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Vecchio 26-12-2015, 11.41.03   #51
pepe98
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Per me significa qualcosa di simile al sonno senza sogni (assenza di sensazioni fenomeniche coscienti) che si prolunga indefinitamente, per sempre.
Ma sarebbe un sonno che non si percepisce, quindi non ha neanche senso parlare di sonno. Potremmo ugualmente dire che sua qualcosa di simile ad una veglia senza sensazioni. In ogni caso è qualcosa che non si percepisce, non ha senso dargli una tale definizione. Il nulla che si prolunga all'infinito. Ma se c'è il nulla, non c'è il tempo. Non ha senso dire che si prolunga all'infinito, perché di fatto non si prolunga neanche, dura niente, è nulla. Tu come essere cosciente non esisti proprio oltre l'istante della tua morte. Eppure vita sei stato cosciente, tuttavia ad un tratto il tempo per te si ferma. Il buon senso ti trae in inganno, si è giunti ad un punto in cui bisogna provare a riformulare i concetti di TEMPO.
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Vecchio 26-12-2015, 18.39.10   #52
sgiombo
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Originalmente inviato da pepe98
Ma sarebbe un sonno che non si percepisce, quindi non ha neanche senso parlare di sonno. Potremmo ugualmente dire che sua qualcosa di simile ad una veglia senza sensazioni. In ogni caso è qualcosa che non si percepisce, non ha senso dargli una tale definizione. Il nulla che si prolunga all'infinito. Ma se c'è il nulla, non c'è il tempo. Non ha senso dire che si prolunga all'infinito, perché di fatto non si prolunga neanche, dura niente, è nulla. Tu come essere cosciente non esisti proprio oltre l'istante della tua morte. Eppure vita sei stato cosciente, tuttavia ad un tratto il tempo per te si ferma. Il buon senso ti trae in inganno, si è giunti ad un punto in cui bisogna provare a riformulare i concetti di TEMPO.

Si, certo, il nulla che segue la morte (come quello che precede la nascita) ovviamente non ha (fra l ' altro) durata temporale: é eterno. Come i due tratti infiniti in cui un segmento (finito) divide una retta.

D' altra parte il concetto di "infinito prolungarsi nel tempo (eternità) del nulla" precedente la nascita e seguente la morte equivale alla non esistenza del tempo (prima e dopo la vita cosciente, esperita): non accadendo alcunché non v' é tempo, il quale altro non é che una misura del mutamento.

Il tempo prosegue casomai per gli altri che ci sopravvivono, così come prosegue per ciascuno di noi ogni volta che assiste alla morte di un conoscente: non c' é più nulla (nemmeno il tempo) per il morto, per quanto si prolunghi il tempo per i sopravvissuti.

Forse la risposta migliore alla tua formidabile domanda (cosa vuol dire "cessare di esistere") é:

la stessa (non) cosa, lo stesso (non) accadere (nulla) di prima di iniziare ad esistere.
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Vecchio 26-12-2015, 20.12.42   #53
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Originalmente inviato da sgiombo
Si, certo, il nulla che segue la morte (come quello che precede la nascita) ovviamente non ha (fra l ' altro) durata temporale: é eterno. Come i due tratti infiniti in cui un segmento (finito) divide una retta.

D' altra parte il concetto di "infinito prolungarsi nel tempo (eternità) del nulla" precedente la nascita e seguente la morte equivale alla non esistenza del tempo (prima e dopo la vita cosciente, esperita): non accadendo alcunché non v' é tempo, il quale altro non é che una misura del mutamento.

Il tempo prosegue casomai per gli altri che ci sopravvivono, così come prosegue per ciascuno di noi ogni volta che assiste alla morte di un conoscente: non c' é più nulla (nemmeno il tempo) per il morto, per quanto si prolunghi il tempo per i sopravvissuti.

