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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Viaggiando fra i volti della razionalità

di Ezio Saia - Aprile 2013

  • Cos'è la razionalità

  • Gli infinitesimi e Berkeley

  • La questione di Newton

  • La razionalità secondo Mach

  • Sistema metrico decimale

  • Razionalizzare

  • Forma e informazione

 

Pensatori citati

Leibniz, Roussseau, Hegel, Compte, Boscovich, Wittgenstein, Poincarè, Mach, Newton, Kant, Hume, Leibniz, Berkeley, Cartesio, Fermat, Galilei, Bonaventura Cavalieri.

 

Concetti citati

Razionalità Dea Ragione, indivisibili, Calcolo, infinitesimo, illuminismo, azioni a distanza’, Sensorium Dei, razionalismo, teorie “Armoniose”

 

Cos'è la razionalità

Furono gli illuministi a contrapporre al dogma delle religioni rivelate e alle loro crudeltà monopoliste del sapere, i diritti della ragione. Una ragione che col dubbio, la critica, il pensiero rivendicava il diritto di sottoporre le teorie, i dogmi, le credenze al suo tribunale. Questa rivendicazione ricompare nella successiva Rivoluzione Francese come Dea Ragione ed è ancor oggi un fondamento del pensiero laico che pur non appellandosi alla dea Ragione, rivendica comunque i diritti dell’uomo a stabilire canoni, sensi e metodi per decidere ciò che si può accettare e in che misura.

Ma è possibile definire il senso di termini quali ‘razionalità’, ‘ragione’, ‘razionale’? Limitiamo per ora la ricerca a un viaggio in relazione alla ragione illuminista lungo qualche tappa la varietà della ‘ragione’ scientifica.

A questo scopo esamineremo brevemente ad alcune situazioni paradigmatiche e altamente significative tra i quali la riforma del sistema di misura e la controversia sugli infinitesimi, in quanto casi esemplari accanto all’ambiguità di certe sopravvivenze magiche nella stessa scienza, lungo un percorso ‘critico’ della ragione illuminista in contrapposizione a un altro percorso più ‘duro’ e dogmatico che da Leibniz e Roussseau, porta a Hegel e Compte.

 

Gli infinitesimi e Berkeley

Contemporaneo di Galilei, Bonaventura Cavalieri inventò un metodo di calcolo, in cui una linea era una somma infinita di punti, un’area una somma infinita di segmenti e un volume una somma infinita di piani. La sua opera,nota come geometria degli indivisibili, fu giudicata come un tentativo di raccogliere l’acqua con un setaccio.

Cavalieri incredibilmente ottenne grandi risultati. Oltre che confermare risultati già noti, calcolò lunghezze, aree e volumi mai prima calcolati. Nonostante questi successi non riuscì a convincere i contemporanei: quegli strani indivisibili puzzavano troppo di zolfo. Inutilmente si difese sostenendo i suoi indivisibili erano solo scorciatoie.

Gli indivisibili, queste fantomatiche entità che erano e non erano, ma dei quali si doveva comunque parlare, furono presto abbandonati. Con la nuova geometria algebrizzata di Fermat e di Cartesio, gli indivisibili scomparvero, ma nacquero gli infinitesimi loro stretti parenti. La geometria era cambiata, ma anche nella nuova si tornò a parlare di quantità infinitamente piccole e di aree calcolate come somme di infiniti segmenti. (1) Il sospetto che aveva afflitto gli indivisibili si trasferì sui non meno eretici infinitesimi; L’Analisi ottenne un grandioso sviluppo, nonostante l’incomprensibile e oscura irrazionalità di quegli “infinitesimi” che costituivano la sua base concettuale. La situazione era così ‘razionalmente’ disastrosa, che fu facile, anche per un non addetto ai lavori come il vescovo Berkeley, provocato dall’astronomo Halley “sull’inconcepibilità delle dottrine cristiane” ritorcere quelle stesse accuse contro il celebrato Calcolo e rispondere:

 

“Chiederò per me il privilegio del Libro Pensatore e mi prenderò la libertà di ricercare sull’oggetto, sui principi, e sul metodo di dimostrazione ammessi dai matematici del tempo presente, con la stessa disinvoltura con cui voi presumete di trattare i principi e i misteri della religione.”

 

E, dopo questo esordio, passare subito al punto dolente del concetto di infinitesimo. Che senso ha affermare che 9,8 + 4,9dt è la stessa cosa che 9,8?

