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di Paolo Bancale   indice articoli

 

Il dolore: tra fisico e metafisico

Di Luigi Mazza

Dicembre 2013

  • Il mondo greco

  • Il pensiero buddista

  • La visione cristiana

  • Ragione e sentimento

È certamente la più umana fra le esperienze sensoriali ed emozionali, nasce con noi, cresce con noi, e spesso è l’invisibile compagna della nostra fine. È l’esperienza del dolore, un’esperienza assolutamente personale. Nessuno infatti, nemmeno con la più grande empatia, può sentire dentro di sé il dolore di un altro essere umano. Perché il dolore ha mille sfaccettature, il dolore può essere fisico, mentale, può trasformarsi in sofferenza, esser visto come prova o addirittura come una dimensione salvifica. Un’unica esperienza che rilancia interrogativi fisici e metafisici.

 

Il mondo greco

L’argomento del dolore è sempre stato presente nel dibattito filosofico, fin dalle sue origini: già Eraclito di Efeso, vissuto tra il VI ed il V secolo a.C., aveva compreso che la condizione umana era regolata e condizionata dall’armonia o disarmonia dei contrari; lo scorrere perenne delle cose ed il divenire si rivelavano come un pacificarsi di belligeranti, come un conciliarsi di contendenti. Solo contendendosi a vicenda i contrari davano l’uno un senso specifico all’altro: «è la malattia che rende godibile e buona la salute, così come la fame la sazietà e la stanchezza il riposo». Non è possibile, insomma, vivere giorni lieti se non si conoscono quelli tristi, come non è possibile apprezzare la felicità se non si è provato il senso dell’infelicità e del dolore. Socrate, dall’alto della sua saggezza, mise l’accento sul legame indissolubile di piacere e dolore: ogni momento umano è legato o ad una situazione di piacere o ad una situazione di dolore; finito uno, subentra necessariamente l’altro; pensiero riportato da Platone nel Fedone: «Allora Socrate che era seduto sul letto, fletté una gamba e se la stropicciò, e mentre se la stropicciava, disse: “Come sembra strana, o amici, questa cosa che gli uomini chiamano piacere; e come meravigliosamente si trova per natura in rapporto con quello che appare il suo contrario: il dolore! Questi contemporaneamente così non vogliono trovarsi insieme nell’uomo, ma d’altra parte, se una persona insegue e prende l’uno, presso a poco è sempre costretta a prendere anche l’altro, come se fossero attaccati ad una stessa cima, pur essendo due. E a me sembra”, disse, “che se Esopo avesse riflettuto su questo, avrebbe inventato una storia, [dicendo] che il dio volendo riconciliare questi in guerra, poiché non ci riusciva, legò fra loro i capi ad uno stesso punto, e per questo motivo, quando ad uno si presenta uno dei due, subito dopo viene dietro anche l’altro. Come appunto sembra [sia successo] anche a me, dopo che nella gamba c’era il dolore a causa della catena, sembra che venga, tenendo dietro, il piacere”». Anche in Epicuro il dolore è strettamente collegato al piacere: egli afferma, infatti, che il vero piacere è l’assenza di dolore nel corpo (aponia) e la mancanza di turbamento nell’anima (atarassia). Il non provare dolore, quindi, fisico o mentale che sia, è già segno di piacere. Per gli stoici la felicità era raggiungere l’apatia, cioè l’assenza di ogni passione. Raggiunto lo stato di apatia, ciò che poteva apparire come male e dolore si rivelava come un elemento positivo e necessario; anche la malattia e la morte, quindi, andavano accettate. Per gli stoici il dolore era un qualcosa di ineliminabile dalla vita umana, addirittura necessario, perché nel cercare di controllare, resistere, dominare il dolore, l’uomo si allontanava da ogni forma di passività esistenziale; un dolore, quindi, visto come forza vivificatrice. Come si può ben vedere, il piano dello studio del dolore nel mondo greco era un piano naturale, materiale, in sintesi: umano. I filosofi greci si ponevano come obiettivo il controllo del dolore. Controllo e non eliminazione, perché il dolore è una componente naturale della vita. Essi, per primi, analizzarono non solo i dolori fisici ma anche i dolori psichici e cercarono una via che potesse alleviare le sofferenze umane.

