle concezioni retoriche dell’agapismo universalistico cristiano ma anche da quelle ricostruzioni affascinanti e psicologicamente efficaci dell’amore come passione non solo esclusiva, ma in un certo senso estrema e distruttiva che troviamo rappresentata nei films di François Truffaut. Una vicenda biografica fortunata che permette di trovare un senso del tutto personale e individuale a espressioni quali ‘l’amore è una condizione necessaria della vita’, o ‘senza amore tutta la vita è vuota’ ecc.

 

3) Come spiega l’esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

La spiegazione che mi sembra più accettabile è quella che molto faticosamente fornì Charles Darwin vivendo personalmente il grande dolore della morte della figlia Annie (tra l’altro questa vicenda è raccontata in modo coinvolgente da Randal Keynes in un libro tradotto da Einaudi nel 2007, Casa Darwin, il cui sottotitolo ne mostra la pertinenza, Il male, il bene e l’evoluzione dell’uomo). Si tratta di una realtà sperimentata da tutti gli esseri viventi forniti di una minima struttura nervosa, la cui origine del tutto casuale può avere una spiegazione solo biologica ed evoluzionistica. Tutti i tentativi di fornirne non tanto una spiegazione quanto una giustificazione falliscono. La sofferenza (o il dolore), come d’altra parte il piacere, sono un dato della biologia degli esseri viventi e dunque di certo costitutivi dell’esperienza umana non diversamente dal nascere, morire, invecchiare ecc. I tentativi teologici di giustificare la sofferenza rinviando a qualche progetto generale di un Autore della natura mi sembrano ridicoli o moralmente barbari. Infatti sono ridicoli quei tentativi che cercano di immunizzare le sofferenze vedendole come parte di un progetto razionale che permette alla felicità e alla gioia di trionfare comunque: peggio di favolette raccontate a bambini in una serata di tempesta vicino al fuoco per alleviare la loro paura. A proposito dell’irrazionalità di queste giustificazioni, le conclusioni avanzate da Pierre Bayle già all’inizio del XVIII secolo non sembrano evitabili. Egli argomenta che la presenza del dolore e della sofferenza nelle nostre vite mette definitivamente in crisi l’idea di un autore della natura onnipotente e benevolo: infatti, se la sofferenza è un dato del nostro mondo si deve concludere che Dio non è  così onnipotente come si crede, oppure è malvagio. Non accettabile mi sembra anche l’altra giustificazione teistica della sofferenza, quella che la vede come una punizione divina rivolta ai malvagi. Questa tesi è ovviamente falsa, poiché sappiamo fin troppo bene che dalla sofferenza non sono risparmiati neppure i bambini innocenti che stanno per concludere la loro vita, o animali non umani del tutto inconsapevoli e pacifici, senza che ci sia nessuna giustificazione etica possibile alla distribuzione della sofferenza. Più radicalmente: a me sembra che la mentalità di un Dio giustificato a farci soffrire per punirci  delle nostre colpe o in questa vita o in un’altra non può non essere considerata moralmente ripugnante; e una concezione profondamente barbara la considerava infatti John Stuart Mill, quando nella sua autobiografia spiegava le ragioni del suo ateismo. Speriamo che la cultura umana possa in futuro contare su forme di civilizzazione capaci di liberarci da queste credenze malvagie legate ad istinti, quali la vendetta o la legge del taglione, spesso attribuiti alla condotta divina secondo le rivelazioni delle grandi religioni monoteistiche. Ma - come ha argomentato convincentemente Sigmund Freud - non c‘è da illudersi, data la profondità nella nostra psicologia di cariche negative come l’aggressività e il risentimento; e già prima di lui  Hume era altrettanto convinto che la natura umana fosse fatta di un impasto di lupo e colomba.

Una volta che siamo consapevoli, come dovremmo, che la sofferenza è un male, non dovremmo farci manipolare dai fanatici e dai cinici fatalisti con discorsi del tipo ‘la sofferenza è inevitabile’ o - orrendo pensiero – ‘la sofferenza è meritata’. Si tratterà piuttosto di agire per ridurre le situazioni in cui gli esseri umani (e in realtà tutti gli esseri viventi consapevoli) subiscono sofferenze non volute per la condotta di altri esseri umani. Nessuna fedeltà ad un principio può giustificare una nostra condotta per la quale facciamo patire ad un’ altra persona umana una sofferenza che va contro la sua volontà.

 

4) Cos’è per lei la morte?

Naturalmente distinguerei tra la morte delle altre persone, in particolare quelle che mi sono care, e la mia morte. La morte delle altre persone è una esperienza drammatica e talvolta insuperabile nel senso che cambia radicalmente o distrugge la propria esistenza: al solo pensare alla morte di una persona alla quale siamo profondamente legati da molto tempo ci spauriamo e sentiamo che non riusciremo più a vivere. Su di un piano meno personale possiamo fare poco, tranne aiutare il tempo nella sua capacità di consolare. Ma sia per quello che riguarda la propria morte come per quello che riguarda la morte altrui, forse dobbiamo fare di tutto per mantenere la consapevolezza che, per quanto si tratti di una inevitabile e di certo tragica conclusione delle vite umane, ancora più tremenda è quella morte che per mancanza di sensibilità di coloro che sono vicini al morente si realizza con un processo che il morente stesso in mille modi ha rifiutato, vivendolo come un modo non dignitoso di morire.