 

“4,9dt è qualcosa o è nulla; se è nulla tutto il calcolo salta, se è qualcosa le due espressioni non sono uguali. Forse i matematici intendono che 4,9dt è così piccolo da essere trascurabile?” Si chiede Berkeley “Ma, se è questo che intendono, dove va a finire quel rigore inflessibile che li inorgoglisce e che li induce a sostenere che in rebus mathematicis errores quam minimi non sunt contemnendi?”.

 

Insomma conclude Berkeley nessuna dottrina teologica è così razionalmente oscura e inconsistente come queste teorie matematiche. Se la teologia richiede la fede perché è inconcepibile, allora che dire delle teorie dei matematici?

Leibniz vide nella ragione lo strumento infallibile per arrivare a dirimere ogni questione e a risolvere ogni problema. Non solo nutrì questa fiducia ma individuò nella logica formale fondata da Aristotele e dagli stoici lo strumento da riformulare e perfezionare fino al raggiungimento di quello scopo. La sua fiducia nella logica come strumento di calcolo era tale da fargli affermare che gli uomini in futuro di fronte a una disputa avrebbero potuto sedersi in pace e calcolando risolvere la disputa discriminando il vero dal falso.

Con Hume, come è noto, la ragione illuministica si fa scettica e la lettura di Hume causò in Kant un totale cambio di prospettiva che lo stesso Kant caratterizzò come un “Risveglio da un sonno dogmatico.” Si potrebbe pensare in base a queste parole, a un precedente Kant sottomesso ai dogmi della religione, ma già prima di leggere Hume, Kant, attraverso gli epigoni dell’illuminista Leibniz (come Wolff), abbracciava una visione illuministica del mondo. Ma allora perché Kant caratterizza questo periodo del suo pensiero come sonno dogmatico, se non considera dogmatico quel tipo di illuminismo? L’episodio mostra chiaramente come l’illuminismo viaggiasse per strade molto differenziate. Kant lo testimoniò chiaramente interpretando la sua conversione da un illuminismo da lui definito ‘sonno dogmatico’ a un altro che riservava alla ragione non compiti di costruzione razionale ma piuttosto compiti di demolizione di concetti consolidati, che, come il concetto di causa, erano considerati veri e propri dogmi filosofici.

La successiva speculazione di Kant è dunque ancora illuminista. Lo è per la centralità dell’uomo come fonte di acquisizione della verità, per le capacità dell’uomo di ordinare i dati sensibili, e per la funzione critica assegnata all’attività filosofica volta a determinare i limiti della conoscibilità umana, al fine di evitare ogni forma di dogmatismo sia quello di stampo tradizionale e teologico sia quello razionalista di impronta illuminista. Con la Critica della Ragion Pura vengono abbattute la possibilità di pervenire con la ragione al mondo, all’anima a Dio e si demolisce l’idea che con la ragione si possa pervenire a risolvere ogni problema.

 

La questione di Newton

Il meccanicismo di Cartesio pareva aver eliminato tutte le ‘azioni a distanza’ tipiche delle filosofie naturali precedenti. Con la sua legge sulla conservazione della quantità di moto, Cartesio poté offrire una spiegazione ‘razionale’ tanto degli eventi fisici osservabili sulla terra che del funzionamento e della formazione dell’universo. Una stessa legge era sufficientemente esplicativa e valeva nel microcosmo come nel macrocosmo; una stessa legge valida per tutto l’universo diveniva quel principio di ‘razionalità’ che permetteva agli scienziati di dichiarare sconfitto l’animismo della magia, dell’alchimia, dell’occulto delle forze invisibili benigne o maligne a cui si ispiravano ‘l’irrazionalità’ delle precedenti filosofie della natura la cui caratteristica era proprio la mistica ‘azione a distanza’.

Quando Newton pubblicò i suoi risultati, il mondo scientifico dovette constatare che tutta la capacità esplicativa del suo sistema si basava sulla legge della gravitazione universale che presupponeva l’esistenza di una forza (quella di gravitazione) che agiva a distanza.

La fisica di Newton era assai più esplicativa di quella di Cartesio; tutti i fenomeni meccani dal moto dei pianeti, alla caduta dei gravi potevano essere ‘calcolati’ ma, ripristinando l’azione a distanza, la legge di gravitazione universale, pareva riportare la spiegazione fisica all’irrazionalità della magia e delle ‘influenze’ che a molti parve un regresso verso l’occulto.

