Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Il Nietzsche dialettico
di Davide Manocchio - Giugno 2014
Creare significa fare qualcosa che prima non esisteva. Sovente l’errore di chi vuol prodigarsi nel creare qualcosa di nuovo è quello di ricondursi alla tradizione, e quindi alla fine non crea ma al massimo trasfigura, riprogetta, rimescola le carte in una nuova disposizione, ma per quante figure si sforzi d’immaginare le carte rimarranno sempre le stesse, così come il piano d’appoggio sul quale adagiarle sarà sempre il medesimo sfondo.
L’intento di tutta la filosofia di Nietzsche, fin dalla sua prima e forse unica opera organica, ‘La nascita della tragedia’, è stato quello di voler creare un nuovo modello di riferimento per tutto il pensiero occidentale sulle macerie dei suoi stessi idoli, come quello che si appresterebbe a fare chi volesse rimettere insieme i cocci di un vaso rotto: alla fine non sarà più il vaso com’era prima di rompersi, ma sarà sempre un contenitore della stessa forma, della stessa capienza e della stessa materia di prima.
Lo stesso Deleuze ha prestato il fianco ad una falsa pretesa antidialettica del pensiero nietzscheano, giustamente evocando quale bersaglio prediletto del filosofo di Röcken l’hegelismo e il suo ottimismo speculativo, ma senza tener presente che tutto il nichilismo attivo non è nient’altro che una rivisitazione in chiave dialettica dell’abbattimento dei valori tradizionali, a favore di nuovi valori fondati su di una visione antropocentrica che fa della stessa volontà di potenza il suo elemento speculativo.
E cos’è la distinzione tra apollineo e dionisiaco se non una contrapposizione dialettica, una lotta, una battaglia, un limite che lo stesso Nietzsche si prefigge di superare? Non è forse questo in ultima analisi un tentativo seppur disperato di superamento dialettico? L’attacco frontale che Nietzsche porta alla metafisica “tradizionale” è proprio quello che parte da una distinzione, una separazione, e quindi una contrapposizione tra il mondo «fisico» e quello della «volontà», tra Apollo e Dioniso.
La stessa tragedia greca è per Nietzsche una sintesi, in cui si conciliano le due grandi forme che animano lo spirito greco: l’apollineo e il dionisiaco. Il gioco dialettico tra apollineo e dionisiaco esprime la tragicità della vita e della condizione umana, dove l’uomo tragico è stato sostituito dall’uomo teoretico. In questa prima fase del suo pensiero Nietzsche è chiaramente influenzato sia dalla metafisica di Schopenhauer, ma soprattutto dall’opera di colui nel quale per primo rintraccia i germi del superuomo, Richard Wagner, nel cui dramma musicale Nietzsche riscontra una sintesi d’arte totale, fondendo musica, mito, azione dell’eroe, testo poetico e plasticità scenica. In tutto questo Nietzsche vede la possibilità di un andare oltre, di un oltrepassamento dei limiti, e quindi di un superamento di quegli stessi limiti imposti dalla cultura teoretica e dallo spirito storico-critico.
Gli elementi dialettici da sintetizzare sono vita e mito.
A tal riguardo scrive Francesca Filippi in ‘Socrate, elenchos e dialettica’, «Secondo Nietzsche il tragico costituisce la massima forma d’arte intesa come perfetta sintesi di sublime e comico, e riconciliazione dell’uomo con la vita». Alla luce di questa interessante riflessione, la tragedia attica diventa per Nietzsche la massima “esplicitazione, l’evidenza più assoluta della contraddizione che caratterizza l’essere e il mondo”. Continua la Filippi: «Il tragico trae origine da questo disvelamento.[…] Se infatti la dialettica è affermazione dell’identità, il tragico è la negazione di
ogni identità e affermazione della differenza», qui abbiamo in sequenza un’affermazione, una negazione e un’altra affermazione. Scrive Nietzsche ne ‘La nascita della tragedia’ : «Il tragico è la giustificazione della vita, la riconciliazione dell’uomo con la realtà».
Chi più di Nietzsche, il cosiddetto “antimetafisico”, o meglio sarebbe “l’ultimo dei metafisici”, risulta essere l’incarnazione stessa della contraddizione dialettica fino al punto di considerare Dioniso, il “suo” deus ex machina per eccellenza, il «vero dio metafisico»? Dioniso, che coincide con la struttura più intima del mondo, e che quindi sta “oltre” i fenomeni molteplici con i quali invece Apollo c’inganna. Non a caso uno dei pensatori più amati da Nietzsche fu Eraclito, colui che
per primo aveva posto a fondamento del reale il conflitto (polemos), il principio di tutte le cose.
