Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
"la relazione presentata non ha altro intento che quello di offrirsi come luogo di dialogo e conoscenza di e tra voci autorevoli della tradizione spirituale cristiana, delle vie sapienziali e della cultura, con l'unico scopo di creare affezione per la lettura ed offrire stimoli e riferimenti per un personale percorso di approfondimento diretto sui testi indicati che l'autore si è limitato a raccogliere ed ordinare".
L’UOMO ATTUALE
secondo Ronald D. Laing
di Beppe Fragomeni
(Brani tratti liberamente da La politica dell’esperienza, Feltrinelli Editore, Milano, 1968)
E’ doveroso premettere che con questa breve relazione non si intende presentare una sintesi dell’opera di Laing, ma mettere in risalto un tratto particolare di questa, finora ignorato dai suoi commentatori: questo famoso psichiatra, questo psicologo e scrittore conosciuto in tutto il mondo, pone le dottrine spirituali più elevate a fondamento delle sue teorie mediche. Non si pretende di proporre un caso unico; si tratta tuttavia di un caso assai raro, vuoi per la padronanza che dimostra nell’ uso delle dottrine tradizionali, che per avere pensato di riproporle in questa chiave: le radici della vita per riordinare la vita! Di norma accade il contrario; ed è quando lo studioso di cose spirituali cerca conferme alle sue teorie nelle scienze particolari. Ora, anche se può sembrare ozioso, ci pare giusto precisare che mentre la spiritualità tende all’unità, le scienze particolari tendono alla divisione, avendo come dato fondante l’analisi più accurata dell’esistente. Laing, pertanto, sposta la sua attenzione dall’ambito sociale, (esteriore) - al quale gli studiosi della sua disciplina tendono a normalizzare i loro pazienti - al “fondo dell’anima umana”, alle radici della vita, dove, per i mistici , dimora e regna Dio stesso, come dice Luca: “.Il regno di Dio è dentro di voi” (17, 21) ; “Cercate piuttosto il regno e il resto vi sarà dato in più” (12, 33).
L’esteriore, separato da ogni illuminazione proveniente dall’interiore, vive nelle tenebre; la nostra è un’età delle tenebre: vivere nelle tenebre dell’esteriorità è vivere in stato di peccato, ossia di alienazione, di estraniazione dalla luce interiore
R.D. Laing
Questo libro incomincia e finisce con l’argomento della persona.
Sono in grado oggi gli esseri umani di essere persona?
Può un essere umano essere veramente se stesso con un altro uomo o con una donna?
Prima di essere in condizioni di poter porre un interrogativo ottimistico come il seguente: “In cosa consiste un rapporto tra persone?” bisogna che ci chiediamo se un rapporto tra persone sia possibile; o, meglio, se, nella nostra situazione attuale, sono possibili delle persone.
Ciò che ci interessa è la possibilità dell’uomo, ma questo interrogativo può essere formulato solo nei suoi vari aspetti: è possibile l’amore?, è possibile la libertà?
Della voce persona l “Oxford English Dictionary” fornisce otto significati: - parte sostenuta in un’opera di teatro, o nella vita reale;- individuo della razza umana;- corpo di un essere umano vivente;- individuo umano o persona giuridica o ente giuridico con diritti e doveri riconosciuti dalla legge;- in teologia, ognuna delle tre parti della trinità di Dio;- nella grammatica, ognuna delle tre classi di pronomi e delle corrispondenti distinzioni nelle forme verbali che servono a denotare la persona che sta parlando, ossia in prima persona, seconda persona, terza persona ecc.;- in zoologia, ogni individuo di un gruppo o di una colonia, ogni singolo esemplare.
Dato che in questa sede ci occupiamo di esseri umani, le due accezioni che ci riguardano di più sono quelle di persona come personaggio, maschera, ruolo teatrale e di persona come io reale.