Per questa ragione per molti anni la fisica di Cartesio riuscì a conservare fautori accaniti. Più in avversione al ‘magico’ della gravitazione di Newton che in adesione alla sua fisica dell’urto.

Il tentativo di rendere accettabile la fisica di Newton passò dunque attraverso una ‘razionalizzazione’ intesa come via di unificazione sotto un’unica legge, prima tentando di ridurre la seconda (di Newton ) alla prima (quello di Cartesio) e solo in un secondo di ridurre la prima alla seconda.

Il tentativo di ridurre la fisica dell’urto, del meccanicismo dell’orologio a quella dell’azione a distanza era significativo perché in un certo senso ci dice che l’accettazione di una certa idea, anche quella mostruosa dell’azione a distanza sia in gran parte determinata dal tempo e dall’abitudine. Se un’idea ci sconvolge, la difficoltà di confutarla e il tempo ci aiutano a metabolizzarla e ad accettarla.

E’ significativo il tentativo di Boscovich (1711- 1787) che testimonia quanto ormai la nuova forza newtoniana dell’azione a distanza, prima giudicata irrazionale magica e incomprensibile, era divenuta ormai l’unico vero paradigma di comprensione mentre, al contrario, il ‘comprensibile’ e laico urto suscitasse dubbi di razionalità. Nello svolgersi dell’urto fra due bilie, come sottolinea Boscovich, si può passare per entrambe di colpo e con discontinuità dall’immobilità al movimento. Più in generale la bilia A che colpisce passa di colpo da una velocità V1 a una V2, e la B, che è colpita, passa di colpo da una velocità V3 a una V4 e questo costituisce un’evidente violazione di quel principio di ‘comprensibilità’ secondo il quale la natura in generale e la velocità della biglia in particolare non fa salti.

Ciò induce Boscovich a suggerire che ogni corpo agisca sugli altri secondo una doppia forza di attrazione e repulsione, entrambe a distanza. La prima diminuisce con la distanza mentre la seconda, sempre con la distanza, aumenta ma in maniera molto più forte. Quando una bilia si dirige contro una un’altra la sua forza di repulsione aumenta progressivamente vincendo prima la forza di attrazione e poi diventando così forte man mano che si avvicina da spostare l’altra bilia. Quando la distanza fra le due è piccola viene percepita come un urto, mentre in realtà il contatto non avviene.

Il decrescere e l’incrementarsi della velocità in modo continuo veniva poi spiegato in coerenza con le idee dello spazio e del tempo, ma questo esula dalla nostra discussione.

 

La razionalità secondo Mach

Mach, scienziato, storico e critico della scienza giunse a negare che potesse esistere un criterio di razionalità a cui ricondursi e a concludere che la spiegazione scientifica non riconduce “la non intelligibilità ” a “intelligibilità”, ma piuttosto “si riconducono inintelligibilità insolite a intelligibilità usuali”. (2)

Mentre Mach nella sua critica ai concetti della meccanica giungeva a queste ‘sconfortanti’ conclusioni sulla “razionalità” i logici Frege e Russell cercavano di esplicitare almeno in parte il sogno di Leibniz. La loro opera non fu solo una concezione realista e platonica della logica e della matematica; non fu neppure solo un tentativo di ridurre la logica alla matematica, ma un innovativo e fondante tentativo di logicizzare il linguaggio introducendo una distinzione fra struttura linguistica superficiale e struttura logica profonda. Questa distinzione e lo studio della struttura logica del linguaggio avrebbe dovuto permettere di formare frasi corrette e sensate, di trasformarle in maniera sensata e corretta e di compiere inferenze e ragionamenti corretti.

In realtà il tentativo ‘ragionalizzante’ non resse né al tempo né all’analisi critica. A demolire la ragione fu la ragione stessa. Quella stessa attività che si era dimostrata così efficace nel distruggere rigidità dogmatiche, dogmatismi religiosi, autorità culturali non fu altrettanto sicura nel costruire. In suo nome furono costruite cattedrali di pensiero ma in quello stesso nome quelle stesse cattedrali furono demolite.

Intanto la ragione distruttrice (quella di Kant, di Poincarè, di Hume, di Berkeley, di Voltaire, di Mach, di Wittgenstein per citare solo qualche nome) continuò a percorrere le vie del dubbio e della demolizione pronta ad aggredire ogni dottrina, ogni mito, ogni teoria fino a che aggredì, demolì e divorò se stessa perché lo stesso concetto di ragione conteneva in se stessa, nel suo paradigma di azione, le ragioni della propria distruzione. A ciò contribuì sia la ragione edificatrice con i suoi insuccessi sia la ragion critica, vero mostro insaziabile nel sottoporre ai suoi tribunali ogni cosa e quindi anche se stessa.