Ciò che viene qui contrapposto e poi superato è il molteplice dell’apparenza apollinea, al molteplice originario dionisiaco; il primo ordinato e apparentemente razionale, e il secondo più verace, irrazionale, un molteplice sempre in lotta, sempre in conflitto. Qui c’è il finito posto da Hegel, riproposto da Nietzsche e ri-superato dall’infinita volontà tanto più dialettica quanto più irrazionale di quello, che infinitamente si riafferma in un eterno ritorno dello spirito dionisiaco di un oltreuomo, sullo spirito apollineo di un uomo illuso.
Anche in Nietzsche, così come in Hegel, l’elemento dialettico per eccellenza è l’antitesi, la potenza del negativo, ciò che in Hegel si fa natura uscendo fuori di sé e negandosi, in Nietzsche diventa la teoria che si fa azione: la teoria “fa” qualcosa. L’elemento storicista qui prende il sopravvento: palesemente quando arriva un momento nella storia in cui lo spirito critico prende coscienza di sé stesso e il Dio unico muore; e di fronte a questa morte ci sono due modi di porsi, o si subisce il nichilismo passivamente, oppure si agisce per abbattere anche le ultime macerie degli idoli così deposti.
Dio è stato ucciso, l’oltreuomo se ne fa una ragione, e la volontà prende il sopravvento.
Ed è una volontà in divenire, non è statica, affermante, dogmatica, immobile, ma è attività, in continua lotta, dinamica, battagliera, una continua trasformazione. Come ha scritto giustamente Tommaso Tuppini, «il molteplice della volontà di potenza […] è sempre un fattore attivo di divenire e trasformazione, e non calcifica mai in un quadro in divenire, […] ama la forma, ma principalmente la forma del divenire, che tutto trasforma e nulla abbandona alla propria soddisfatta mummificazione. Il caos non è in Nietzsche il contrario della forma, anzi è l’incessante rinnovarsi della forma».
La questione dell’esistenza o meno di una dialettica nella filosofia di Nietzsche è stata sempre materia di dibattito fra i suoi critici, ma non posso non vedere nel «non abbandono» della volontà, l’idea che torna in sé arricchita di ciò che le era fuori. Continua ancora Tuppini: «la volontà di potenza non è dunque una “cosa”, un’”entità”. Ma un processo, un fare, una genealogia produttiva», e che cos’è la realtà di Hegel se non un prodotto dialettico di soggetto e spirito, e cioè attività, processo, movimento? Come fa dire Nietzsche al suo Zarathustra, «lo spirito del leone deve procurarsi libertà per opere nuove – questo può la forza del leone. Procurarsi libertà, opporre una
negazione divina allo stesso dovere: questo, o fratelli, è il fine pel quale occorre il leone». La volontà prima di tutto si pone, dice «Io voglio!»; questo è l’io fichtiano, la tesi, il primo momento dialettico in cui la volontà si pone, e come quello non si pone in uno spazio astratto, vuoto, fittizio, ma si pone nel mondo dell’io, è il fine che si pone il leone. E’ la volontà stessa a porsi in quanto principio di posizione dei valori, è l’eco dell’io assoluto fichtiano; e come questo non è una volontà irrazionale, ma è necessaria, in quanto è la vita stessa che in ogni suo aspettoè superamento del dato di fatto, della norma, della consuetudine. La volontà di potenza è volontà di
forma, perché come Nietzsche scrive in ‘Frammenti postumi’ «i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni», cioè il mondo non è un “fatto”, ma un “farsi”, attraverso le forme, cioè le interpretazioni, e come tale il mondo è un divenire continuo, una metamorfosi. Qui l’elemento antitetico da interpretare sono le situazioni della vita apollinea, dell’ordine prestabilito, del molteplice dato. E quindi la volontà, quasi fosse lo spirito di Hegel, s’impossessa dell’oltreuomo: l’Übermensch, dove il termine tedesco uber ha lo stesso significato del termine greco meta, che indica un oltrepassamento, un andare oltre. E come lo spirito di Hegel giunge solo alla fine a conoscersi, così l’oltreuomo giunge solo alla fine a crearsi, «egli fu il creatore di sé» scrive Nietzsche ne ‘Il crepuscolo degli idoli’. La potenza dialettica qui è dirompente, e solo chi non la vuol vedere non la vede, perché «l’uomo è soltanto un cavo teso tra la bestia e il superuomo».