Forse la risposta migliore alla tua formidabile domanda (cosa vuol dire "cessare di esistere") é:

la stessa (non) cosa, lo stesso (non) accadere (nulla) di prima di iniziare ad esistere.
E che cosa accadeva infatti a te, prima che iniziassi ad esistere? Anche il prima della nascita è un "sonno senza sogni"che si prolunga all'infinito. Ma il fatto è che come per te non esiste un prima della nascita, per te non esiste un dopo la morte. Questo è ovvio, ma quali sono le implicazioni di ció? Quello che siamo portati comunemente a pensare, è che la nostra esistenza aspetti lo scorrere del presente nel tempo. Ma cosa è questo presente? Qualcosa che si muove nel tempo? E se invece il presente non fosse uno, ma fossero molti? Ognuno fisso, fermo, per ogni istante dell'esistenza? Avremmo dato una risposta alla domanda iniziale, oltre ad aver risposto a molti interrogativi che da tempo occupano i filosofi. Non è tutto più evidente ora? Tutto più sensato, più logico. Solo ora ci si accorge che il pensare alla morte come alla "non più esistenza", non ha senso, non è logico. Che senso ha il presente che si muove nel nulla? Il tempo è una struttura fissa, fatta di presenti, che, in quanto tali, coesistenti. Lo scorrere del tempo è un'illusione dei sensi, contabile piuttosto facilmente. Ci sembra così normale il mutamento, finché esistiamo seppur mutati, finché non arriviamo al mutamento inteso come "non più esistenza della propria coscienza", in quanto quest'ultimo non possiamo spiegarlo col senso comune.
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Vecchio 28-12-2015, 09.41.28   #54
sgiombo
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Originalmente inviato da pepe98
E che cosa accadeva infatti a te, prima che iniziassi ad esistere? Anche il prima della nascita è un "sonno senza sogni"che si prolunga all'infinito. Ma il fatto è che come per te non esiste un prima della nascita, per te non esiste un dopo la morte. Questo è ovvio, ma quali sono le implicazioni di ció? Quello che siamo portati comunemente a pensare, è che la nostra esistenza aspetti lo scorrere del presente nel tempo. Ma cosa è questo presente? Qualcosa che si muove nel tempo? E se invece il presente non fosse uno, ma fossero molti? Ognuno fisso, fermo, per ogni istante dell'esistenza?

Lo si può pensare, ma così non é di fatto: la nostra esistenza scorre nel tempo, presente in ciascun istante che era futuro per gli istanti precedenti e sarà passato per gli istanti successivi, da un inizio (non prima) a una fine (non dopo): i (gli istanti) presenti sono molti, anzi infiniti, ma ciascuno di durata infinitamente breve, trapassando continuamente da futuro che era a passato che sarà.


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Originalmente inviato da pepe98
Avremmo dato una risposta alla domanda iniziale, oltre ad aver risposto a molti interrogativi che da tempo occupano i filosofi. Non è tutto più evidente ora? Tutto più sensato, più logico.

No.
Semplicemente questo "tutto" é solo immaginario, forse più piacevole, ma comunque non vero (non descrive la realtà per come effettivamente é).

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Solo ora ci si accorge che il pensare alla morte come alla "non più esistenza", non ha senso, non è logico. Che senso ha il presente che si muove nel nulla? Il tempo è una struttura fissa, fatta di presenti, che, in quanto tali, coesistenti. Lo scorrere del tempo è un'illusione dei sensi, contabile piuttosto facilmente. Ci sembra così normale il mutamento, finché esistiamo seppur mutati, finché non arriviamo al mutamento inteso come "non più esistenza della propria coscienza", in quanto quest'ultimo non possiamo spiegarlo col senso comune.

La realtà in toto, contrariamente a ciò che fa l' uomo nel suo ambito, non deve avere e non ha "senso", ma semplicemente accade.

Il tempo é un' aspetto (misurabile nell' ambito naturale materiale; non nell' ambito mentale o del pensiero) del mutamento; dunque non é affatto "una struttura fissa", bensì qualcosa di eminentemente mobile.
I successivi istanti presenti del tempo non coesistono affatto, bensì si succedono, accadono uno di seguito al' altro e non contemporaneamente.

