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Perché la filosofia?

di Domenico Pimpinella – ottobre 2007

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Non so quante persone si pongano oggi una simile domanda. Sicuramente non molti. Ugualmente, si può essere certi che tanti darebbero risposte come: “per soddisfare la nostra meraviglia” (quando c’è); o anche (nel peggiore dei casi) “che la Filosofia non serve a nulla”.
E’ dai tempi di Aristotele che si crede che l’”amore per la sapienza” ci derivi indubitabilmente dalla meraviglia, da quel primordiale stupore sgorgato come acqua di fonte da una consapevolezza che, a differenza degli altri animali, ci consente di starcene sul davanzale del mondo a scrutale l’inessenziale. Così da questa condizione, da una nuova e più ampia coscienza sarebbe nata per alcuni l’esigenza di spiegare, a volte ricorrendo a complicati ragionamenti, enti, relazioni, situazioni, emozioni che non ci sono immediatamente comprensibili, ma delle cui spiegazioni si potrebbe, tutto sommato, anche fare a meno.
Potremmo anche sostenere che la Filosofia è stata la necessaria anticamera della Scienza: una primordiale radura da cui si sono poi originati i vari sentieri della Scienza, divenuti oggi larghe autostrade. Partendo da qui si potrebbe capire perché qualche nostalgico ogni tanto senta il bisogno di ritornarvi: per cercare di cogliere una bellezza che sembrerebbe essersi smarrita tra le pieghe di una frammentazione, di un riduzionismo che ci consente di vedere oramai solo particolari. Ma anche dopo questa risposta non vi è dubbio che in troppi continuerebbero a rispondere con una scettica alzata di spalla.
Non credo neanche che servirebbe ricordare che vi sono stati filosofi di una certa concretezza che ad un certo punto hanno detto basta! Smettiamola di contemplare il mondo e diamoci da fare per trasformarlo. Ne sono seguite trasformazioni sociali che non ci hanno fatto vivere meglio, né hanno smorzato quel bisogno interiore di alcuni di interrogarsi, di riuscire a cogliere razionalmente le vere motivazioni per trascorrere una vita serena e felice.
Ma allora, perché la Filosofia? Che anche se spesso agonizzante continua a risorgere come una Fenice dalle proprie ceneri, grazie a isolati lampi di genio.
Si potrebbe rispondere che la Filosofia è legata all’accresciuta capacità dell’uomo di andare oltre quello stare qui ed ora che la conoscenza emotiva ci consente da sempre. Kant lo ha infatti rilevato, sostenendo che la razionalità non può essere emersa solo per migliorare le possibilità di sopravvivenza. Eppure, ad analizzare puntigliosamente le nostre singole esistenze si evince facilmente una smentita ad una tale riflessione. Sempre più infatti le vediamo ridotte ad un mero sopravvivere, complicato magari dall’arricchimento a dismisura di agi e piaceri o dalla loro totale mancanza; avvelenato da competizioni dissennate, da violenze e dolori di ogni genere. Considerazioni che ci inducono a ritenere che in qualunque situazione insoddisfacente siamo finora venuti a trovarci non abbiamo mai saputo cogliere un modo davvero risolutivo per uscirne. Così la sensazione che le cose non vanno come dovrebbero; che potremmo considerare modi diversi di vivere sembrerebbe più che giustificata. Su di essa però la quasi totalità degli uomini scivola silenziosa; solo qualcuno, di tanto in tanto, arriva a perderci la testa. Il filosofo è il solo che sembrerebbe colto da profonde vertigini all’idea che ci potrebbero essere modi di vivere ancora inesplorati. Vertigini che sembrerebbero seconde solo a quelle derivanti dalla domanda ritenuta da sempre la regina della Filosofia: “Perché le cose e non il nulla?”. In entrambi i casi è come camminare sul vuoto abissale dell’impossibilità di una risposta risolutiva.
Forse non sarebbe sbagliato ritenere che dal momento stesso in cui la conoscenza razionale ha iniziato a prendere un certo sopravvento sulla conoscenza emotiva si è iniziato a fare i conti con una mancanza di senso che è diventata man mano sempre più opprimente e dolorosa. La stessa consapevolezza bambina delle origini deve aver rilevato questa anomalia, adoperandosi subito per mettervi riparo. Così la prima risposta che la stessa razionalità avrebbe approntato sembrerebbe quella “religiosa”. In essa si è iniziato ad intrecciare innumerevoli sensazioni, interpretate alla buona, creando scorsi metaforici ricchi di elementi mitici e fantastici; capaci ancora oggi di reggere l’urto di una consapevolezza più matura.
