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Un'etica senza Dio

Di Eugenio Lecaldano - Marzo 2012
Brani tratti da: Un'etica senza Dio di Eugenio Lecaldano, Editori Laterza, 2006

 

Errori in cui cadono coloro che sostengono che Dio è necessario per l'etica.

Coloro che in buona o in mala fede cercano di imporre l'idea che, affinché gli esseri umani abbiano un'etica, è necessario che credano in un Dio, presentano una concezione fallace e inestricabilmente impregnata di errori e illusioni. In millenni di riflessione umana, una gran quantità di pensatori hanno prodotto obiezioni e argomentazioni volte a smascherare tali errori e illusioni, ma esse non sembrano servite a molto. Esse semplicemente sono state accantonate in buona o mala fede. […]

[…] Chi sostiene che Dio è condizione necessaria per l'etica dovrebbe dirci a quale Dio far riferimento e perché mai dovremmo privilegiare il suo Dio rispetto a quello di altre religioni. A noi, non sembra esserci ragione alcuna al di là - come spiegava John Stuart Mill in La libertà (1859) - della mera casualità storica e biografica che ci ha fatto nascere in un certo tempo e in un certo luogo, e che spiega la rivendicata superiorità della religione alla quale siamo stati educati rispetto a quella di altri popoli (se fossimo nati al Cairo, molto probabilmente saremmo stati musulmani e non cristiani).

Ancora una volta siamo costretti a sottolineare la violazione del carattere universale dell'etica: legare l'etica all'esistenza di un Dio rivelato comporta che essa sia possibile solo per una parte limitata dell'umanità - quella che crede esattamente nel nostro stesso Dio. […]

[…] Ma ammettiamo l'impossibile e cioè che esista un unico Dio fornito di una ragione e di una volontà uniche, da cui si possa far discendere una serie di norme morali, e domandiamoci di nuovo: perché mai coloro che abbracciano tale dottrina ritengono che risalire a Dio sia necessario per condurre una vita etica?

Se proviamo a rispondere a questo interrogativo, ci accorgiamo presto che essi sbagliano proprio nel modo di intendere la vita etica. Infatti, essi solitamente percorrono due diverse strade, entrambe tali da non consentire alcuna fioritura effettiva di una vita etica. Da una parte, essi ritengono che si debba risalire a Dio perché solo Dio può dare un fondamento certo alla morale, intesa come un insieme di leggi e comandamenti promulgati da Dio per tutti gli uomini; dall'altra, essi ritengono che si debba risalire a Dio perché è solo ripercorrendo il piano mediante il quale Dio ha progettato il nostro mondo che riusciremmo a rintracciare le leggi fondamentali che debbono ispirare la nostra vita etica, ovvero quell'insieme di leggi naturali che - proprio in quanto esseri umani moralmente buoni e giusti - non possiamo non seguire.

Ma entrambe le strade, a nostro parere, precludono la possibilità stessa di una vita autenticamente morale e lo argomenteremo in seguito. Intanto, facciamo osservare ciò che è sotto gli occhi di tutti, ovvero che da secoli non c'è accordo su quali siano i comandamenti divini, quale sia la loro corretta interpretazione e chi ne sia il legittimo interprete (basta pensare ai contrasti all'interno del cristianesimo tra i cattolici, che ravvisano nella figura del papa l'unico vero interprete dei comandamenti di Dio, e i protestanti, che considerano i credenti i legittimi interpreti dei Vangeli). L'accordo non si raggiunge neppure su questioni quali quelle poste dalla bioetica: le posizioni tra i soli cristiani, infatti, sono profondamente diverse - l'eutanasia è stata permessa in Olanda, il suicidio assistito è stato consentito in Svizzera e Francia, mentre entrambe le cose sono state assolutamente proibite in Italia; relativamente poi alla nascita e al matrimonio non ci possono essere legislazioni ed etiche più diverse di quelle accettate nell'anglicana Inghilterra e nella cattolica Italia; relativamente all'uso degli anticoncezionali solo la Chiesa cattolica e la sua morale ne proibisce l'uso anche laddove il contagio dell'Aids è una realtà diffusa. Analoghi gradi di diversità sono rintracciabili nel mondo musulmano e nella cultura ebraica. […]

