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Erich Fromm - Psicanalisi e Religione (1950)

Edizioni di Comunità, Saggi di cultura contemporanea n. 3, Milano

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E’ molto significativo che il primo libro che porta nel titolo la parola “Psychologia” (Rudolf Goekel, 1590) abbia per sottotitolo la frase Hoc est de Perfectione Hominis. La tradizione raggiunse il suo culmine nell’età dei lumi. I filosofi illuministi che erano insieme degli studiosi dell’anima umana, credevano nella ragione ed esaltavano l’indipendenza dell’uomo sia in senso politico, sia nei confronti della superstizione e dell’ignoranza. Nel campo psicologico partivano dalla domanda: quali sono le condizioni per essere felici? E rispondevano in sostanza che l’uomo può ottenere la felicità e essere spiritualmente sano soltanto quando abbia realizzato la libertà interiore. Ma nel corso delle ultime generazioni il razionalismo illuministico ha subito una trasformazione radicale. Inebriato dalla sua nuova prosperità materiale, e dai propri successi nel dominare la natura, l’uomo ha smesso di considerarsi il cardine stesso della vita e di ogni indagine teoretica. Al posto della ragione - la facoltà che cerca il vero e penetra dalla superficie dei fenomeni alla loro realtà intima - si è collocato l’intelletto, un semplice strumento per manipolare cose e uomini. Che la forza della ragione basti a conferire validità alle norme e ai criteri che regolano la nostra condotta, oggi non lo si crede più.
Tale mutato clima intellettuale ed emotivo ha avuto una profonda influenza sullo sviluppo della psicologia intesa come scienza. Malgrado la comparsa di alcune figure eccezionali, come Nietzsche e Kierkegaard, il concetto tradizionale che la psicologia debba occuparsi della virtù e della felicità è stato abbandonato. La psicologia accademica s’è messa in gara con le scienze naturali, copiando i loro metodi di laboratorio, e prendendo anch’essa a pesare e a contare; e nel far questo s’è occupata d’ogni genere di cose, tranne che dell’anima. Dell’uomo ha cercato di studiare solo quegli aspetti che si possono studiare in un laboratorio, dichiarando che tutti gli altri, come la coscienza, i giudizi di valore, la conoscenza del bene e del male, sono concetti metafisici e perciò estranei al campo della psicologia. Così i cultori di questa disciplina si sono spesso occupati di questioni insignificanti, purché si prestassero a una pretesa impostazione scientifica, piuttosto che cercare nuovi metodi di studio dei problemi umani che veramente importano. La psicologia è diventata dunque una scienza priva del suo oggetto principale: l’anima dell’uomo. Ci parla bensì di meccanismi, reazioni acquisite, istinti, ma non ha nulla da dirci su quei fenomeni più schiettamente umaniche sono l’amore, la ragione, la coscienza e il senso dei valori. In questo saggio uso la parola anima, anziché “psiche”, proprio per il fatto che essa contiene un riferimento più esplicito a tali facoltà umane.
Freud fu l’ultimo grande rappresentante del razionalismo illuministico, e il primo critico che ne rivelò i limiti, interrompendo gli inni di trionfo del puro intelletto, e mostrando come la ragione, che è la facoltà più pregiata e singolare dell’uomo, sia tuttavia sottoposta all’effetto deformante delle passioni. Solo imparando a comprendere le passioni dell’uomo è possibile liberare la sua ragione e consentirle di funzionare pienamente. Freud mostrò che la ragione è potente per un verso e debole per un altro, e adottò come principio fondamentale d’una nuova terapia il detto evangelico “la verità vi farà liberi”.
In un primo momento Freud pensava di doversi occupare soltanto di certe forme di malattia e della relativa cura. Ma poi si rese conto a mano a mano di essere uscito dalla sfera della medicina e di essersi così riattaccato alla tradizione classica e illuministica per cui la psicologia, o lo studio dell’anima umana, deve fornire un fondamento teoretico all’arte di vivere e di conseguire la felicità.
Il metodo di Freud, la psicanalisi, consente uno studio intimo e dettagliato dell’anima. Nel suo “laboratorio” l’analista non tiene strumenti meccanici, e non fa pesature e conteggi; ma studia invece i sogni, le fantasie, le associazioni dei pazienti, e impara a conoscerne i desideri e le angosce segrete. Affidandosi soltanto all’osservazione diretta, alla ragione e alla propria esperienza di uomo, l’analista non tarda a rendersi conto che è impossibile capire la natura delle malattie mentali senza metterle in relazione con i problemi morali; e che i suoi pazienti si sono ammalati proprio perché hanno trascurato le esigenze della propria anima. L’analista non è un filosofo né un teologo, e non rivendica alcuna speciale autorità nei rispettivi campi di studio; ma in quanto medico dell’anima egli si occupa degli stessi problemi. Si può dire dunque che ci sono oggi due gruppi di professionisti che si interessano per mestiere all’anima umana: i preti e gli psicanalisti. Come dobbiamo concepire i loro rapporti? Si deve pensare che lo psicanalista cerchi di invadere il terreno del prete creando una inevitabile rivalità? O non si tratta piuttosto di alleati, le cui attività hanno un fine comune e possono e debbono integrarsi e compenetrarsi a vicenda, sia in teoria sia in pratica?

 

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