Per quello che riguarda la mia morte, essa è una situazione largamente prevedibile e inevitabile, di conseguenza si tratta di una situazione relativamente alla quale non posso restare completamente passivo. Ritengo infatti che la mia generazione abbia tra i suoi compiti quello di affrontare la questione del proprio morire come una questione eticamente rilevante: poiché oggi non si sa più cosa voglia dire ‘morte naturale’, non possiamo più affidarci alla convinzione che a stabilire la nostra morte sarà la natura.  Ovviamente non siamo in grado di prevedere né quando né come moriremo, tuttavia ci sono certe eventualità della nostra morte non solo possibili ma in realtà probabili, sulle quali non possiamo non riflettere per cercare di affrontarle responsabilmente. Da una parte dobbiamo prevedere situazioni in cui, consapevoli, dovremo avere la forza di rinunciare alle cure inutili che in un paese cattolico vorranno comunque infliggerci, sulla base di una concezione della positività della sopravvivenza comunque, concezione che non è la mia e che non ha dalla sua nessuna giustificazione morale. Come ho già detto, non potrò che essere io a stabilire consapevolmente la utilità di subire determinate sofferenze o meno, ma non posso al contempo evitare di prepararmi responsabilmente anche all’eventualità in cui la mia morte avvenga alla fine di un periodo più o meno lungo durante il quale vi è una completa perdita di consapevolezza da parte mia; durante tutto questo periodo immagino di dover trascinare una vita puramente vegetativa con l’aiuto di strumenti che vicariano le funzioni essenziali per giorni, settimane, mesi o anni. Questa condizione per la mia morte mi sembra eticamente inaccettabile - del resto, la difesa della libertà naturale, tra gli altri, è stata chiaramente argomentata già a metà del secolo XVIII da David Hume nel saggio sul suicidio - sia per un dovere verso me stesso e la mia idea su come è dignitoso vivere, sia per un dovere verso gli altri, quelli che ci sono più vicini ma anche l’insieme della comunità in cui viviamo, sulle cui vite penso non si debba pesare al di là  di certi limiti. So che queste mie convinzioni, compresa quella per cui ritengo giusta la richiesta di essere aiutato a morire in certe condizioni, con una forma di suicidio assistito o di eutanasia, non potranno mai essere realizzate pienamente nella società italiana, che ostacola in tutti i modi con le leggi questa concezione della dignità e dunque della doverosità di poter intervenire a decidere sui modi della propria morte. Mi trovo così a subire la condizione in cui la società in cui vivo, con una inaccettabile forza di intromissione e coercizione in ciò che dovrebbe essere lasciato alla libertà personale, mi nega persino il diritto fondamentale di riempire una direttiva anticipata, con un minimo di valenza effettiva, sottoscrivendo le richieste di cessazione delle cure e dell’uso di strumenti artificiali. Mi sembra che battermi per una trasformazione di questa situazione, scrivendo e parlando in pubblico, sia uno dei compiti che ancora ho la forza di fare. Anche se spesso - come su molte altre questioni che riguardano lo sviluppo dei diritti civili  nel nostro paese - mi viene da pensare che io e altre persone che hanno gli stessi convincimenti siamo stati finora completamente perdenti. Non aiuta certo alla rassegnazione prendersela con la sorte, che ha fatto nascere in un paese illiberale, dominato da una moralità come quella cattolica, me e persone come me che ritengono tale moralità una forma barbara di assolutismo eteronomo. Spesso agli incubi sulla morte si aggiungono gli incubi sul dover morire in una paese spietato, che impone a tutti regole che invadono la loro vita intima e personale. Dunque, non facendomi illusioni e non volendo subire sulla fine della mia vita le coercizioni di uno stato e di una società totalitaria, né volendo affidarmi alla casualità della benevolenza altrui, dovrò ricorrere a strutture ammesse all’estero per porre fine, in certe condizioni, ai miei giorni? Tuttavia sto rinviando ancora di fare tutto ciò che occorre per preparare una tale eventualità, o per una imperdonabile leggerezza  o forse per una residua speranza nella crescita morale della società in cui vivo. Una crescita che richiede che le persone siano lasciate libere di scegliere come morire: accanto a coloro che ritengono di non dover fare nulla o di dover fare di tutto per sopravvivere, spero ancora che presto abbiano cittadinanza anche coloro che ritengono che la loro vita, in certe condizioni, possa considerarsi conclusa. Sono sicuro che prima o poi anche nel nostro paese queste convinzioni saranno accettate, forse troppo tardi per la generazione cui appartengo, che dunque dovrà aspettarsi, oltre alla fatica di prepararsi a morire, anche l’orrore di dover subire quanto non potremo mai accettare come dignitoso.

 

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