Oggi che possiamo dire di termini quali ‘ragionare’, ‘operare secondo ragione’, ‘razionalizzare’? In definitiva si può pervenire almeno parzialmente solo ad una o più accezioni o ampie aree di senso, una di queste riguarda proprio quel semplice esempio di ‘razionalizzazione’ che fu l’invenzione e l’adozione del sistema metrico decimale.

Ciò che viene spontaneo è dire che fu compiuta un’opera di ‘razionalizzazione’ anche se lo stesso termine pare potersi correttamente riferire a operazioni così diverse da rievocare quella “somiglianza di famiglia” di cui parla Wittgenstein.

L’analisi di Wittgenstein da una parte invita a considerare l’elemento positivo consistente in quel qualcosa in comune che è l’aria di famiglia e dall’altra pone l’accento sull’elemento negativo consistente nell’impossibilità di concettualizzare. D’altra parte quell’aria di famiglia qualcosa lo è, il che ci porta a considerare che individuare una vaga e cangiante parentela è poco rispetto a una precisa definizione concettuale ma è pur sempre qualcosa.

 

Sistema metrico decimale

Ora la razionalizzazione operata con l’introduzione del sistema metrico decimale consisté nel sostituire un sistema di misura ‘irrazionale’ in quanto procedeva con unità di misura differenti da regione e regione e addirittura all’interno di una stessa regione, connesse fra loro con multipli e sottomultipli diversi, con un sistema ‘Razionale’ che unificava le unità di misura in un’unica unità e procedeva per multipli e sottomultipli ottenuti moltiplicando o dividendo per dieci.

L’universalità del nuovo sistema sostituiva una moltitudine di sistemi locali diversi fra loro anche se in teoria traducibili l’uno nell’altro. I vantaggi erano dunque l’adozione di un campione unico relativamente inalterabile nel tempo, la costanza fra multiplo e sottomultiplo, la facile manovrabilità del numero dieci nelle operazioni di moltiplicazione e divisione che caratterizzava questa costanza, la diffusione completa nella nazione come unico sistema ufficiale e legale.

I vantaggi evidenti erano dunque la facilità di memorizzazione, di apprendimento, di calcolo, di trascrizione e la certezza che in ogni luogo il sistema fosse lo stesso e non una Babele.

Nasce spontanea la domanda se il sistema sia stato caratterizzato come più razionale solo perché più semplice e maneggevole. La risposta potrebbe essere che il sistema era non solo più semplice ma qualcosa di più; un qualcosa che si può verificare confrontando le due mappature: prima una babele apparentemente inestricabile, poi una forma regolare facilmente riconoscibile e tanto manovrabile da mutare totalmente la sua configurazione e trasformare la babele in un sistema di comunicazione espresso in un unico linguaggio e con un unico sistema di orientamento per muoversi. Il sistema veniva a costituire un linguaggio unico che andava a sostituire una molteplicità di dialetti e poneva dei punti fissi a cui tutti gli interessati potevano ancorasi per utilizzare gli stessi sistemi d’orientamento.

Non ha neppure senso dire che comunque erano tutti traducibili e quindi equinformativi perché nella realtà, nel nuovo sistema ci si capiva, l’errore era più difficile e le applicazioni come il catasto, i viaggi, le valutazioni i commerci, i pedaggi e così via erano più “informati”. In definitiva si parlava un linguaggio pubblico. Non c’è nulla di più insensato e irrazionale dell’adozione di un linguaggio privato, capito solo da chi lo adotta.

Considerando questo esempio, potremmo dire che una razionalizzare di questo tipo si riferisce ad una molteplicità di operazioni tra cui importante è le operazioni di riduzione. Potremmo dire che consiste in una serie di oggetti, di fatti, di significati, di azioni e in una teoria che li connette, ma potremmo ugualmente dire che razionalizzare è inserire uno schema, una sequenza ordinata, un ordine. Tutte operazioni queste che ci consentono di riscoprire i fatti in una configurazione che riconosciamo, ed entro la quale quegli stessi fatti che prima ci parevano, alieni, irrelazionati assumono di colpo una molteplicità di connessioni riconoscibile come informazioni ordinate, memorizzabili o calcolabili. Tutte caratteristiche queste che ci rinviano al significato di informazione o di informare nel senso di dare una forma, una configurazione, una teoria.