Lo scorrere del tempo sarebbe un' illusione dei sensi se (per assurdo!) non accadesse come contenuto fenomenico delle sensazioni: il contrario della realtà (fenomenica sensibile).

Non trovo proprio nulla di inspiegabile nell' evento "non più esistenza della propria coscienza" (come pure nella "non ancora esistenza della propria coscienza"): forse niente mi sembra più normale, naturale, pacifico, ovvio, non bisognoso di alcuna spiegazione.
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Vecchio 28-12-2015, 12.45.54   #55
maral
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Originalmente inviato da Garbino
Non ho più dubbi, o almeno penso di poterlo affermare grazie alla tua chiarezza, che se si ammette l' esistenza dell' essere o essente, di ciò che è infinitamente ed imperituro non può essere che così.
Ma è a monte che io pongo il problema. La necessità che le cose stiano così , almeno a mio avviso, non c' è.
Il problema è: possiamo ammettere che vi sia un tempo e un luogo in cui l'essente in quanto essente non sia (se stesso) senza cadere in una radicale contraddizione? l'essere dell'essente è garantito dal principio di identità (A=A). Questo principio regge ogni significanza del nostro dire, dunque come si rapporta il primo dato logico (necessario per esprimere qualsiasi cosa) con il dato fenomenologico che appare altrettanto assolutamente incontrovertibile della morte? Dopotutto la morte (il diventare nula di ogni cosa) non nega in ultima istanza ogni logica (e pertanto ogni senso e significato) a ogni nostro dire e discutere, poiché in ultima analisi, ogni dire può solo dire nulla?

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Ecco perché affermo che non sappiamo assolutamente come stiano le cose, e che potrebbero stare in un modo completamente differente.