 

Il pensiero buddista

Il VI secolo a.C. fu caratterizzato non solo dalla nascita della Filosofia (filosofia occidentale secondo alcuni, la “filosofia” per eccellenza secondo altri), ma anche dalla nascita in India di quel pensiero filosofico-religioso noto sotto il nome di Buddismo. Esso è molto importante nella trattazione dell’argomento “dolore” perché proprio dal dolore inizia la riflessione buddista. Siddhārtha Gautama, il fondatore del Buddismo, mise alla base del suo pensiero quattro nobili verità: 1) la verità del dolore; 2) la verità dell’origine del dolore; 3) la verità della cessazione del dolore; 4) la verità della via che porta alla cessazione del dolore. Secondo Siddhārtha Gautama la vita è dolore, e all’origine del dolore ci sono passioni e desideri. Questo pensiero, così radicalmente pessimistico diremmo oggi, quasi schopenhaueriano, va compreso, come in ogni buona trattazione scientifica, inserendolo nel contesto storico di riferimento. L’India del VI secolo a.C., infatti, era un luogo particolarmente ostile per gli esseri umani: guerre, carestie, inondazioni la facevano da padrone, intrecciandosi negativamente con una mancanza di civiltà e di libertà basilari necessarie ad un’esistenza serena. Per il Buddismo il dolore non è casuale, ma nemmeno ha radici in una divinità: il dolore nasce dentro di noi, dal nostro ricercare la felicità in un qualcosa di materiale e transitorio. La relatività dei fenomeni, della vita in generale, la mancata visione di un assoluto, causa la sofferenza interiore, il dolore appunto. La via da seguire per allontanare il dolore è quella dell’abbandono dei desideri ingannevoli, dell’abbandono cioè di quei desideri di cose o persone che lasciano la nostra essenza legata al fisico, al terreno. Questo distacco avviene iniziando un percorso introspettivo che ha come parte preponderante la meditazione, una disciplina finalizzata alla comprensione della vacuità della realtà fenomenica e quindi al suo abbandono. Lo stato di cessazione del dolore viene denominato nirodha, mentre il termine ultimo del percorso spirituale che porta alla dispersione-estinzione del dolore è il nirvana. Esso è un’esperienza metafisica, è la fine delle sofferenze, è il distacco dai fenomeni, il distacco dalla vita terrena, è l’abbandono delle passioni e dei desideri. Siddhārtha Gautama ha quindi insegnato all’essere umano la via per emanciparsi dal dolore, cosa questa che molti secoli dopo nemmeno un grande pensatore come Schopenhauer, che della tradizione filosofico-religiosa dell’India era stato un fervente ammiratore portandola per la prima volta all’attenzione europea, riteneva possibile.

 