In un certo senso riconoscere una configurazione razionale è un’esperienza uguale a quella di riconoscere un volto, un animale in una serie di macchie. Non è detto che l’insieme sia sensato o che la teoria sia giusta, l’importante che la riconosciamo come tale, che ci sia famigliare, che riusciamo a “impararla” a “capirla”, che, in altre parole, si dia secondo una forma. E le forme, le configurazioni, le teorie sono miniere di informazioni. Teorizzare, razionalizzare ha spesso il significato piacevole di rassicurare, perché è rassicurante leggere e decifrare facilmente ciò che prima ci appariva tanto difficile da rasentare l’incomprensione.

 

Razionalizzare

Si può meglio precisare il senso di razionalizzare se lo si pensa come un “ricondurre a” . Ricondurre a una forma a un’altra teoria con forma più connessa, a un altro concetto, ecc.

Tutta la concettualità connessa all’attività di ridurre a, ricondurre a al “riduzionismo” insomma è attività di razionalizzazione. Quando un insieme di dati sconnessi riesce a essere ricondotto a una teoria, ampliamo l’abito della teoria e della razionalizzazione della realtà, quando riusciamo a misurare a connettere le grandezze in formule in un certo senso riconduciamo quel complesso di fenomeni alla teoria matematica. Alla base della razionalizzazione sta l’operare concettualizzazioni, teorizzazioni e riduzioni.

Il problema del riduzionismo potrebbe essere condensato in una domanda: esiste la possibilità di ridurre le nostre conoscenze ad un albero del sapere? Questa domanda può essere esemplificata con domande più deboli e parziali del tipo: la fisica è riconducibile a una teoria dei fenomeni? La matematica è riducibile alla logica? Le varie discipline scientifiche sono riconducibili a un'unica scienza?

Volendo restringere, almeno inizialmente, il campo e rivolgere l'attenzione a un singolo problema, assunto come esemplare, è difficile non scegliere quello della riduzione della matematica alla logica, sia perché ampiamente dibattuto, sia per la forte personalità filosofica dei molti pensatori che lo affrontarono anche indirettamente. Paradigmatici sono i percorsi filosofici di Russell e Wittgenstein, deciso sostenitore il primo della riducibilità della matematica alla logica, ferocemente contrario, il secondo.

La novità della posizione di Wittgenstein non fu tanto nel fatto di rifiutare questo o quel riduzionismo, ma di rifiutarne l'idea come abito mentale. In questo senso non confuta questa o quella teoria riduzionista con argomenti presi dall'interno. Discutere secondo simili modalità significherebbe accettare almeno parzialmente il terreno e le regole dell'avversario e quindi un tipo di logica e un contesto teorico e semantico, che una volta accettato, definisce irrimediabilmente il contesto di senso e non senso che è invece l'effettivo argomento da discutere. Accettando quel contesto si presuppone, non la validità di quello o questo paradigma di riduzione, ma la possibilità che un simile paradigma esista.

Il riduzionismo è possibile e sensato purché se ne intendano i limiti (questo Wittgenstein non lo comprende). Il problema della validità del riduzionismo e di questa o quella riduzione ricalca il problema della verità del teorizzare o di questa o quella teoria.

Anche qui è una questione funzionale e la riduzione è una teoria che ci dà informazioni. Frege e Russell costruiscono una teoria in cui i numeri sono definiti logicamente e insiemisticamente e, anche se i numeri inseriti in questa teoria non sono più numeri nella loro completezza di significato, questo non vuol dire che la teoria di Frege e Russell e, quindi, la loro riduzione della matematica alla logica, sia insensata. Sbagliavano Russell e Frege a ritenere di aver ridotto la Matematica alla logica e sbaglia Wittgenstein a ritenere questa riduzione priva di ogni senso. Il problema del riduzionismo è, in questo senso, un falso problema; come tutte le teorie, assimila, informa e, informando, occulta e deforma. Il riduzionismo è una forma di assimilazione.

 

Nonostante ciò, sembrerebbe che il problema del riduzionismo sia un problema di grado e che sia pressoché impossibile dare una risposta generale se non si dà una risposta al problema primario di cosa siano le teorie in generale, ma questo non vuol dire che ogni riduzione sia insensata. Se così fosse non funzionerebbe nulla nel nostro comprenderci e nel nostro comunicare. Riconoscere che il nostro comunicare non è una completa babele significa accettare una certa possibilità di operare riduzioni.