Non si può non riconoscere che è fondamentalmente in questo modo che siamo riusciti a sopperire, in un primo momento, ad una mancanza di senso razionale abbinata ad una disarmante finitezza che ci è ha colpito in pieno viso come una porta chiusa fragorosamente, alimentando a dismisura paure ed ansie di ogni genere. Situazione che, in quella buia notte dei tempi,  siamo riusciti a calmare, a tenere sotto controllo, con un’idea semplice quanto potente: l’anima, una res incorruttibile ed eterna allocata nel corpo in grado di continuare da sola un cammino che altrimenti avremmo continuato a vedere inesorabilmente interrotto dalla morte.
Viste oggi, tutte le religioni, non possono che essere considerate delle patetiche quanto evidenti bugie che hanno avuto il grande pregio di non farci smarrire, di consentirci di riprenderci, di darci modo di recuperare un assetto psicologico che, altrimenti,  avrebbe potuto portarci nella più devastante disperazione.
La razionalità incerta degli inizi non poteva fare di meglio; anche se impropriamente le religioni sono considerate soluzioni dateci da una conoscenza pre-razionale. Non è così! Le religioni sono evidenti costrutti della razionalità che fin dalle origini ha avuto bisogno di darsi delle motivazioni per riempire un vuoto di senso venuto meno con quella “condanna alla libertà” di cui ha parlato Sartre.
Queste cose dobbiamo dircele, spinti dalla consapevolezza che quelle bugie un tempo necessarie stanno ora sbarrando colpevolmente il passo ad una magnifica storia biologica giunta fino a noi, che ha avuto i suoi momenti critici nel passaggio della prevalenza da una tipologia conoscitiva ad un’altra.
A sbarrarci oggi questo glorioso cammino, oltre alle rabberciate risposte religiose, vi sono però anche (almeno fino a qualche decennio fa) quelle di una razionalità matura fattasi scienza. Fin dal suo inizio, infatti, la scienza, che come sappiamo è nata dalla costola della Fisica, ha operato (com’era giusto che fosse) per una depurazione individuale consistente nello scorporo dell’anima dalla nostra essenza. Un’operazione necessaria per riportare di nuovo tutto qui sulla terra (ridotta dalla religione a diventare anticamera di una improbabile vita immateriale) e farci assumere da protagonisti le nostre responsabilità. Purtroppo, anche questo bisogna ammetterlo, la Scienza è caduta nell’errore di fondare quasi tutti i sui teoremi su un fideismo altrettanto fuorviante ed alienante, per il modo preconcetto di immedesimarci con le cose inerti, gli oggetti  di cui appunto si occupa la Fisica e la Chimica. L’errore della scienza è stato pretendere di sostituire un puro principio causale (come è perlopiù considerato il Dio delle religioni) con un’altrettanta pura casualità, con l’annullamento di ogni pretesa teleologica. L’esistenza del singolo essere pluricellulare si è in questo modo sempre più svilita, ridotta (volendo usare le parole di Dawkins) a mero contenitore con il compito di portare a spasso i propri geni.
Alimentando continuamente la crescita tecnologica, la scienza ci ha messi in grado di procurarci un crescendo di piaceri che, pian piano, ha sostituito nell’immaginario dell’uomo il paradiso celeste con un nuovo Eden. La felicità ci è sembrata di nuovo a portata di mano, capaci di afferrarla, in barba alla austera divinità che ce l’aveva proibita.
Come non renderci conto, alla luce dei fatti, che le risposte della razionalità alla perdita di una mancanza di senso sono state, sia prima che dopo, costruite nella convinzione che dovessero soddisfare un’individualità monolitica, soggettiva. E’ per questo motivo che non siamo potuti sfuggire all’illusione di credere nell’eternità di un’improbabile anima o in una vita terrena ricca di piaceri, proiettata, grazie alla Medicina,  verso il superamento stesso della morte.
Riflettendo sulle risposte date, meditando sulle richieste che ancora premono dalla base inconscia della razionalità, emerge lentamente ma inesorabilmente l’errore di esserci fermati al singolo; di averlo saputo cogliere solo nella sua compiutezza passata: in quanto culmine di un processo di socializzazione che ha consentito alle nostre cellule di costruire insieme una nuova e più complessa unità esistenziale. Peccato non averne colto con la medesima chiarezza anche le aspirazioni autentiche, la necessità inderogabile di doverci anche noi, come hanno fatto in passato le nostre cellule, trascendere collettivamente in una nuova forma sociale più ampia e complessa.

 

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