Sia che tutti gli esseri umani, o solo alcuni, o nessuno siano delle persone, desidero definire la persona in un modo doppio:
· in termini di esperienza come un centro di orientamento dell’universo obiettivo;
· in termini di comportamento come l’origine degli atti.
L’esperienza personale trasforma un certo campo dato in un campo di intenzioni e di azione: la nostra esperienza può essere trasformata solo attraverso l’azione.
E’ allettante e facile considerare le “persone” solo come degli oggetti separati nello spazio che si possono studiare come qualsiasi altro oggetto naturale. Ma, come Kierkegaard osservò che la coscienza non si può trovare analizzando al microscopio cellule cerebrali, così le persone non si possono rinvenire se le si studia come dei meri oggetti.
Una persona è quell’io o quel voi, quell’egli o quell’essa da cui un oggetto viene sperimentato.
Questi centri di esperienza, queste origini degli atti vivono in mondi totalmente irrelati di loro privata composizione?
Ognuno deve rifarsi, a questo punto, alla propria esperienza personale. La mia esperienza ed il mio agire si attuano su di un piano sociale di reciproca influenza e di interazione.
Esperimento me stesso, identificabile come Ronald Laing da me stesso e dagli altri, come oggetto della esperienza e degli atti altrui, e che si riferisce a quella persona che io chiamo “me” come “voi” o “lui”, o che fa parte di un gruppo come “uno di noi”, “uno di loro” od “uno di voi”.
Questa caratteristica dei rapporti tra persone non risulta dalla correlazione del comportamento di oggetti non personali. (...)
Si può osservare la gente dormire, mangiare, camminare e parlare ecc. in modi relativamente prevedibili. Noi non dobbiamo accontentarci solo di una osservazione di questo genere. L’osservazione del comportamento va estesa per mezzo di inferenze per dedurre attributi circa l’esperienza. E soltanto quando siamo in grado di fare questo che possiamo incominciare veramente a costruire quel sistema di esperienza e comportamento che è la specie umana.
L’uomo d’oggi vive uno stato di “normale” alienazione dell’essere interiore a favore di una esteriorità falsa ed oscura.
L’essere ed il non essere costituiscono il tema centrale di tutte le filosofie, sia orientali che occidentali: queste due parole non rappresentano degli arabeschi verbali, fatui ed innocui che nel mestieristico filosofeggiare dei decadenti.
Abbiamo paura di avvicinarci all’immensurabile e insondabile mancanza di fondamento del tutto, ma “non c’è nulla di cui avere paura” (...)
Noi esperimentiamo gli oggetti della nostra esperienza come là fuori nel mondo; l’origine della nostra esperienza sembra situarsi al di fuori di noi stessi.
Nell’esperienza creativa l’origine delle immagini, delle forme, dei suoni, viene da noi sperimentata come interna e tuttavia al di là di noi stessi: i colori provengono da una fonte di pre-luce in sé oscura, i suoni dal silenzio, le forme dall’informe.
Questa luce preesistente, questo pre-suono, questa pre-forma, non sono nulla, eppure costituiscono l’origine di tutte le cose create.
Noi siamo separati e congiunti gli uni agli altri fisicamente: le persone, in quanto esseri dotati di un corpo, si rapportano reciprocamente nello spazio; e inoltre siamo divisi ed uniti dai nostri diversi punti di vista, dalla diversità di educazione, di ambiente, di organizzazione sociale, dalla adesione a gruppi, associazioni, ideologie, da interessi economico-sociali di classe, e dai diversi temperamenti.
Queste “cose” di natura sociale che ci uniscono, sono al contempo altrettante cose, altrettante finzioni sociali che ci separano.
Ma se potessimo lasciar perdere tutte le esigenze e le contingenze, e rivelarci reciprocamente la nostra nuda presenza?
Se togliessimo di mezzo ogni cosa, tutte le vesti, le maschere, le stampelle, le truccature, e i progetti in comune, e quei giochi che ci forniscono il pretesto per delle circostanze camuffate da incontri a livello umano, se potessimo incontrarci veramente, se si verificasse un simile evento, una felice coincidenza tra esseri umani, cosa ci separerebbe allora?
