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Umana-mente di Eliana Macrì

Umana-mente

di Eliana Macrì - indice articoli


Attualità di Kant

Dicembre 2020


“Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!” era una delle massime illuministiche prese in prestito dal famigerato filosofo Kant, spesso odiato dai liceali perché non capito dalle pagine dei manuali scolastici. Dietro i banchi di scuola, tra le ansie per il voto più alto e l’entusiasmo per il pieno inserimento in quella piccola comunità, chiamata classe, non sempre Kant riceve la meritata attenzione.
Crescendo, i più ricorderanno solo qualche locuzione cui attribuire una vaga definizione e quando sentiranno alla televisione il termine ‘trascendentale’ pronunciato dalle labbra di protagonisti di programmi di intrattenimento, sussulteranno e, corrugando la fronte, ricorderanno di quel filosofo prussiano che scrisse le tre Critiche così ermetiche.
Ma, molto probabilmente, non si chiederanno perché il tipo impomatato, che in quel momento dovrebbe rappresentare veicolo di cultura attraverso uno dei più potenti mezzi di comunicazione, ha chiamato in causa il trascendentale e se lo ha fatto legittimamente.
È forse questa la fine che meritano tutti coloro che hanno osato pensare e, pensando, hanno condizionato le generazioni a venire? Relegati nei meandri della memoria, pieni di polvere e a rischio tarme. Kant è solo uno dei grandi eroi della storia del pensiero, ma è quello che, sia pure inconsapevolmente, chiamiamo in causa ogni volta che pensiamo con la nostra testa.

La dignità dell’essere uomini risiede nel pensare avvalendosi dell’unica lanterna di cui disponiamo per far luce, la ragione, con tutti i limiti che le sono propri e che la filosofia non manca di criticare. Da buon figlio dell’Illuminismo, Kant sosteneva che pigrizia e viltà sono le due cause che non permettono all’uomo di uscire dallo stato di minorità, ovvero dall’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza erigere altri a propri tutori. “E’ tanto comodo – scrive in “Che cos’è l’illuminismo” - essere minorenni: se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha la coscienza per me, […] io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.
Sono trascorsi tre secoli circa, ma queste parole irrompono alle nostre orecchie, concretizzandosi in scenari così attuali di fronte ai quali non possiamo non fermarci a pensare. Ma non basta imparare a pensare, bisogna anche imparare a fugare ogni dogmatismo.

Kant si è svegliato e sveglia dal ‘sonno dogmatico’, la grandezza e la meraviglia di questa scientia che è la filosofia, risiede proprio nel non accettare in maniera dogmatica alcuna presunta verità – né che il mondo esista né che tra due punti passi una sola retta – e nel non acquietarsi mai sui possibili traguardi raggiunti, che devono essere sempre vissuti come stadi di un percorso conoscitivo in continua evoluzione.
La nostra esistenza è innanzitutto uno ex-sistere, uno stare, etimologicamente, al dire fuori di sé le cui scelte chiamano in causa l’altro. Nelle relazioni sociali, quindi, non essere dogmatici si traduce nella capacità di ascolto e comprensione dell’altro, per dirla “alla Kant” opera sempre in modo che la massima che ispira la tua azione possa valere come principio di legislazione universale.
In altri termini, adottare una prospettiva universale nell’ambito dell’agire significa chiedersi se anche gli altri, nelle stesse circostanze, si comporterebbero in egual modo. Solo l’intenzione buona, infatti, giudica un’azione buona. Ovviamente il principio mostra tutta la sua perentorietà quando ad essere in gioco sono le azioni di autorità politiche e sociali dalle cui volontà dipendono i destini di intere nazioni.
Tante sono state le soluzioni che nel tempo i filosofi hanno cercato di dare alla domanda ‘Cosa è il bene?’, ma quella che all’epoca di Kant, e forse non solo allora, circolava maggiormente, tendeva ad identificare il bene con l’utile, intendendo per utile ogni sorta di interesse particolaristico.

Per Kant la morale deve essere ab-soluta, ovvero sciolta da ogni condizionamento istintuale e dalle mutevoli circostanze, anche quando dal suo ossequio o meno dipenda una felicità immediata. Il criminale di guerra Adolf Eichmann, responsabile di uno dei dipartimenti delle SS, incarnazione dell’assoluta banalità del male per la giornalista e filosofa Arendt, durante il processo tenutosi nello Stato d’Israele, si giustificò dicendo che stava solo eseguendo degli ordini inappellabili.
I valori non hanno contenuto, indicano delle direzioni e sono filii temporis, possono evolversi ed evolvendosi assumere forme nuove, ma quando c’è in ballo un valore come la giustizia, allora la scala dei valori diventa obbligante e di un’obbligazione che passa attraverso la libertà.
Una necessità o meglio ancora un dovere, quello kantiano, che s’inginocchia di fronte la libertà. L’uomo, infatti, può autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, può scegliere fra infinite possibilità e scegliendo si sceglie, perché sono le nostre azioni e le nostre scelte a creare gli uomini che siamo.
Una frase, questa, che abbiamo sentito ripetere innumerevoli volte, dai discorsi politici agli spot pubblicitari, e magari non sappiamo che se oggi è possibile affermare con pretesa di verità tale massima è perché c’è stato un uomo che ha avuto il coraggio di attuare una rivoluzione copernicana, così Kant la definiva, in ogni ambito del pensare e dell’agire umano.