[…] Derivare l'etica da Dio significa concepirla come un insieme di comandi emanati, appunto, da un'autorità, e ciò - in un certo senso - equivale a togliere valore etico alle norme morali. Perché questo non accada, è necessario distinguere le norme morali dalle norme che ricevono il loro valore da una qualche autorità: ad esempio, che sia negativa ogni forma di violenza nei confronti di esseri umani non dipende dal fatto che qualcuno ci comandi o ci ordini di non fare violenza a un qualsiasi essere umano, ma dalla natura etica e universale di una tale norma. Questa norma è etica proprio perché il suo valore è indipendente dal comando di questa o quella autorità, di questo o quel paese o luogo geografico, e perché è distinguibile dalle norme consuetudinarie di una comunità ristretta. La tesi che solo Dio può esserne il fondamento adeguato riduce il comportamento etico di un individuo alla pura obbedienza a un comando, mentre il suo vero fondamento risiede nel carattere autonomo della scelta di un individuo di evitare quelle condotte che producono danni o sofferenze agli altri suoi simili. Spostare l'attenzione al volere di Dio impedisce di prestare attenzione a quello che gli altri patiscono e subiscono, induce un'atrofia morale pericolosa e ostacola lo sviluppo di una effettiva sensibilità etica, spingendo ad attribuire una priorità a ciò che ci è stato decretato essere tale, anche se ormai corrotto e crudele. Chi arriva all'etica attraverso il comando divino finisce con il ridurre la moralità a qualcosa di simile alle regole di un'etichetta che valgono convenzionalmente tra i membri di una società o tra coloro che riconoscono la stessa autorità. Rimane loro estranea la natura universalistica degli obblighi morali che sono validi indipendentemente da ciò che qualcuno ci dice di fare. […]

[…] E’ evidente che, in una contesa su ciò che è bene o giusto fare, non può essere di alcun aiuto che uno dei contendenti rivendichi per sé la pretesa di essere razionale, di esprimere delle posizioni effettivamente universali, e di aver trovato una soluzione universale attingibile con un ricorso a una capacità di percezione intellettuale che permetterà di far convergere diversi punti di vista. Molto di più può fare, in tal senso, l'esperienza sensibile. L'appello alla natura e alle leggi immutabili in essa presenti, allo scopo di orientare la nostra vita morale, equivale a fare appello a un criterio del tutto insoddisfacente e comunque errato. Come chiaramente spiegato da John Stuart Mill nei suoi Saggi sulla religione (1874), la natura comprende tutto (dai serial killer ai santi, dagli egoisti ai generosi) e nella nostra condotta abbiamo sempre cercato di modificare la condizione naturale degli esseri umani. Dunque, pretendere che ci si comporti in modo tale da lasciare che la natura segua il proprio corso o le proprie leggi è solo uno slogan vuoto. Coloro che presentano la loro morale come tesa ad affermare ciò che è naturale per l'uomo in realtà definiscono natura o secondo natura attraverso decisioni preventive e funzionali a quanto vogliono impedire o condannare o concedere.

Ovviamente occultano l'esistenza di tali processi e le reali ragioni che li hanno giustificati, pretendendo di aver sancito con ciò alcuni comportamenti come «assolutamente» e «oggettivamente» cattivi o buoni. Com'è ovvio, il più delle volte chi chiama le leggi naturali a fondamento della moralità le usa come criterio per discriminare tra ciò che è parte delle leggi naturali morali e ciò che non lo è. D'altra parte, la funzione principalmente retorica e persuasiva del ricorso a ciò che è naturale si svela col fatto che spesso l'appello a questo criterio si accompagna all'uso di un altro criterio - estremamente discriminatorio - che è quello di normalità. Si assimila ciò che è naturale a ciò che è normale (talvolta si dice sano o si usano formule analoghe). Ma come si spiega, allora, che alcune religioni considerano naturali e normali alcuni comportamenti, scelte o condotte, mentre altre li considerano immorali?