Siamo esseri fra i quali c’è il nulla, non c’è alcunché che ci unisca, nessuna cosa. Ciò che c’è veramente fra di noi non si può esprimere con il nome di cose che ci si frappongono. Il fra è in sé un nulla.
Se disegno una forma su di un pezzo di carta, compio un atto che scelgo in base all’esperienza della mia situazione; cosa ho esperienza di fare, e qual è la mia intenzione?
Tento di esprimere qualcosa a qualcuno (comunicazione), sto ricomponendo gli elementi di qualche caleidoscopico mosaico interno (invenzione), sto cercando di svelare i caratteri di nuove Gestalten che emergono (rivelazione)?
Sono sorpreso del fatto che appaia qualcosa che non esisteva prima, e che queste linee non ci fossero sulla carta prima che io ve le mettessi? A questo punto ci stiamo accostando all’esperienza della creazione dal nulla.
Ciò che si chiama una poesia è forse una miscela di comunicazione, invenzione, fecondazione, rivelazione, produzione, creazione. Attraverso la contesa delle intenzioni e dei motivi, si è verificato un miracolo, c’è qualcosa di nuovo sotto il sole; l’essere è emerso dal non-essere, una sorgente è scaturita da una roccia.
Senza il miracolo non sarebbe accaduto nulla.
Le macchine stanno già diventando più capaci di comunicare tra loro di quanto non lo siano gli esseri umani.
La situazione si fa comica: cresce sempre più l’interesse per la comunicazione in sé, e diminuisce l’interesse a comunicare.
Noi non siamo un gran che interessati alle esperienze del “colmare una lacuna” di una teoria o di una conoscenza, del chiudere una falla, del riempire uno spazio vuoto: non si tratta di immettere qualcosa nel nulla, ma di creare qualcosa dal nulla, ex nihilo. Il nulla da cui emerge la creazione, nella sua maggiore purezza, non è uno spazio vuoto, od un vuoto lasso di tempo.
Pervenuti al non-essere ci troviamo fuori della portata di ciò che il linguaggio può affermare, ma siamo in grado di indicare, per mezzo del linguaggio, perché il linguaggio non può dire ciò che non può dire. Non posso dire ciò che è indicibile, ma dei suoni possono farci udire il silenzio. Restando nei limiti del linguaggio, è possibile far capire quando si rendono necessari i puntini di sospensione....E tuttavia nel far uso di un vocabolo, una lettera, un suono, OM, non si può prestare un suono al silenzio, o nominare l’innominabile.
Quel silenzio che precede la formazione e viene espresso dentro e attraverso il linguaggio, non può essere espresso dal linguaggio; ma il linguaggio può essere usato per dire cosa esso non sa dire, tramite i suoi interstizi, le sue vacuità e deficienze, tramite la struttura di parole, sintassi, suoni, e significati. Le modulazioni di tono e di volume delineano una forma precisamente senza fornire le informazioni mancanti negli spazi tra le linee, ma sarebbe grave errore scambiare le linee per la forma, o la forma con ciò che essa rappresenta.
La frase “il cielo è azzurro” ci informa che vi è un sostantivo “cielo” il quale è “azzurro”. Questa sequenza di soggetto-verbo-oggetto, nella quale “è” funge da copula che unisce il cielo e l’azzurro, costituisce un nesso di suoni, sintassi, segni e simboli in cui siamo elegantemente turlupinati e che, al tempo stesso in cui si affaccia a quell’ineffabile cielo-azzurro-cielo, ci separa da esso. Il cielo è azzurro e l’azzurro non è cielo, dunque il cielo non è azzurro. Ma quando diciamo “il cielo è azzurro”, diciamo anche “il cielo” “è“: il cielo esiste ed è azzurro.
L’ ”è” serve a congiungere tutto e al tempo stesso non è alcuna delle cose che congiunge.