Si tratta di partire dall’uomo: non bisogna chiedersi come sono fatti gli oggetti in sé stessi, ma come questi vengono conosciuti da noi, in quanto il soggetto svolge un ruolo determinate rispetto al mondo. Ecco il vero senso del trascendentale di cui parlavamo. L’uomo possiede degli strumenti di conoscenza, in parte sensibili (le cosiddette intuizioni di spazio e tempo), in parte intelligibili (le cosiddette categorie), che gli consentono di interagire col mondo, e quindi di avere sensazioni, tattili, visive, uditive, olfattive e di gusto, e di pensare, le dodici categorie non sono altro che forme di ragionamento con cui incaselliamo la realtà che ci circonda.
Ma cosa vuol dire nello specifico che l’uomo ha in sé le intuizioni di spazio e tempo? Significa che tutto ciò che non è nello spazio e nel tempo non è un oggetto per noi. Nessun oggetto può essere da noi percepito se non nello spazio e nel tempo. Come nessun oggetto può essere pensato da noi se non attraverso i modi in cui il nostro intelletto organizza l’esperienza. Per esempio, se mentre state leggendo quest’articolo, sentite un rumore improvviso perché un oggetto è caduto dalla libreria, vi girate subito per capire l’origine della caduta o meglio ancora la causa della caduta. É un atto tanto naturale quanto istintivo all’uomo, sicuramente il vostro cagnolino non cercherà di capire la causa ma inseguirà l’oggetto caduto. Questo perché la causa è uno dei filtri con cui pensiamo e giudichiamo il mondo.
Il giudizio per Kant è una forma di conoscenza, nel giudizio noi attribuiamo un predicato ad un soggetto con pretesa di verità. Ciò significa che nel momento in cui affermiamo “Questo è un tavolo” o “Tizio è colpevole”, stiamo delimitando una realtà, i confini del nostro dire diventano i limiti del nostro mondo.
Chi ci garantisce che per menti diverse dalle nostre i nostri giudizi siano veri, ovvero corrispondano alla realtà se questa è sempre e solo fenomenica? Per Kant l’uomo può conoscere solo il fenomeno, in greco phainomenon è ciò che appare, e quindi la realtà percepita nello spazio e nel tempo e pensata secondo le categorie dell’intelletto.

Per concludere la rivoluzione copernicana consiste nell’aver posto nell’uomo i fondamenti della conoscenza e della morale. Non esiste morale senza libertà o, meglio ancora, non è pensabile un agire morale senza il presupposto inalienabile della libertà. Per questo esistono premi e punizioni, perché l’uomo è sempre libero di ottemperare o meno alla legge morale. I giudici, ad esempio, devono fare la cosa giusta senza lasciarsi condizionare da rancori e odi personali o interessi privati di alcuna sorta. E fare la cosa giusta significa onorare la verità.
Più volte il filosofo Socrate, colpevole secondo la democrazia ateniese di avere dedicato l’intera sua vita agli altri, affinché imparassero a pensare, richiama i giudici al loro precipuo compito: onorare il vero. Ma cos’è questa tanto ricercata verità? Il termine verità deriva dal greco aletheia, formato da a- privativo e il verbo letho che significa nascondere.
Ecco, verità significa portare alla luce, togliere dal nascondimento, significa scandagliare ogni singola questione, illuminandone tutti i possibili punti di vista, gettando luce su ogni sfumatura e prevedendo le eventuali direzioni di sviluppo. La verità implica sempre un rapporto con qualcosa di empirico, di sensibile, anche quando si tratta del nostro agire morale.

La moralità per Kant è come una colomba che nel suo volo incontra la resistenza dell’aria che la costringe a faticare, ma senza la quale non potrebbe volare. Fuor di metafora, le prove cui ci sottopone la vita sono la condizione di quell’agire morale attraverso cui ci innalziamo dal mondo sensibile, determinato dalle leggi della matematica e della fisica, al mondo sovrasensibile della libertà.

Eliana Macrì


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