Sono d'accordo, è la nostra stessa esistenza fenomenica che ci espone a questa condizione di non sapere. Noi siamo nell'esistenza e pertanto nulla possiamo sapere di ciò che determina questa esistenza, ci siamo dentro ed essa solo esprime la nostra essenza, ossia il come stanno realmente le cose. La fenomenologia dell'esistente detta la logica, ma senza logica la fenomenologia perde di qualsiasi senso, poiché ogni cosa senza logica è e non è in quanto tale.
Può certo essere che la logica sia solo una finzione e il principio di identità un'impostura del tutto arbitraria, ma se questo è vero la stessa esistenza, il nostro stesso discutere, quindi la stessa fenomenologia viene radicalmente negata. E, alla luce di questa non identità, pure questa stessa non identità è falsa proprio perché la si intende vera. Dunque non resta assolutamente nulla e la stessa volontà di potenza assunta come discriminante del vero dal falso si realizza solo come annullamento di se stessa.
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Vecchio 28-12-2015, 19.47.01   #56
maral
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Originalmente inviato da sgiombo
La realtà è costituita da quelli che chiami (enti intesi in quanto) “esistenti” (ciò che accade realmente).
Direi piuttosto che la realtà è costituita da ciò che è, ciò che è si rivela nella esistenza, ossia nel suo mostrarsi, nell'apparire di di ogni ente ad altri enti. Quindi l'ente non è semplicemente esistente, ma esistente in quanto essente, in quanto è, mentre è esistente in quanto ogni ente appare ad altri enti.
L'ente in quanto essente è semplicemente l'ènte identico a se stesso ("A è" indica semplicemente A=A e quindi A= NON NON A, qualsiasi cosa possa essere A, ossia in qualunque modo essa esista, in qualunque modo esso si mostri e questa identità è contemporaneamente un dato sia logico che fenomenologico). Fenomenologicamente io vedo solo ciò che mi si mostra, ciò che è esistente, e per mostrarsi esso necessita di un luogo (di uno spazio e di un tempo definibili e visibili) in cui il suo apparire si determini. Questa è la fenomenologia dell'esistente, che non può eliminarne l'essenza, ossia l'essere necessario A di A, che quindi non è un a posteriori concettuale, una pura elaborazione del pensiero astraente, come tu la intendi, ma al contrario è ciò che determina il suo stesso potersi mostrare e quindi significare qualcosa.
L'ippogrifo e il cavallo sono due apparenze significanti diverse, ma il primo, nel contesto in cui viviamo, non è dato se non come immaginazione di un'ippogrifo, cioè nel contesto in cui viviamo non ci è dato fenomenologicamente come autosussistente, ma necessita dell'immaginazione di un soggetto e per questo lo pensiamo irreale, lo pensiamo un animale che non c'è, poiché in quanto il contesto non ammette il suo darsi immediato come tale. Questo è il motivo per cui, sempre fenomenologicamente mentre il cavallo risulta significato esistente auto fondato, l'ippogrifo, pur significando, resta inesistente (o come esistenza di qualcos'altro che non è un ippogrifo, ma che nell'immaginazione dell'ippogrifo che come tale nel contesto in cui noi esistiamo non appare, può essere simboleggiato).
La differenza non consiste quindi in una verificabilità rispetto a una realtà intrinseca che risulta positiva per il cavallo e negativa per l'ippogrifo, quanto in un'ammissibilità di ciò che appare rispetto al contesto in cui può come tale, nella sua compiuta autossussistenza, apparire. E per questo, poiché i cavalli sono enti compiuti, i cavalli (come tutti i fatti che appaiono reali) naturalmente muoiono, mentre gli ippogrifi no e se anche muoiono possono pur sempre resuscitare negando il loro definitivo e completo venire a compiersi.
Se tu risolvi la contraddizione tra esistenza ed essenza semplicemente confinandole in mondi diversi (uno dato dalle sensazioni, l'altro dato dal pensiero) resta pur sempre il problema di cosa collega questi due mondi, poiché essi costantemente si intrecciano in ogni racconto del reale, in ogni significato del suo apparire, pur non essendo la stessa cosa. E, ripeto, nel principio di identità che si mostra essi trovano il loro punto di congiunzione. Non è per nulla un discorso astruso o oscuro, un discorso per iniziati. Esso fa appello sia alla sensazione che al pensiero, senza sentirsi in dovere di tenerli ben separati, senza riuscire a spiegare come, pur essendo separati, costantemente si intrecciano l'uno con l'altro.


Citazione:
Il presente è qualcosa (non è né niente né tutto).

Il passato è qualcos’ altro (non è né niente né tutto).

Il futuro è qualcos’ altro ancora (non è né niente né tutto).
D'accordo , ma cosa sono? sue mi dici che presente, passato e futuro non sono né niente né tutto non mi dà alcuna indicazione di cosa siano, non capisco la loro diversità.


Citazione:
nell’ ambito della prima (per quanto riguarda cose e fatti reali: enti in quanto “esistenti”) possono accadere e di fatto accadono il’ iniziare e il cessare (possono darsi l’ essere e il non essere, purché in lassi di tempo diversi), nel’ ambito del secondo (per quanto riguarda i concetti pensati e pensabili di cose e fatti: enti in quanto “essenti) può darsi solo l’ essere o il non essere in assoluto.
Non se il necessario mostrarsi dell'essente costituisce la sua esistenza. Allora il nascere e il morire implica solo un poter apparire o non apparire (non apparire più o non apparire ancora) e non un poter essere o non essere, dato che il non essere in tutta evidenza tanto logica, quanto fenomenologica, non è.
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Vecchio 28-12-2015, 20.51.17   #57
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Intendo il fatto che tu, come essere cosciente, "cessi di esistere". Che implicazioni ha, nei tuoi confronti di essere cosciente, il cessare di esistere. Si dovrebbe arrivare ad una conclusione interessante.
Io, come essere cosciente, vedo il cessare di esistere di ogni altro da me, non posso vedere il mio cessare di esistere, poiché per vederlo dovrei esistere fuori dalla mia stessa esistenza. Ma se ogni mio altro muore, come essere cosciente sento che io stesso, altro del mio altro, a ogni mio attuale altro morirò, non potrò quindi più apparire. Questo potrebbe significare che il mio stato attuale di coscienza è solo uno degli stati che competono all'apparire della mia essenza, così come lo è per ogni ente da me diverso. L'essenza è ciò che collega ogni esistenza nel tempo in cui viene ad apparire e in essa trova via via parziale consapevolezza di ciò che è.
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Vecchio 29-12-2015, 11.22.01   #58
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"La realtà è costituita da quelli che chiami (enti intesi in quanto) “esistenti” (ciò che accade realmente)".