Nessuna cosa unita dall’ “è” può qualificarsi essa stessa come “è”; l’“è” non è questo, né quell’altro, né cosa alcuna, e tuttavia condiziona la possibilità di tutto. L’ “è” è quel nulla per cui tutto è; in quanto non è alcuna cosa, è ciò per cui tutte le cose sono. E ciò che condiziona la possibilità di ogni cosa ad essere, è che essa sia in relazione con ciò che essa non è.
Questo equivale a dire che il fondamento dell’essere di tutte le cose è il rapporto che c’è fra di loro; questo rapporto è l’ “è”, l’essere di tutto, e l’essere di tutto è esso stesso un nulla.
L’uomo crea trascendendosi col rivelarsi a se stesso, ma ciò che crea, da cui parte e a cui arriva, argilla, vaso e vasaio, è sempre non-io: egli è il testimone, il medium, il pretesto di un accadimento che la cosa creata rende manifesto.
L’uomo non è essenzialmente impegnato nella scoperta, nella pro-duzione, o anche nella comunicazione e nell’invenzione di ciò che trova: il suo atto è quello di permettere all’essere di emergere dal non-essere.
L’esperienza dell’essere realmente il veicolo di un continuo processo creativo pone al di là di depressioni, persecuzioni o vanaglorie, al di là anche del caos e del vuoto, proprio dentro il mistero di quel continuo irrompere del non-essere nell’essere e può costituire l’occasione di quella grande liberazione che è il passare dall’avere paura del nulla al sapere che non c’è nulla di cui avere paura.
Nella nostra alienazione “normale” dall’essere, una persona che sia pericolosamente consapevole del non-essere di ciò che noi scambiamo per essere (gli pseudo-bisogni, gli pseudo-valori, le pseudo-realtà di quell’endemico inganno delle opinioni sulla vita, la morte ecc.) ci fornisce, nell’epoca in cui viviamo, quegli atti creativi che noi disprezziamo e di cui abbiamo estremo bisogno.
Le parole di una composizione poetica, i suoni in movimento, il ritmo che scandisce lo spazio, sono tentativi di ricuperare un significato personale e rinchiuderlo in un tempo ed in uno spazio personali, al di fuori degli spettacoli e dei suoni di un mondo spersonalizzato e disumanizzato; sono teste di ponte gettate in territorio nemico, sono atti insurrezionali.
La loro sorgente è quel Silenzio che c’è al centro di ognuno di noi. In qualsiasi momento o luogo una tale costellazione sonora o spaziale si stabilisce nel mondo esterno, la forza che essa racchiude genera nuove linee di forza i cui effetti si avvertono per secoli.
Il soffio creativo “viene da una regione dell’uomo in cui l’uomo non può discendere neppure se Virgilio stesso lo accompagna, perché Virgilio non potrebbe scendere fin là”.
Questa regione, la regione del nulla, del silenzio dei silenzi, è essa l’origine: noi dimentichiamo che siamo là interamente ed in ogni momento.
Non c’è da stupirsi che arabeschi che misteriosamente materializzano verità matematiche cui pochissimi possono spingere lo sguardo, così belli e raffinati come sono, siano l’annaspare di un uomo che sta per annegare.
I problemi che ci interessano in questa sede sono solo quelli dell’essere e del non-essere, dell’incarnazione, della nascita, della vita e della morte.
La creazione ex nihilo è stata giudicata impossibile persino a Dio, ma noi ci occupiamo di miracoli. Dobbiamo udire, come dice Lorca, la musica delle chitarre di Braque.
Per un uomo alienato dalla propria sorgente interiore, la creazione nasce dalla disperazione e finisce nel fallimento; ma quest’uomo non ha percorso la via che conduce alla fine del tempo e dello spazio, alla fine dell’oscurità e della luce: non sa che dove tutte queste cose finiscono, proprio là esse incominciano.