Fare appello, perciò, al criterio secondo il quale Dio ci indicherebbe di seguire la natura per la nostra condotta porterebbe - come suggeriva Hume nel suo Saggio sul suicidio (1777) - alla bizzarra conclusione che non dobbiamo curarci da una malattia, dato che essa è naturale, così come non dobbiamo evitare di essere investiti da un macigno che in modo assai naturale sta per caderci addosso, né tantomeno cercare salvezza nella fuga da una catastrofe naturale. Dobbiamo solo accettare la volontà di Dio. Una simile impostazione ha conseguenze inaccettabili riguardo alla nascita degli esseri umani. Tuttora, la morale cattolica ci ripete che l'intero processo della nascita deve essere governato dalla natura. Ma perché seguire la natura e non beneficiare la donna dei mezzi disponibili per la fecondazione, l'assistenza durante la gravidanza e il parto? In realtà, il punto essenziale è un altro: se le persone continuano a pensare che la nascita dei loro figli è un processo biologico del tutto indisponibile, in quanto affidato alla natura - e attraverso di essa a Dio e alla sua volontà -, ciò comporta che le scelte e le decisioni procreative saranno del tutto escluse dal raggio della loro responsabilità morale. In questo modo, si sottrae alla responsabilità individuale una delle decisioni più moralmente rilevanti e la si affida completamente all'istinto naturale. Si è giunti così a un incremento demografico che ha superato i sei miliardi e mezzo di individui: una crescita della popolazione inarrestabile che ha provocato e provoca povertà, alta mortalità infantile, peggioramento delle condizioni ambientali. E questo un altro caso in cui la sopravvivenza umana, lungi dal dover seguire una presunta regola dettata dalla natura, deve allontanarsene.
Un'ultima considerazione: se anche ammettessimo di essere d'accordo nell'identificare nell'universo che ci circonda la legge morale naturale che Dio vi ha inscritto, sarebbe comunque uno sbaglio considerare tale scoperta una risposta alle nostre questioni etiche. L'etica, infatti, si occupa di ciò che deve essere, di ciò che pensiamo debba essere il futuro nostro e dei nostri simili, di ciò che sarebbe giusto e buono che gli esseri umani facessero per cercare di realizzare condizioni migliori di vita, evitando le sofferenze e la tendenza a danneggiarci reciprocamente. […]

[…] Ciò che prima di tutto vogliamo contrastare è il pregiudizio ampiamente diffuso che un miscredente o un ateo non possa essere un individuo morale. Questo pregiudizio che nega la possibilità di un ateo virtuoso fu contestato tra il XVII e il XVIII secolo da pensatori come Pierre Bayle (1647-1706), Paul-Henry Dietrich d'Holbach (1723-1789), ma sembrano riflessioni vane, visto come la tentazione alla semplificazione torna periodicamente a conquistare le menti degli ignoranti. Naturalmente, non vogliamo sostituire al pregiudizio dell’impossibilità che un individuo sia ateo e contemporaneamente virtuoso quello secondo cui basta essere ateo per essere virtuoso.

Come argomenteremo in seguito, un'etica senza Dio può riconoscere senza reticenze l'origine naturale della moralità e rintracciare le sue radici in un nucleo di sentimenti ed emozioni molto umane e terrene, piuttosto che nella sua pretesa origine divina. Muovendo da questa concezione, nell'identificare il carattere di un individuo si tenderà a sottodeterminare il peso delle sue credenze intellettuali e si stimerà determinante alla definizione del suo carattere ciò che egli fa. Da questo punto di vista, non è la fede o l'adesione intellettuale a certi principi a fare la differenza sotto il profilo morale, ma il modo concreto col quale egli entra in rapporto con gli altri nella sua condotta pratica. Mentre credere che Dio non esiste non ha alcuna incidenza sul carattere morale di un individuo, credere il contrario e credere che è da lui soltanto che discendono e si legittimano i nostri valori e doveri morali potrebbe avere una influenza non secondaria sul modo in cui psicologicamente l'individuo si rapporta agli altri. Infatti, un'educazione centrata sull'esposizione ripetuta a principi e regole imposti dall'esterno potrebbe incidere - non positivamente - sul formarsi della personalità di un individuo. La fedeltà accordata alla legge divina impedirà da una parte che la sua condotta etica sia orientata in modo immediato e diretto dalla sensibilità alle sofferenze dei suoi simili, e dall'altra che si ritenga individualmente responsabile delle sue scelte. La sua condotta sarà, inoltre, prevalentemente condizionata da una preoccupazione retributiva piuttosto che dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze degli altri. Siccome peccare è offendere la volontà divina, la trasgressione di una qualsiasi delle leggi di Dio costituisce sempre una colpa ugualmente grave. Rispetto alla sessualità, per la morale cattolica - ad esempio - è colpa grave la masturbazione perché lesiva dell'ordine naturale voluto dal creatore, così come lo sono i rapporti sessuali tra adulti, considerati leciti solo se naturali; è colpa grave l'uso del profilattico, considerato un crimine morale in quanto indebita interruzione e deviazione del corso naturale delle potenzialità procreative della coppia, come pure lo sono l'aborto e l'eutanasia attiva volontaria, entrambi considerati omologhi dell'omicidio. Solo a Dio è concesso il perdono per questi atti, un perdono incomprensibile agli occhi di chi concepisce la responsabilità come cosa umana.