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Direi piuttosto che la realtà è costituita da ciò che è, ciò che è si rivela nella esistenza, ossia nel suo mostrarsi, nell'apparire di di ogni ente ad altri enti. Quindi l'ente non è semplicemente esistente, ma esistente in quanto essente, in quanto è, mentre è esistente in quanto ogni ente appare ad altri enti.

Considerazioni che trovo decisamente oscure.

Per me “rivelarsi” non è sinonimo di “esistere”, ma ciò che si rivela è una parte di ciò che esiste (“esistere” ha un significato più ampio, che comprende il “rivelarsi” -o meglio: apparire”- ma lo eccede: non si può apparire ovvero rivelarsi senza esistere ma si può -possibilità per lo meno teorica- esistere senza apparire ovvero rivelarsi).
Anche se di fatto è conoscibile (o meglio: è possibile sapere con certezza che esiste) solo ciò che appare ovvero si rivela fenomenicamente, sensibilmente.

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L'ente in quanto essente è semplicemente l'ènte identico a se stesso ("A è" indica semplicemente A=A e quindi A= NON NON A, qualsiasi cosa possa essere A, ossia in qualunque modo essa esista, in qualunque modo esso si mostri e questa identità è contemporaneamente un dato sia logico che fenomenologico). Fenomenologicamente io vedo solo ciò che mi si mostra, ciò che è esistente, e per mostrarsi esso necessita di un luogo (di uno spazio e di un tempo definibili e visibili) in cui il suo apparire si determini. Questa è la fenomenologia dell'esistente, che non può eliminarne l'essenza, ossia l'essere necessario A di A, che quindi non è un a posteriori concettuale, una pura elaborazione del pensiero astraente, come tu la intendi, ma al contrario è ciò che determina il suo stesso potersi mostrare e quindi significare qualcosa.

Per me l’ identità-non contraddizione degli enti teorici (di pensiero: i concetti) è un dato unicamente logico, una regola del pensiero o discorso, nell’ ambito del quale non è possibile affermare (sensatamente) che qualcosa contemporaneamente è e non è o viceversa: pretendere di farlo sarebbe in realtà non discorrere, non pensare linguisticamente, bensì emettere vocalizzi non significanti o disegnare scarabocchi.

Poiché la realtà (non meramente teorica, di pensiero, non il significato dei concetti in quanto meri oggetti di pensiero o discorso ma ciò che realmente accade indipendentemente dall’ eventuale essere inoltre anche pensato, dall’ essere eventualmente inoltre anche denotazione di concetti) si conosce pensandola (veracemente) mediante concetti, inevitabilmente la realtà conoscibile (ciò che si può conoscere della realtà) non può che essere (eventualmente -e di fatto è così- in divenire) caratterizzata dall’ identità-non contraddizione, non può non essere identica a se stessa e non altro da se stessa per il fatto che dovendo essere pensata non può non essere pensata se non identica a se stessa e non altro da se stessa.