In definitiva pare che razionalizzare significhi ricondurre a “coerenza con” ma una simile asserzione come, del resto, l’operazione di riduzione ha dei nemici acerrimi.

Alla base del pensiero di Wittgenstein sta il suo estremo antiriduzionismo ben presente oltre che nelle Ricerche filosofiche, nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica e nella Grammatica filosofica.

Un atteggiamento antiriduzionista anima questi scritti e non solo in relazione al riduzionismo matematico. L’antiriduzionismo si manifesta in maniera così radicale da indurre Bernays a bollarlo come un irrazionale atteggiamento distruttivo, condotto senza alcun chiaro fine, verso il pensiero speculativo.

Le Osservazioni non hanno un impianto unitario; sono successioni di pensieri, esempi, impressioni, appunti scritti, in periodi diversi, forse in preparazione di un saggio che poi non fu mai scritto. Un filo conduttore però c'è. Wittgenstein si esprime sia contro il formalismo, sia contro il logicismo e in genere contro ogni pretesa di dare un fondamento, un impianto unitario alla matematica. Anche se talvolta il suo discorso ricalca il pensiero finitista o intuizionista, Wittgenstein è in effetti lontano da ogni teorizzazione. Sembra quasi che la sua profonda avversione per ogni dottrina, per ogni teoria che sarebbe, in ogni caso, "una" (sola) teoria sul "mondo" (tutto) lo metta in guardia dall'esprimere una sua teoria. Il suo atteggiamento filosofico è ossessivamente avverso a ogni tentativo che, in qualche modo, cerchi di unificare concettualmente tutto ciò che va sotto il nome di "Matematica". Tutto il trattato è un ossessionante esposizione di esempi a confutazione del principio di estensionalità: per Wittgenstein il pensiero secondo il quale concetti con ugual estensione sono interscambiabili, è la malattia della filosofia.

Se i Principia di Russell rappresentano, in matematica, l'estremo riduzionismo (dove il riduzionismo avviene dalla matematica alla logica), gli sparsi pensieri di Wittgenstein. rappresentano l'antiriduzionismo teorico estremo, che si manifesta come opposizione a ogni unità di significato della matematica e quindi a ogni tipo di fondazione della stessa matematica.

Così il numero 60 non è lo stesso che il numero 6x10 (la pratica della vita lo testimonia: si può essere capaci di fare sei mucchietti da dieci o dieci da sei senza saper contare fino a 60), la retta popolata da numeri non rappresenta la potenza del continuo, il calcolo letterale è irriducibile a quello numerico, il calcolo nella notazione decimale è altra cosa rispetto a quello eseguito con bastoncini. I numeri del pallottoliere non sono quelli definiti dal logicismo.

Tutto ciò non viene argomentato, ma viene illustrato da esempi che fungono da esemplari. Per Wittgenstein tutto il riduzionismo si basa sulla perdita d'identità, sul camuffamento: "Se li avvolgiamo in una quantità sufficiente di carta, tavoli, sedie, sbarre, alla fine, ci sembrano sfere" (2.52)
Secondo le Osservazioni un numero irrazionale è la legge che lo genera. In casi come questi sembra che, per Wittgenstein, il carattere definitorio sia di tipo genetico, ma qui il “genetico” non è né sistematico né definitorio e pare più l'occasione per divaricare identità e negare possibilità d'estensione. Paradossalmente qui si potrebbe sostenere che se una stessa p può essere dimostrata con due o più metodi, quelle p non possono condividere pienamente il senso.

Wittgenstein non da alcun peso al fatto che con i “numeri” della logica si riesca a pervenire agli stessi teoremi a cui si perviene con i “numeri” della matematica. Per lui i due tipi di numeri non sono gli stessi numeri. Fare calcoli con numeri grandi diventa impossibile se si usano i numeri intesi come classi di classi ed è inutile dire che in teoria sarebbe possibile; anche misurare la distanza dalla terra alla luna con un righello è possibile in teoria, ma in effetti non si può fare. Possiamo assimilare fra loro numeri diversi, ma solo al prezzo camuffarli, di perdere qualcosa (ad esempio, la semplicità di certe operazioni, la loro coordinazione nelle varie notazioni posizionali), di ridurli a maschere impotenti e goffe. Il formalismo logico, lungi dal fondarli, li appesantisce e li traveste.