Come abbiamo già detto, l'alternativa motivazionale della punizione e del premio in cui si dibatte il credente non pare una motivazione adatta a promuovere una condotta autenticamente etica. Sembra chiudere il credente in una logica egocentrica ed egoistica, troppo preoccupata della salvezza e del destino personale per potersi aprire a quell'orizzonte imparziale - in quanto volto alla generalità degli individui - che costituisce lo sfondo alla condotta etica. A questo orizzonte, proprio della moralità che caratterizza la specie umana e alcune altre specie viventi, ci si può invece aprire facendo prevalere le emozioni, i sentimenti che si originano dalla naturale vicinanza degli esseri umani.

 

Come può essere costruita un’etica senza alcun riferimento a un Dio?

[…] Noi sosteniamo che solo chi si libera dai dettami religiosi riesce a guadagnare quella condizione che è indispensabile perché vi sia effettivamente una qualche specie di responsabilità morale. Potremmo leggere il mito della caduta della coppia primigenia di Adamo ed Eva e la loro scelta di mangiare il frutto dell'albero del bene e del male come la rappresentazione della contrapposizione tra una vita governata dalla responsabilità morale e una vita governata dal volere di Dio. L'acquisizione da parte di ciascuno di noi di una vera e propria capacità di essere moralmente responsabile richiede proprio l'autonomia nella scelta. Per essere moralmente responsabili dobbiamo liberarci non solo dal volere di Dio, ma dai più terreni condizionamenti (genitori, amici, maestri, ecc.). Accediamo all'etica quando la nostra condotta non è più spiegata e giustificata con frasi come «ho fatto questo perché me l'ha detto mio padre, il mio confessore, ecc.», «ho fatto questo perché si accorda con quanto accettano i miei concittadini», «cosa volete che c'entri io con le condizioni di vita dei miei figli, la loro nascita è stata decisa dalla natura», ecc. Queste giustificazioni non possono valere come attenuanti nel momento in cui ci impegniamo a dare una valutazione morale della condotta nostra o di un'altra persona. Non sono forse stati commessi i più grandi crimini avanzando a giustificazione dei propri atti l'obbedienza ai comandi e alle imposizioni di altri, o la preoccupazione di uniformarsi a quello che faceva la moltitudine? Solo quando un individuo assume su di sé la responsabilità di ciò che ha fatto, avanzando le sue ragioni, testimonia il suo accesso alla sfera morale. E proprio sotto questo profilo che appare netta la divaricazione tra prospettiva morale e prospettiva religiosa: la stessa possibilità di essere un soggetto moralmente responsabile richiede dal nostro punto di vista un atto di auto-affermazione, di consapevolezza, di autonomia e libertà individuali, laddove la prospettiva religiosa è spesso incline a condannare tale condizione come un peccato di orgoglio, una sorta di peccato originale. […]

Un'etica che si libera dall'illusione di ricavare da un Dio regole e principi non solo può trovare spazio per l'autonomia individuale nella quale radicare il senso di responsabilità, ma, nel modo in cui ricostruisce il realizzarsi di una consapevolezza della libertà personale, rintraccia anche quella dimensione di apertura verso gli altri che caratterizza la morale della specie umana. Infatti, la realizzazione di quella crescita personale, che è prerequisito necessario per rendere possibile un'effettiva responsabilità morale individuale, non passa solo attraverso la consapevolezza della propria autonomia e libertà, ma procede anche attraverso una peculiare sensibilità e un'attenzione verso gli altri. […]

[…] E stato ampiamente spiegato dai filosofi e dagli scienziati naturalisti dal XVIII secolo in avanti, da David Hume a Charles Darwin (1809-1882), da John Mackie (1917-1981) a Richard Dawkins, da Daniel Dennett a Simon Blackburn, da Stephen Gould (1941-2002) a Peter Singer, che, nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri moralmente responsabili, questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza delle sofferenze e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all'altrui sofferenza, da alleviare o eliminare. Questo processo naturale di formazione della soggettività morale non richiede alcun appello a un nostro posto speciale nel creato e non ha alcun bisogno di trovare conforto nel riconoscimento di una nostra comune natura di creature e di figli prediletti di Dio. […]