Propongo (ora) di cercare il motivo dello stato di confusione in cui viviamo, in una frase di Heidegger:
“il Terribile è già accaduto”.! (...)
E già accaduto a tutti noi: siamo in un mondo in cui l’interiore è già scisso dall’esteriore.
Non può certo accadere che l’interiore divenga esteriore e l’esteriore interiore solo grazie alla riscoperta del mondo “interiore”: essa costituisce solo un inizio.
Noi siamo un’intera generazione di esseri umani talmente estraniata dal mondo interiore che vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, anche se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo; quantificare l’estasi e l’agonia del cuore in un mondo in cui, quand’anche il mondo interiore venga per la prima volta scoperto, noi non possiamo che sentirci defraudati e derelitti, giacché senza il mondo interiore l’esteriore perde ogni significato e senza l’esteriore l’interiore perde ogni realtà.
Siamo nella necessità di conoscere relazioni e comunicazioni, ma questi schemi di comunicazione, disturbati, riflettono il disordine dei nostri mondi personali di esperienza sulla cui repressione, negazione, scissione, introiezione, proiezione, dissacrazione e profanazione generale si fonda la nostra civiltà.
Quando accade che i nostri mondi personali siano riscoperti e che si permetta loro di ricomporsi, scopriamo sulle prime uno scempio:
- corpi morti a metà, genitali dissociati dal cuore, cuori scissi dalla testa, testa avulsa dai genitali. Nessuna unità interiore, solo senso della continuità quanto ne basta per affermare l’identità, questo moderno oggetto di idolatria. Corpo, mente, spirito, strappati gli uni dagli altri dalle interne contraddizioni, scagliati in diverse direzioni; l’Uomo staccato dalla propria mente, ed egualmente tagliato fuori dal proprio corpo, creatura mezzo impazzita in un mondo folle.
Quando il Terribile è già accaduto, non possiamo attenderci altro se non che l’Oggetto si faccia eco esterna delle distruzione già occorsa interiormente.
Allo scopo di razionalizzare la nostra devastazione con una falsa consapevolezza assuefatta, e di eliminare la nostra facoltà di vedere chiaramente quello che ci sta sotto il naso e di immaginare cosa ci sia un po' più in là, abbiamo dovuto distruggere la nostra capacità mentale.
Incominciamo a farlo con i bambini; si impone la necessità di catturarli in tempo: senza il più completo e rapido lavaggio del cervello le loro sporche menti vedrebbero chiaro nei nostri sporchi traffici. I bambini non sono ancora degli stupidi, ma noi li facciamo diventare degli imbecilli come noi, meglio se con degli alti quozienti di intelligenza.
Fin dal momento della nascita, quando un bimbo dell’età della pietra si trova a fronteggiare una madre del ventesimo secolo, il bambino è sottoposto a quelle costrizioni esercitate con violenza, che vengono chiamate amore, così come lo erano stati sua madre e suo padre, e i loro genitori, e i genitori dei loro genitori. Queste pressioni sono intese precisamente a distruggere la maggior parte delle sue potenzialità, impresa che, nel complesso, è coronata da successo: all’epoca in cui il nuovo essere umano ha circa quindici anni, ci ritroviamo con un essere simile a noi, con una creatura semi-folle, più o meno integrata ad un mondo pazzo. Questa è, ai nostri tempi, la norma. (siamo distanti dalla psicologia che cerca invece la normalizzazione dell’uomo a questo mondo).
Amore e violenza, a rigore, sono polarità opposte. L’amore lascia vivere il prossimo, ma con interesse ed attaccamento; la violenza cerca di limitare l’altrui libertà, di costringere il prossimo ad agire come vogliamo noi, ma, in ultima analisi, con disinteresse ed indifferenza verso l’esistenza e il destino degli altri.
Con questa violenza mascherata da amore stiamo riuscendo a distruggerci.