Al più Wittgenstein sarebbe disposto ad ammettere che i numeri dei Principia sono cose che, all'interno dei Principia e del suo orizzonte teorico, si comportano più o meno come gli altri tipi di numeri all'interno dei rispettivi orizzonti teorici, ma, in ogni caso, quei numeri non sono quegli altri numeri: i numeri dei Principia, non sono quelli di Peano, non sono quelli dell'abaco e neppure quelli di Kroneker.

La novità della posizione di Wittgenstein non fu tanto nel fatto di rifiutare questo o quel riduzionismo, ma di rifiutarne l'idea come abito mentale. Ma ha senso una posizione così radicale?

Anche qui è una questione funzionale e la riduzione è una teoria che ci da informazioni.

Se ogni riduzione fosse insensata non funzionerebbe nulla nel nostro comprenderci e nel nostro comunicare. Riconoscere che il nostro comunicare non è una completa babele, significa accettare una certa possibilità di operare riduzioni.

 

Forma e informazione

Se si esamina la teoria di Boscovich si comprende che sia sì un capovolgimento di intellegibilità nel senso che l’abitudine intellettuale rende intellettualmente intellegibile la forza di gravità che perde così il suo concettuale valore aggiunto di tipo animistico (di cui era non poco responsabile lo stesso Newton almeno per due motivi: il primo concernente i concetti di spazio e di tempo assoluti, il secondo concernente l’idea mistica dello spazio come Sensorium Dei attraverso cui Dio osserva e provvede alle creature) ma anche un tentativo di unificare le forze d’urto con quelle di gravità riducendo le prime alle seconde per poter affermare un universo governato da un’unica forza. Un’unica forza significa anche un unico paradigma, un’unica legge, un’unica forma concettuale che espressa matematicamente e interrogata è in grado di dare informazioni.

 

La rassicurazione delle teorie è qualcosa di più generale e vitale della rassicurazione stessa. Essa ci porta direttamente alla sopravvivenza di noi uomini come uomini informatici ossia come esseri con varianti genetiche strutturali predisposte verso l’acquisizione e l’elaborazione di teorie che rendano comprensibile una realtà prima incomprensibile e quindi vissuta come paurosa e pericolosa, sostituendola con una realtà che, consentendoci previsioni sicure, la rendono meno paurosa.

In questo senso l’uomo è diventato l’uomo raziocinante, l’uomo teorizzante o l’uomo informatico. Le teorie colonizzano la realtà ed entrano a far parte delle nostre case simboliche al cui riparo affrontiamo il mondo.

Questo ci porta al cuore del problema. Le teorie assolvono tanto meglio il loro compito quando, interrogate sono in grado di fornirci tutte le risposte, ancor più rassicuranti quando possono farlo su tutti gli argomenti e totalmente rassicuranti quando lo possono fare sull’uomo che abita il mondo con altri uomini; non l’uomo della fisica o della chimica, in quanto fatto di atomi, di molecole di leggi fisiche e chimiche ma di quell’essere complesso fato di carne, sangue, sogni paure ecc. che si interroga ed elabora le teorie per dare le risposte.

In altre parole noi uomini tendiamo ovviamente con tutta la nostra tenacia a ricercare, elaborare, usare teorie totalmente decidibili e compromesse ossia proprio le teorie più pericolose.

 

Il razionalismo illuminista, che nasce come nemico e demolitore del dogma e che, in nome della ragione, guarda con orrore alle guerre di religione e alle teorie “Armoniose” di tipo religioso, giunge anche al grottesco della Dea Ragione.

Il mito della ragione illuminista permeò una cultura ma questa cultura non continuò (o non concepì fin dall’inizio) uno stesso concetto di ragione. Il romanticismo fu ed è effettivamente stato una reazione alla ragione astratta dell’illuminismo. A questa ragione astratta i romantici opposero le ragioni della storia, delle tradizioni, dei miti, dei costumi, dei sentimenti ma in parte la incorporarono nei loro sistemi d’interpretazione della storia. Da questo crogiolo, come già ampiamente detto, si generarono due vie diverse per intendere la razionalità del mondo. Con Hegel la ragione diveniva la logica del comprendere e contemporaneamente la logica dell’essere e del divenire e così per Hegel, la storia come la natura, divenne razionale come razionale era la logica con cui lo spirito conosceva quella storia e quella natura, Per Hegel “Ciò che razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Comunque la si voglia interpretare, questa formula più volte richiamata da Hegel, ci invita a considerare razionale e necessario lo svolgersi degli eventi storici. Hegel originò un movimento e creò un paradigma. Anche Marx si sentirà in dovere di completare il suo materialismo storico con un materialismo dialettico che rendeva congeneri i mondi della storia e della natura.