Non è tuttavia insensata la considerazione teorica (ipotetica, concettuale, mero oggetto di pensiero) che potrebbe anche essere reale (ma non conoscibile, in quanto non pensabile sensatamente*!) qualcosa di non identico a se stesso: della realtà di ciò non può dirsi sensatamente* alcunché in assoluto, tanto che sia (che ciò accada realmente), tanto che non sia (che ciò non accada realmente).

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L'ippogrifo e il cavallo sono due apparenze significanti diverse, ma il primo, nel contesto in cui viviamo, non è dato se non come immaginazione di un'ippogrifo, cioè nel contesto in cui viviamo non ci è dato fenomenologicamente come autosussistente, ma necessita dell'immaginazione di un soggetto e per questo lo pensiamo irreale, lo pensiamo un animale che non c'è, poiché in quanto il contesto non ammette il suo darsi immediato come tale. Questo è il motivo per cui, sempre fenomenologicamente mentre il cavallo risulta significato esistente auto fondato, l'ippogrifo, pur significando, resta inesistente (o come esistenza di qualcos'altro che non è un ippogrifo, ma che nell'immaginazione dell'ippogrifo che come tale nel contesto in cui noi esistiamo non appare, può essere simboleggiato).
La differenza non consiste quindi in una verificabilità rispetto a una realtà intrinseca che risulta positiva per il cavallo e negativa per l'ippogrifo, quanto in un'ammissibilità di ciò che appare rispetto al contesto in cui può come tale, nella sua compiuta autossussistenza, apparire. E per questo, poiché i cavalli sono enti compiuti, i cavalli (come tutti i fatti che appaiono reali) naturalmente muoiono, mentre gli ippogrifi no e se anche muoiono possono pur sempre resuscitare negando il loro definitivo e completo venire a compiersi.
Se tu risolvi la contraddizione tra esistenza ed essenza semplicemente confinandole in mondi diversi (uno dato dalle sensazioni, l'altro dato dal pensiero) resta pur sempre il problema di cosa collega questi due mondi, poiché essi costantemente si intrecciano in ogni racconto del reale, in ogni significato del suo apparire, pur non essendo la stessa cosa. E, ripeto, nel principio di identità che si mostra essi trovano il loro punto di congiunzione. Non è per nulla un discorso astruso o oscuro, un discorso per iniziati. Esso fa appello sia alla sensazione che al pensiero, senza sentirsi in dovere di tenerli ben separati, senza riuscire a spiegare come, pur essendo separati, costantemente si intrecciano l'uno con l'altro.

“Ammissibilità di ciò che appare rispetto al contesto in cui può come tale, nella sua compiuta autossussistenza, apparire” non capisco cosa possa significare.
Tuttavia, qualsiasi cosa significhi, la differenza ontologica (per quanto riguarda la realtà, relativamente al fatto di essere reale o meno) fra un ippogrifo e un cavallo consiste proprio nella verificabilità empirica: nessun ippogrifo reale (non dipinto, scolpito, realizzato come giocattolo più o meno realisticamente o anche descritto verbalmente) è mai stato visto, mentre sono stati e sono visti numerosissimi cavalli (= sensazioni fenomeniche costituenti cavalli accadono realmente, che siano inoltre pensate o meno, mentre sensazioni fenomeniche costituenti ippogrifi non accadono realmente ma solo possono essere pensate; e se sono pensate esistere realmente non si tratta di conoscenza vera ma di predicazione falsa).

Come é “immortale” (sempre se stesso e sempre in teoria pensabile) il concetto di “ippogrifo”, così lo sono anche quelli che si riferiscono ad enti reali, per esempio quello di “cavallo”.
Ma questa è una caratteristica dei concetti (in quanto oggetti di pensiero, indipendentemente dall’ eventuale esistenza di loro riferimenti reali o meno), non di enti ed eventi reali, i quali invece (per lo meno di fatto) cominciano ad esistere-accadere, continuano ad esistere-accadere, finiscono di esistere-accadere: non esistono-accado per sempre.