(...) In molti scritti contemporanei sull’individuo e sulla famiglia si parte dal presupposto che vi sia confluenza non del tutto ardua, per non dire un’armonia prestabilita, tra natura ed educazione. Da entrambe le parti possono essere necessarie delle concessioni, ma tutto va per il meglio per coloro che non chiedono altro che sicurezza e identità (...).
(In famiglia) il linguaggio è quello di un consiglio di amministrazione. Per esempio: “La madre può investire opportunamente tutte le sue energie nell’occuparsi del bambino quando il padre provvede alla base economica, alla posizione sociale ed alla protezione della famiglia. E inoltre può meglio limitare la carica psichica dei suoi istinti materni verso il figlio se i suoi bisogni di donna sono soddisfatti dal marito”.
“La metafora economica cade a proposito: la madre “investe” nel suo bambino. Ma ciò che è più illuminante è la funzione del padre, il quale deve provvedere alla base economica, alla posizione sociale ed alla protezione, nell’ordine”.
Ricorre frequentemente l’accenno alla sicurezza, alla stima degli altri. Si suppone, quale ragione di vita, uno debba volere “ottenere il piacere della stima degli altri”, altrimenti è uno psicopatico (T. Lidz, The family and Human Adaptation, Londra 1964).
“Queste affermazioni in certo senso sono vere: descrivono la creatura spaventata, domata, abbietta che siamo ammoniti ad essere se vogliamo essere normali, offrendoci l’un l’altro reciproca protezione dalla nostra stessa violenza; la famiglia come “protection racket”.
Vista in questi termini “la funzione della Famiglia è quella di reprimere l’Eros, di produrre una falsa sensazione di sicurezza, di negare la morte con l’evitare la vita, di togliere di mezzo la trascendenza, di far credere in Dio evitando l’esperienza del Vuoto, di creare, in breve, l’uomo ad una dimensione; di incoraggiare il rispetto, il conformismo, l’obbedienza, di mettere i bambini fuori combattimento, istillando la paura di fallire, stimolando il rispetto per il lavoro (in quanto fonte di reddito), provocando il rispetto della “rispettabilità” (conquistata secondo i criteri di cui sopra).
Così facendo, “gli uomini non divengono ciò che la natura (ed il buon Dio) li ha destinati ad essere, ma ciò che la società fa di loro...
I sentimenti generosi vengono, per così dire, rinsecchiti, cauterizzati, strappati, amputati per renderci adatti al nostro approccio col mondo (mai con Dio), un po' come fanno certi mendicanti con i loro figli: li storpiano e li mutilano per renderli adatti alla loro futura posizione nella vita”.
“Stanno giocando un gioco
Stanno giocando a non giocare un gioco.
Se mostro loro che li vedo giocare,
infrangerò le regole e mi puniranno.
Devo giocare al loro gioco
di non vedere che vedo il gioco”.
La famiglia è in primo luogo lo strumento più comunemente usato per ciò che viene definito socializzazione, e consiste nel far sì che ogni nuova recluta della razza umana si comporti e faccia esperienza sostanzialmente nello stesso modo di quelli che sono già stati al mondo.
Siamo ridotti tutti quanti a dei Figli della Profezia alla rovescia che hanno appreso a morire nello Spirito ed a rinascere nella carne.
Questo si chiama anche vendere i diritti della primogenitura per un piatto di lenticchie”.
Le nostre azioni corrispondono alla nostra esperienza del mondo: noi ci regoliamo alla luce di ciò che secondo noi una situazione comporta o non comporta; ossia, ciascuno si occupa più o meno di ontologia, ha delle opinioni personali su ciò che è e su ciò che non è.
(Perciò) la fonte non si è esaurita, la fiamma splende ancora, il fiume continua a scorrere, la sorgente a scaturire, la luce non si è affievolita.
Ma tra noi e Dio vi è un velo spesso come cinque metri di solido cemento armato: Deus absconditus, ossia, Dio che noi abbiamo nascosto.