Accanto a questo paradigma forte andava sviluppandosi però anche un altro paradigma che potremmo chiamare della ragione distruttrice. La ragione, quella stessa ragione che si era dimostrata strumento così efficace e potente nel demolire rigidità dogmatiche, dogmatismi religiosi, autorità culturali, non fu guida altrettanto sicura nel costruire. Resa così universale, così totalitaria e eretta a tribunale per “tutte” le teorie e le facoltà fu altrettanto efficace nell’aggredire se stessa. In sostanza, se in suo nome si continuò a costruire cattedrali del pensiero, sotto quello stesso nome si continuarono a demolire le vecchie e le nuove cattedrali ed anche quella stessa cattedrale che concettualizziamo come “Ragione”. Il paradigma della ragion distruttrice aggredì la stessa ragione e questa non resse né al tempo né all’analisi critica: fu la ragione a demolire se stessa.
Mentre da una parte con Hegel, con la sua scuola, con Marx, con Comte, la ragione erigeva le sue cattedrali e dominava la storia; dall’altra la ragione distruttrice (quella di Kant, di Hume, di Berkeley, di Voltaire, di Poincarè, di Mach, dello storicismo) continuò a percorrere le vie del dubbio e della demolizione, pronta ad aggredire ogni dottrina, ogni mito, ogni teoria fino ad aggredire, demolire e divorare se stessa perché lo stesso concetto di ragione conteneva in se stesso, nel suo paradigma, le ragioni della propria distruzione. A ciò contribuirono sia la ragione edificatrice con i suoi insuccessi sia la ragion critica, vero mostro insaziabile nel sottoporre ai suoi tribunali ogni cosa e, quindi, anche se stessa.

 

Dal mito della ragione si generano due filoni di pensiero e di azione di cui uno giunge a produrre una nuova metafisica dura e con essa dopo un lungo percorso torna, con Comte con Hegel, con Marx, con lo stato etico, al luogo politico di origine cioè all’intolleranza e alla società armoniosa, mentre l’altro, lungo un percorso di costante critica attraverso Hume, Voltaire, Kant, Mach, Poincarè, ecc. perviene faticosamente alla cultura della tolleranza epistemologica ed ermeneutica, a cui corrisponde in politica la cultura liberale democratica.

Il ritorno costante e periodico del pensiero al luogo di origine ossia all’elaborazione di teorie a totale decidibilità e compromissione, è una costante della storia umana. Da una parte questa circolarità ci informa sulla differenza strutturale tra le tirannie tradizionali e gli stati totalitari e dall’altra ci induce a pensare a una strutturale e irresistibile tendenza dell’uomo verso l’elaborazione e la messa in opera di teorie politiche le cui caratteristiche di armoniosità, totale decidibilità e compromissione si implicano a vicenda.

Del resto è facilmente intuibile che l’uomo teorizzante sia sopravvissuto e si sia evoluto come tale, anche in virtù della natura salvifica del teorizzare o sapere. Ed è del tutto naturale che ricerchi e sia propenso ad adottare teorie in grado di rispondere a ogni domanda. Ricercare e adottare teorie il più possibile ampie e decidibili è auspicabile in generale per discipline come la fisica e la chimica con cui si può inferire circa l’uomo meccanico, l’uomo cinematico, l’uomo fatto di atomi e molecole ma non circa l’uomo vero, fatto di carne ecc., che vive con gli altri uomini in società. Queste teorie, ossia quelle altamente compromesse come quelle sociali e politiche che coinvolgono l’uomo, sono tanto più pericolose quanto più sono complete e decidibili.

 

   Ezio Saia

 

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NOTE

1) Un sospetto che durò almeno due secoli fino a che Causchy e Weierstrass non inventarono una procedura che otteneva gli stessi risultati, ma non parlava di infinitesimi. L’analisi poté essere trascritta e redenta dal rigore che il nuovo metodo permetteva.
Nella seconda metà di questo secolo, quegli stessi infinitesimi, che secondo Leibniz costituivano la grana fine dell’universo accessibile solo all’intelligenza infinita di Dio, si presero la rivincita, divenendo legittimi e non eretici cittadini nei mondi dell’analisi non standard inventata ( o scoperta o costruita, o fondata) da Robinson.

2) Mach 1872, p.31 la citazione proviene da un articolo di A. G. Gargani contenuto in Filosofia ’90 a cura di G. Vattimo.


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