La visione cristiana

Per il pensiero cristiano il dolore non appartiene alla natura dell’uomo, ma è il frutto delle colpe del primo peccatore, Adamo. Tutti gli uomini sono figli di quel dolore, ma lo accrescono con i peccati commessi in vita. Possiamo notare come il piano dello studio del dolore si sia spostato, rispetto all’interpretazione greca, da un piano materiale e naturale ad un piano soprasensibile. La chiesa cattolica, più che cercare spiegazioni al dolore, si limita ad indicazioni di passività, secondo l’Enciclica Salvifici doloris di papa Giovanni Paolo II, ad esempio: «la sofferenza deve essere accettata come un mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza». Per il pensiero religioso il dolore eleva a dio; più la vita di un uomo è segnata da sofferenze e dolori, più egli è considerato meritevole della salvezza, in quanto solo le anime dei “prescelti” subiscono delle prove terribili sulla terra; questo eccesso di dolore non farebbe che avvicinare l’uomo a Gesù, al suo sacrificio sulla croce. Cercare di limitare il dolore sarebbe quasi un non voler partecipare alle sofferenze del “redentore”, una fuga da dio considerata inaccettabile. Ma se la sofferenza ci avvicinasse davvero a dio, perché invece di desiderarla la rifuggiamo? I teologi dicono, incredibilmente, che il dolore non è una vendetta di dio verso un’umanità peccatrice, ma è un segno d’amore. Di certo c’è che questa dimensione salvifica del dolore si presenta allo sguardo razionale come innaturale ed inumana. Immediatamente una domanda sorge legittima: come può un essere definito “il sommo bene” chiedere, anzi pretendere, il dolore dall’umanità? Per quale motivo un dio che può tutto, che ha tutto, che ha creato dal nulla l’universo, necessita di sofferenza, tragedia e dolore? Nessuno può dare una risposta a questi interrogativi, perché forse una risposta non c’è. La chiesa è talmente devota a questa concezione del dolore “necessario” da arrivare a condannare persino nuovi rimedi medici, nuove cure, che potrebbero aiutare a lenire la sofferenza umana, in nome di una sacralità del dolore da mantenere inalterata. Questo concetto di dolore come un “dono” divino, come un fardello da portare con umiltà e forza nella speranza di una vita migliore ha come espressione perfetta una preghiera: Nel momento del dolore, scritta dal “filosofo” Soren Kierkegaard (Diario 1840, IIIA32). «Signore Nostro Iddio. Tu conosci il nostro dolore meglio di quanto noi stessi non lo conosciamo. Tu sai come l’anima spaurita facilmente inciampa in preoccupazioni intempestive e immaginarie. Noi Ti preghiamo di darci lume per penetrare le intempestività e l’orgoglio, per disprezzare questi dolori che ci siamo creati col nostro trafficare; ma quel dolore che Tu stesso c’imponi dacci la grazia di riceverlo umilmente dalla Tua mano e forza per portarlo».

 

Ragione e sentimento

Nessuno di noi può negare che se la funzione della chiesa è quella di sublimare il dolore, di dare una speranza a chi sta soffrendo per la perdita di una persona cara, di rendere meno duro il momento tragico con l’idea di una vita futura serena, senza più sofferenza e drammaticità, allora si può anche accettare questa ars consolatoria. Ma non si deve in alcun modo pretendere che quelle parole siano considerate la “verità”. Ognuno di noi ha provato sulla propria pelle cosa significa soffrire, cosa significa perdere una persona cara, cosa significa esser violentati da una malattia e non poter nemmeno sperare, perché anche la speranza ha un suo prezzo. Chi fa della ragione il proprio sentiero di vita non può accettare la visione salvifica del dolore, non può accettare che un qualcosa di essenzialmente naturale, materiale, umano sia fatto oggetto di interpretazioni metafisiche senza alcun fondamento. Sì, perché di interpretazioni si tratta: su questo gli uomini di santa romana chiesa non hanno, infatti, nemmeno l’appoggio della sacra scrittura. Mai Gesù, infatti, parlò del significato ultimo del dolore, in nessuno dei suoi discorsi, né pubblici né privati. A difesa di questo i teologi dicono che Gesù non parlò del dolore perché lo visse sulla sua pelle. Risposta certamente pungente ma che si ritorce contro chi l’ha pronunciata, perché dire che Gesù ha vissuto il dolore sulla sua pelle significa riportarlo in quello che dovrebbe essere il suo ed il nostro piano, quello umano. Ognuno di noi ha vissuto momenti di dolore, ognuno di noi ha visto il dolore intorno a sé, dentro sé, ognuno di noi si è posto delle domande quando ha letto di bambini nati con malattie incurabili, quando ha sentito di uomini buoni morti fra atroci sofferenze, quando ha assaggiato il gusto amaro della rabbia nel vedere l’ingiustizia regnare sovrana. Non possiamo, non vogliamo, non dobbiamo trasformare il dolore in un pegno per un essere che, anche ipotizzandone l’esistenza, rimane impassibile alle urla di dolore dell’umanità. Preferiamo rimanere legati al concetto greco, alla nostra umanità, cattiva, istintiva, crudele a volte, ma anche capace di slanci di bontà estremi, di solidarietà, di vera speranza. Siamo uomini, soffriamo, lottiamo, moriamo, ma con la ragione avanti a noi che ci indica la via. Contro Schopenhauer diciamo che la vita non è dolore, la storia non è cieco caso e il progresso non è un’illusione.

 

Luigi Mazza
Dalla rivista NonCredo

 


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