Dobbiamo cercare, a livello intellettivo, emotivo, interpersonale, organizzativo, intuitivo, teoretico, di farci strada con la dinamite attraverso questo muro massiccio: da questo lato del muro non vi sono certezze, né garanzie (...).
Viviamo in un mondo terra terra: per adattarsi ad esso, il fanciullo abdica alla sua. (L’enfant abdique son extase, Mallarmè).
Il vero equilibrio comporta in un modo o nell’altro la dissoluzione dell’io normale, di quel falso io abilmente adattatosi alla nostra aliena realtà sociale.
I più fanno esperienza di sé e degli altri in modi che definirò egoici: ossia, esperimentano il mondo e se stessi sulla base di una salda identità, di un io-quì contrapposto ad un voi-là , in un tessuto di determinate strutture fondamentali dello spazio e del tempo, condivise dagli altri membri della loro società.
Questa esperienza ancorata all’identità, vincolata allo spazio-tempo, è stata studiata in sede filosofica da Kant, e poi dai fenomenologi, per es. da Husserl e da Marleù-Ponty.
La sua relatività storica ed ontologica è una cosa di cui qualsiasi studioso della situazione umana può pienamente rendersi conto; la sua relatività culturale, economico-sociale, presso gli antropologi è diventata un luogo comune e per i marxisti ed i neo marxisti addirittura una banalità.
Eppure, a causa delle conferme e dei consensi che assicura tra i nostri simili, ci da un senso di sicurezza ontologica la cui validità, secondo quanto sperimentiamo, si sostiene da sé, nonostante il fatto che noi sappiamo bene, attraverso la metafisica, la storia, l’ontologia, l’economia sociale e lo studio della civiltà, come questo valore apparentemente assoluto non sia che un’illusione.
Sta di fatto che tutte le religioni e tutte le filosofie dell’esistenza concordano nel dire che quest’esperienza egoica è un’illusione preliminare, una cortina, un velo di Maya: essa è un sogno per Eraclito e per Lao-Tzu, costituisce l’illusione fondamentale dell’intero buddismo, uno stato di sonno, di morte, di follia socialmente accettata, uno stato intrauterino nel quale si muore e dal quale si deve nascere”.
Adesso, in chiusura, due poesie di Laing.
- Primo brano
Sebbene innumerevoli esseri siano stati condotti al Nirvana
nessun essere è stato condotto al Nirvana
Prima che si passi la porta
si può anche essere consci che c’è una porta
Si può pensare che c’è una porta da attraversare
e cercarla a lungo senza trovarla
La si può trovare
e può darsi che non si apra
Se si apre si può attraversarla
Nell’attraversarla
si vede che la porta che si è attraversata
era l’io che l’ha attraversata
Nessuno ha attraversato la porta
non c’era porta da attraversare
nessuno ha mai trovato una porta da attraversare
nessuno ha mai trovato una porta
nessuno ha mai compreso che mai c’è stata una porta.
Con questo brano nega realtà ontologica all’io e importanza ai suoi blocchi psicologici: per lo spirito, “nessun io”, “nessuna porta”, nessuna distanza da colmare.
- Secondo brano
Tutto in tutti
ciascun uomo in tutti gli uomini
tutti gli uomini in ciascun uomo
Tutto l’Essere in ciascun essere
ciascun essere in tutto l’Essere
Tutte le cose in ciascuna cosa
ciascuna cosa in tutte le cose
Tutte le distinzioni sono mente,
con la mente,
della mente.
Niente distinzioni niente mente per distinguere”.
L’Essere, come nexus, mantiene “tutto in Dio”. Le distinzioni razionali (che pretenderebbero di strutturare persino il nirvana - stato di beatitudine - con porte e percorsi obbligati), non possono convenire all’uomo spirituale perché lo sospingerebbero ancora verso l’eresia di una visione unilaterale intesa come tutto.
Beppe Fragomeni
per scrivere all'autore: Kormoran7@libero.it
Libri pubblicati da Riflessioni.it
365 MOTIVI PER VIVERE RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA |
|