Esistenza ed essenza (realtà e pensiero) non sono concetti contraddittori, ma diversi e reciprocamente compatibili: non c’ è alcuna contraddizione da risolvere (che peraltro secondo logica non sarebbe risolvibile in alcun modo).
La differenza fra (sensazioni di) pensieri e “contenuti”, costituenti (delle sensazioni) di pensieri (reali unicamente in quanto pensati, in quanto oggetti di pensiero, significati, connotazioni di simboli verbali) da una parte e sensazioni e “contenuti”, costituenti di sensazioni realmente accadenti (reali; e non solo in quanto -eventualmente anche, se lo sono- pensate) non è una contraddizione fra di esse e dunque ne consente benissimo la compatibilità: per questo possono aversi pensieri (anche) di cose non reali come gli ippogrifi e può aversi falsità (e non solo conoscenza vera) di predicati o giudizi.
E nemmeno è una mia cervellotica e arbitraria assunzione, come ben sa chi desidera qualcosa (per esempio gran quantità di denaro; non è il mio caso, per la cronaca), che concettualmente possiede perfettamente nei suoi pensieri (desideri), ma ne è dl tutto privo realmente, nella realtà.


Non trovo che esista alcun “problema” circa il (presunto) che cosa collegherebbe questi due mondi, poiché essi costantemente si intrecciano in ogni racconto del reale, in ogni significato del suo apparire, pur non essendo la stessa cosa: lo constato del tutto non problematicamente, così stanno le cose senza bisogno di giustificazione alcuna (non essendo opera intenzionale di alcun creatore, nel qual caso unicamente avrebbe senso chiedersi con quali intenzioni le avrebbe create così come le avesse create e non diversamente o per nulla).

E ripeto che il principio di identità, essendo una regola del corretto (sensato) parlare, è relativo ai concetti e non ha senso se riferito alle cose (enti ed eventi) reali: concetti e cose reali non sono affatto reciprocamente identici, né contrari (contraddittorio il predicarli reciprocamente gli uni delle altre o viceversa), ma semplicemente diversi (non contraddittoriamente, compatibilmente: sebbene costantemente si intreccino l'uno con l'altro sono separati, diversi, da non confondersi concettualmente se si vuole pensare correttamente veracemente).

===========
* (Questo avverbio è pleonastico).


(CONTINUA)
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Vecchio 29-12-2015, 11.40.13   #59
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(CONTINUAZIONE)

Citazione:
Originalmente inviato da maral
Citazione (Sgiombo):
Il presente è qualcosa (non è né niente né tutto).

Il passato è qualcos’ altro (non è né niente né tutto).

Il futuro è qualcos’ altro ancora (non è né niente né tutto).

Maral:
D'accordo , ma cosa sono? sue mi dici che presente, passato e futuro non sono né niente né tutto non mi dà alcuna indicazione di cosa siano, non capisco la loro diversità.

Queste precisazioni erano necessarie per dimostrare la loro non contraddittorietà.

Non trovo interessante giocare con i significati delle parole (se si tratta di parole comunissimamente intese correttamente e inequivocamente da chiunque, come “passato”, “presente” e “futuro”): significano quel che ne è scritto in qualsiasi vocabolario.
Comunque il passato è cio che era (accadeva) prima del presente (e dunque a maggior ragione anche del futuro); il presente ciò che è (accade) dopo il passato e prima del futuro; il futuro ciò che sarà (accadrà) dopo il presente (e a maggior ragione anche del passato).


Citazione:
Originalmente inviato da maral
Citazione (Sgiombo):
nell’ ambito della prima (per quanto riguarda cose e fatti reali: enti in quanto “esistenti”) possono accadere e di fatto accadono il’ iniziare e il cessare (possono darsi l’ essere e il non essere, purché in lassi di tempo diversi), nel’ ambito del secondo (per quanto riguarda i concetti pensati e pensabili di cose e fatti: enti in quanto “essenti) può darsi solo l’ essere o il non essere in assoluto.

