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I non guru del non culto del non metodo

di Isabella di Soragna - Jubal editore

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Visitavo un giorno il centro Friedrich Dürrenmatt, noto scrittore svizzero ed ammiravo i suoi dipinti surreali. Accanto vi erano anche didascalie ed una frase, tratta da un suo scritto, il Soliloquio, mi colpì: “È solo quando non sono pensato che sono quello che sono: nulla”.
Quanti altri personaggi o sconosciuti sono arrivati a questa conclusione? Non a causa di uno stato depressivo o di un’ambizione filosofica, semplicemente perché era la fine di un’investigazione profonda e coraggiosa.
Nella mia lunga ed appassionata ricerca dall’infanzia ad ora è passato più di mezzo secolo, eppure la mia convinzione infantile, intima, non imparata, è rimasta la stessa.
La domanda “chi o che cosa sono e che cos’è il mondo” mi ha portato a navigare in tutte le religioni più o meno conosciute, a incontrare psicologi, scienziati e sciamani per entrare nel vivo di essa ed estrarne il nettare che potesse estinguere la mia sete.
Parlo di me come esempio, ma potrei parlare di chiunque altro che me lo avesse raccontato.
Vi è un denominatore comune che appare al momento in cui ci si affaccia su questo annullamento ed è quando, avendo scartato ogni possibile spiegazione o causa, si arriva in un limbo dove il pensiero è totalmente assente. Anche il senso di essere non ha più luogo. Molti si fermano impauriti perché a quel punto non ci sono più punti di riferimento, per altri anche il concetto di “nulla” è appunto un pensiero che ha un valore relativo, transitorio e inconsistente, su cui non si può contare.
È il pensiero di esistere, di essere coscienti a creare la paura della morte, ma allo stesso tempo non si osa retrocedere ulteriormente, anche se questo potrebbe significare la fine del dolore, come diceva Jiddu Krishnamurti.
La conseguente ricerca, che ci spinge paradossalmente “fuori” è solo un’idea di noi stessi che cerca un’altra idea su cui appoggiarsi per sopprimere questa paura, ma è un girare a vuoto che al contrario aumenta l’ansia esistenziale. Essa termina solo quando si realizza che non c’è “io sono”, tranne nel pensiero.
La maggioranza dei cosiddetti saggi, maestri o guru ha spinto la ricerca fino ad arrivare alla cosiddetta consapevolezza totale, ad un senso d’unione con quanto esiste e in questo sentimento di beatitudine fetale si è fermata. In seguito, hanno cominciato a raccontarlo a folle di ricercatori e, pur avendo realizzato più o meno consciamente che questo stato era transitorio come qualunque altro, hanno continuato ad intrattenere la cosiddetta relazione guru-discepolo, che è non è applicata solo allo stereotipo del saggio indiano, ma a sacerdoti, psicologi, terapeuti o ad altri salvatori dell’umanità.
La paura dell’annullamento riguarda la mente, il pensiero che vuole definire e quindi separare, e non accetta di rinunciare al suo baluardo, vuole dei bastioni di difesa e allo stesso tempo fa di tutto per mollare gli ormeggi e perdersi nel mare di un’attività continua, l’alcool, la droga, l’unione mistica e quant’altro.
La relazione col guru rivela notoriamente, nel linguaggio psicologico, il bisogno di radici, di un sostegno, che ha le vesti di un padre protettore dall’infanzia fino all’adolescenza. In seguito, le domande ancora senza risposta si dirigono verso chi potrebbe risolvere il problema della sofferenza, ma esso si rivela spesso fonte di manchevolezze, di abusi e di sottili giochi di potere. Infine per alcuni esseri privilegiati la domanda si spegne per un’intuizione improvvisa, che brucia tutto il sapere accumulato: per loro si è trattato a volte di un incontro, di uno stato di estremo pericolo, di una frase che li ha colti di sorpresa. In ogni caso, è avvenuto spontaneamente e non era dovuto a cause anteriori, né a pratiche intense: è accaduto semplicemente.
È di costoro che vorrei parlarvi nei prossimi capitoli. Sono persone semplici, artisti, devoti, scienziati, filosofi che hanno fatto il salto nello sconosciuto, come direbbe Castaneda, senza rete di protezione ed hanno risolto il problema della sofferenza.
Non serve cercare di imitarli, né lo vorrebbero, perché considerano l’essere umano – malgrado la non-separazione di cui sono totalmente convinti – unico e con un programma o destino particolare da attuare nello spazio-tempo: destino che pur resta qualcosa di relativo e apparente, sia per gli scienziati moderni che per i mistici.
Quello che li accomuna è la totale comprensione dell’illusione di uno spazio-tempo esterno alla loro mente, vuoi in seguito alla ricerca scientifica, come Einstein, Bohr e Schrödinger, vuoi per un’intuizione mistica, come Meister Eckhart, vuoi come frutto di anni di esperienze vissute da pazienti, come dimostrò Stanislav Grof, uno dei padri della psicologia transpersonale.
Sono solo altoparlanti, che alcuni riescono a sentire e altri no, perché non sono in sintonia.
Se lo spazio-tempo è un’illusione o per lo meno una convenzione, così lo sono le esperienze di qualunque genere che ne derivano, dal momento che sono possibili solo tramite queste coordinate. Allo stesso modo è immaginaria qualsiasi nozione di evoluzione o di progresso e quanto riguarda la radice di tutto questo: il pensiero concettuale, lineare, che crea dimensioni, paragoni e, in poche parole, la storia.
Non tutti hanno bruciato totalmente la loro storia personale, mostrandone la precarietà secondo la nuova visione, ma l’importante è che hanno dato alcune valide indicazioni a chi si sentiva perso in un mondo ostile e alieno, spronandolo ad investigare, a sprofondare in se stesso.

 

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