[…] Ma vi è, secondo un diverso paradigma di riflessione filosofica, un altro aspetto della natura umana cui un'etica senza Dio può richiamarsi: la ragione. Molti pensatori, da Kant a John Rawls (1921-2002), da Voltaire a Habermas, da Bentham a Singer, indicano proprio nella ragione ciò che permette agli esseri umani di avere una vita morale. È la ragione, infatti, ciò che ci permette di apprezzare la superiorità di un punto di vista che non esprima o tuteli l'interesse particolare nostro o di qualcuno, ma costituisca piuttosto la regola, la norma, che esprima e tuteli l'interesse di tutti.

Alla luce di ciò, non si comprende per quale motivo l'etica debba essere sottratta al suo naturale contesto e resa dipendente da improbabili regni trascendenti. Del resto, quasi ogni angolo della nostra vita è governato dalle nostre emozioni e dal nostro raziocinio ed è tempo ci si accorga che anche l'etica è una pratica inclusa nella nostra quotidianità e parte della nostra storia sulla terra. Volgersi alle emozioni e alle capacità razionali rappresenterà per noi una via più sicura e diretta di quella che ci chiede di volgerci lontano per cercare fuori della nostra vita reale la soluzione ai nostri dilemmi. È tempo di rifiutare l'invito di chi vuole che noi si continui a evadere dalla realtà e dalle nostre responsabilità in attesa di soluzioni che verranno da un deus ex machina il cui volere - affidato all'interpretazione di una casta speciale - non è sempre garanzia di miglioramento e tutela delle nostre esistenze ed esigenze.

 

Eugenio Lecaldano
Da: Un'etica senza Dio di Eugenio Lecaldano, Editori Laterza, 2006

 

Un'etica senza Dio di Eugenio LecaldanoQuesto è un libro filosofico, interessato a influenzare niente altro che le riflessioni. Non ambisce a portare a termine l'impossibile cerimonia di seppellire Dio, né vuole assumere un ruolo diretto sul piano politico o giuridico e neanche presentare dogmi nei quali si possano riconoscere gli atei per costituire la chiesa di coloro che sono senza chiesa. Questo libro muove dalla fiducia che la civiltà del nostro paese permetterà di accogliere le idee di coloro che sostengono esplicitamente che la morale e i valori sono qualcosa che non solo può unire credenti e non credenti, ma esige da tutti noi un surplus di indipendenza e di autonomia, da realizzare vivendo come se Dio non esistesse.

 

Indice

 

- Introduzione
- Parte prima:
1. Errori in cui cadono coloro che sostengono che Dio è necessario per l’etica.
2. Come può essere costruita un’etica senza alcun riferimento a un Dio?
- Parte seconda - I testi:
Sulla critica delle prove dell’esistenza di Dio - Sulla critica della rivelazione e dei monoteismi - Sulla critica alla riduzione della moralità a comandi divini - Sulla difficoltà nell’appello dell’etica religiosa alle leggi naturali e alla retta ragione - Sulle difficoltà della religione nello spiegare l’origine del male - Sul carattere morale del credente e le virtù dell’ateo - Sull’etica senza Dio e l’autonomia, la sensibilità verso gli altri - Sulla genealogia della religione e dell’idea di Dio - Sulla continuità o discontinuità tra etica religiosa e non religiosa
- Bibliografia ragionata

 

Un'etica senza Dio di Eugenio LecaldanoEugenio Lecaldano è professore di Filosofia Morale nella facoltà di Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza e, presso la stessa università, direttore del Master in Etica Pratica e Bioetica.

Fa parte del Comitato direttivo di importanti riviste: «Rivista di Filosofia», «Iride. Filosofia e discussione pubblica», «Bioetica. Rivista interdisciplinare» e dell'Editorial Board degli «Hume Studies». Tra le sue pubblicazioni edite da Laterza si ricordano: Hume e la nascita dell'etica contemporanea, 1991; Dizionario di bioetica, 2002; Bioetica. Le scelte morali, 2005; Un'etica senza Dio, 2006; Prima lezione di filosofia morale, 2010.

 

Suggeriamo l'intervista al Professore Lecaldano presente nella rubrica "Riflessioni sul Senso della Vita".

 

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