Chi non la vuol vedere, vede per esempio l’aforisma 431 de ‘La volontà di potenza’, postumo, del 1901, dove non è Nietzsche a scrivere, ma la sorella antisemita Elisabeth: «[…] Socrate, il plebeo che impose quel cambiamento, ottenne la vittoria sopra un gusto più nobile, il gusto di chi eccelle: la plebe giunse alla vittoria grazie alla dialettica. […] La dialettica può essere soltanto una legittima difesa. […] Perciò furono dialettici gli ebrei, lo fu Reineke Fuchs, lo fu Socrate». Nietzsche non fu mai antisemita. La tradizione ci ha presentato Nietzsche come un irriducibile antisocratico, e questoè verissimo, ma ciò non significa che sia stato anche contro un “metodo”, infatti ‘Umano troppo umano’ può essere presentato come un aggiornato discorso sul metodo, che, come scrive lo stesso Nietzsche, consiste nel saper «rendere giustizia» alla conoscenza rigettando «tutto ciò che acceca e confonde il giudizio delle cose». Questo metodo aggiornato è un metodo dialettico. Nietzsche era indubbiamente antidialettico, ma non la sua filosofia.
Quando Gilles Deleuze, in ‘Nietzsche e la filosofia’, imprime al pensiero dialettico il tentativo di ricondurre i processi storici e naturali ad un principio unitario, forse non si avvede che «imprimere al divenire il carattere dell’essere» è anche il tentativo dell’oltreuomo. Dove Deleuze dice di non vedere la potenza del negativo nella filosofia di Nietzsche, dice invece di vedervi solo la potenza dell’affermazione; e di quale affermazione? «[…] l’affermazione della sua differenza»! E continua: «[…] quello che una volontà vuole, è affermare la propria differenza».
Ma cosa c'è di potente nell'affermare «Io sono io e tu sei tu»? La vera potenza è solo quella che afferma «Io sono quello che voglio essere!», ecco! Questa è la vera volontà di potenza che intendeva Nietzsche. Una volontà che supera, che non afferma una differenza, ma che se ne frega delle differenze! Una volontà di potenza è quella di voler essere quello che si vuole essere, e per essere tale dovrà necessariamente superare le differenze, non affermarle, perché nel momento stesso in cui le affermasse non ci sarebbe più quella volontà di potenza, che è prima di tutto una volontà di
superamento delle condizioni date, di abbattimento del dato di fatto, di riaffermazione della propria volontà su quella altrui, e per superare questa si deve farla propria, si deve com-prenderla nella propria, per poi farne ciò che si vuole. La volontà di potenza non può affermarsi in uno spazio astratto, ma deve potersi affermare davanti ad un’altra volontà, o meglio sarebbe, su di un’altra volontà. Una volontà che affermi astrattamente, unilateralmente sé stessa, sarebbe una volontà senza un fine, e quindi una tautologia, un’affermazione di affermazione, in definitiva un pleonasmo.
Come quando in un suo celebre aforisma Nietzsche afferma che la vera «felicità consiste non nell’avere ciò che si vuole, ma nel volere ciò che si ha»; questa è una virtù, perché la felicitàè quella condizione di appagamento totale dello spirito umano, e come tale è un fine perseguibile, come è un bene per lo spirito sentirsi appagato. Perseguire un bene è sempre un’agire virtuoso. E come per Socrate il vero bene è prima di tutto la conoscenza del bene, per Nietzsche il vero beneè un’attività, volta ad un oltrepassamento dei limiti dati: l’azione è superamento di un concetto.
Per Nietzsche è l’affermazione della propria volontà, «volere ciò che si ha».
Anche in ambito etico assistiamo ad un superamento dialettico del perseguibile umano: mentre tradizionalmente la virtù era vista come un bene da perseguire, per il filosofo di Röcken la virtùè perseguire la propria volontà, cioè il vero bene è un’attività incessante di affermazione della propria volontà su qualsiasi altra volontà, che è chiaramente un limite esterno alla stessa da superare, per potersi affermare. Io vedo in questo abbozzo di etica nietzscheana una ulteriore sintesi speculativa della tesi socratica e dell’antitesi aristotelica: mentre per Socrate il bene è fondamentalmente conoscenza e quindi riflessione teoretica, Aristotele al contrario afferma che il vero bene consiste in una condotta di vita secondo ragione, ovvero il bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e quindi non è più riflessione ma attività, azione, fare prima di tutto, agire.
L’elemento speculativo è qui riproposto dalla volontà, che conosce il proprio fine e contemporaneamente lo mette in pratica.
La dialettica è quel processo logico-ontologico che rintraccia nel reale una serie di relazioni scandite da un ritmo di opposizioni, alla cui base vi è un’idea di unità o sintesi più elevata e complessa. Questa unità o sintesi non è il risultato dell’opposizione ormai risolta, ma il fondamento stesso dell’opposizione. Essa non esaurisce tutta la filosofia, ma è un modo per giungere ad una conclusione filosofica, e pertanto ne è essa stessa sua giustificazione a posteriori. Come diceva
Hegel, l’Assoluto è essenzialmente risultato, così la dialettica non è stata causa della filosofia di Nietzsche, ma ne è stata indiscutibilmente suo effetto.
Davide Manocchio
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