Maral:
Non se il necessario mostrarsi dell'essente costituisce la sua esistenza. Allora il nascere e il morire implica solo un poter apparire o non apparire (non apparire più o non apparire ancora) e non un poter essere o non essere, dato che il non essere in tutta evidenza tanto logica, quanto fenomenologica, non è.

Se per intendere “essere o accadere realmente” usi (per me del tutto astrusamente) il termine “mostrarsi dell’ essente” e per “essere pensato, essere oggetto di pensiero o concetto” il termine “essente” le cose (reali, la realtà) non cambiano; in particolare il loro divenire non si trasforma in essere immutabili (né l’ essere immutabili -per convezione!- di regola, anche se eccezionalmente si mutano -sempre per convenzione- dei concetti si trasforma in divenire mutevole o in mutabilità non stabilita e regolata convenzionalmente).

Il non essere non è in tutta evidenza nell’ ambito della logica; il non essere del concetto di qualcosa che -concettualmente*- é (che sia di ippogrifo o di cavallo) non é.
Ma non così nella realtà: realmente il non essere della cosa (denotata dalla parola) “ippogrifo” è, contrariamente al non essere della cosa (denotata dalla parola) “cavallo”.



In conclusione credo che per pensare correttamente, sensatamente e veracemente bisogna distinguere bene e non confondere fra loro enti ed eventi reali (che siano eventualmente pure denotati da concetti pensati o meno) da eventi ed eventi pensati (meri significati di concetti pensati senza riferimento o denotazione reale).

La terminologia "severiniana" mi sembra quanto di più propizio per incorrere in tale confusione.

========
* Avverbio pleonastico.
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Vecchio 29-12-2015, 12.35.33   #60
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Originalmente inviato da maral
Io, come essere cosciente, vedo il cessare di esistere di ogni altro da me, non posso vedere il mio cessare di esistere, poiché per vederlo dovrei esistere fuori dalla mia stessa esistenza. Ma se ogni mio altro muore, come essere cosciente sento che io stesso, altro del mio altro, a ogni mio attuale altro morirò, non potrò quindi più apparire. Questo potrebbe significare che il mio stato attuale di coscienza è solo uno degli stati che competono all'apparire della mia essenza, così come lo è per ogni ente da me diverso. L'essenza è ciò che collega ogni esistenza nel tempo in cui viene ad apparire e in essa trova via via parziale consapevolezza di ciò che è.
La morte degli altri su puó spiegare facilmente, in quanto(tralasciando per semplicità l'ipotesi della coscienza collettiva), per te non sono coscienza, sono solo parti dell'ambiente. Quindi che smettano o no di produrre coscienza, non ha alcun effetto sul tuo esistere. Ma quando muori tu, supponendo che lo stesso valga per te, pure la tua coscienza non è più prodotta. Ma cosa vuol dire "non è PIÚ prodotta"? Vuol dire che non è prodotta NEGLI ISTANTI SUCCESSIVI alla tua morte. E quella prodotta negli istanti precedenti? Passato? E se ancora non fossi nato, la coscienza prodotta dopo la tua nascita? Futuro? In quanto tu esisti negli istanti in cui è prodotta la tua coscienza, essendo un intervallo limitato, la tua esistenza "aspetta" un infinità di tempo per emergere, e poi svanisce per un'infinità di tempo? Ma quando non esisti, che senso ha dire che per te esiste il tempo?? Evidentemente stiamo dando per scontato una cosa che non è poi così scontata: lo scorre del tempo.
Sai cosa percepisci dopo la morte? Esattamente quello che percepivi prima, perché la tua esistenza è "intrappolata" in quegli istanti di tempo, e ció rimarrà per sempre. Questo vuol dire che il tempo non è qualcosa che scorre, ma qualcosa di fermo, che ci "ospita"in determinate zone. Ogni sensazione è eterna e coesistente altre altre. Noi siamo l'insieme di queste sensazioni.
pepe98 is offline  

 



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