Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La voce e la parola
di Marco Calzoli - Marzo 2022
Per la cultura indiana la parola (Vāc) è la prima manifestazione dell’Assoluto, Brahman, quel Principio dal quale proveniamo e al quale dovremo ritornare dopo esserci liberati dal ciclo delle vite. Lo stesso termine sanscrito Brahman significava all’inizio “formula sacra”. Il Vangelo di Giovanni si apre con la dichiarazione: “In principio era la Parola”, en archēi ēn o logos, che riecheggia l’incipit della Genesi nel quale Dio dice e le cose si quadernano.
L’induismo è costituito da molte sette con molti dei, che sono tutti manifestazioni eterogenee dell’unico Brahman. Secondo alcune fonti la divinità più importante è Viṣṇu, identificato in maniera speciale con il Brahman. Questo dio è il Reggitore dell’universo e possiede 10 emanazioni (avatāra). Nel mito di Viṣṇu Anantasayana, cioè “dormiente sul serpente Ananta”, si dice che questo dio dorme sul serpente Ananta, in sanscrito “senza fine”, che poggia sull’oceano del caos primordiale, fino a che dall’ombelico del dio Viṣṇu non spunta un fiore di loto, da questo fiore nasce il dio Brahma (da non confondere con il Brahman), il quale inizia a creare l’universo. Quindi Viṣṇu è il dio più importante che crea addirittura chi inizia la creazione.
Viṣṇu ha una sua emanazione (avatāra) detta Narasimha, l’uomo-leone che uccide un grande demone. Questo mito è un monito a chi non crede che il dio abbia la supremazia su tutto. Un mito puranico lo vede come Trivikrama, dai 3 passi, simbolo del controllo sullo spazio (il Trimundio, cioè i Tre Mondi: Cielo, Terra, Sottoterra) e sul tempo (alba, giorno, sera).
Ebbene, Viṣṇu è raffigurato con la conchiglia, Shanka, che era suonata, quindi allude al suono della parola originaria che dà forma all’esistenza di tutti gli esseri. Il principio di tutto dà origine a tutto con la parola, la sillaba sacra AUṂ, poi successivamente il dittongo AU si monottonga in O, e la sillaba si trasforma in OṂ. Viṣṇu ha anche la mazza, Gada, simbolo della conoscenza che porta alla liberazione, mokṣa.
Shiva è il dio più contraddittorio del pantheon indiano, nelle sue raffigurazioni e nei miti che lo riguardano troviamo tutto e il contrario di tutto, dalla esaltazione della sessualità al suo essere aceta assoluto, dal suo essere il Distruttore dell’universo al suo essere benevolo come amante della dea Parvati tanto che i loro giochi erotici sconvolgono l’universo oppure come Signore degli animali (Pashupati) che sostentano l’uomo, e così via. Il culto di Shiva non può collocarsi prima del II secolo a.C., mentre la sua prima vera iconografia è attestata solo a partire da monete di epoca kushana (II secolo d. C.), altri possibili riferimenti come un sigillo di un’epoca molto anteriore, risalente alla civiltà della Valle dell’Indo, sono soltanto ipotesi. Però la rappresentazione più diffusa è quella aniconica, cioè come un fallo (linga), questo perché anche Shiva è una manifestazione dell’Assoluto e come tale non ha una vera forma. I testi indiani poi spiegano le sue caratteristiche contradditorie con il fatto che Shiva è così potente da venire incontro all’uomo e alla sua limitata capacità di comprensione dell’Assoluto, quindi Shiva palesa alla mente delle persone molti modi possibili di intenderlo senza però mai esaurirlo.
Un mito vuole porre Shiva come superiore a Brahma e a Viṣṇu, la rappresentazione di questo mito è l’immagine del Lingodbhavamurti. Brahma e Viṣṇu litigano su chi sia il più grande, quando all’improvviso si manifesta il linga luminoso di Shiva che li invita a cercare l’inizio e la fine di questo linga miracoloso. Non la trovano, quindi Shiva in questo modo manifesta la sua supremazia.
In ogni modo anche Shiva manifesta la potenza della parola primordiale creatrice di tutto. Come Nataraja, cioè re danzante, Shiva ha sempre con sé un tamburello, Damaru. Esso è il simbolo del ritmo sonoro della parola che scandisce la distruzione e la conseguente creazione dell’universo. Shiva distrugge per porre le premesse di una nuova creazione. La danza di Shiva quindi è il simbolo del tempo (Kala) che con i suoi ritorni è considerato ciclico. La danza di Shiva è circondata da un anello di fuoco (prabha-mandala), simbolo dell’energia della conoscenza, della luce trascendentale della verità.
In un altro mito il seme di Shiva non è raccolto dal grembo di Parvati ma ingoiato da Agni, dio del fuoco. Agni è il dio del sacrificio, per cui chi getta le offerte sul fuoco sacrificale le invia a tutti gli dei. Per questo principio il seme di Shiva si riversa in tutti gli dei attraverso la bocca. Parvati, rammaricata di non essere rimasta incinta, maledice tutti gli dei, i quali, per non essere raggiunti dalla maledizione della dea, vomitano il seme di Shiva. Parvati non rimane incinta di Shiva perché il seme è talmente potente che è impossibile. Ma, notiamo bene, viene raccolto dalla bocca di Agni e di tutti gli dei, anche se poi lo vomitano. Come a dire che è la parola (bocca) la vera potenza degli dei!
Gli dei indiani hanno una consorte divina, detta paredra. Questa divinità di genere femminile è la manifestazione della Shakti, l’energia creatrice del dio. Vale il principio che le dee siano espressione di un’unica divinità femminile, la Devi, la quale è sempre una manifestazione del Brahman originario. Dato che la divinità, di cui la Shakti è espressione, crea con la parola, non stupisce che esista anche una dea Vāc, Parola, e una dea Sarasvati, la dea della sapienza. Il mantra di Sarasvati è il Sarasvatīgāyatrī: OṂ Vāgdevyai vidmahe kāma-rājāya dhīmahi tanno devī pracodayāt OṂ, che significa più o meno “OṂ Conosciamo l’immagine divina (luce) della Parola (dei Veda, della conoscenza), meditiamo sul (nostro) desiderio regale (del conoscere) affinché possiamo comprendere il suo corpo universale, OṂ”.
La Devi (termine sanscrito che indica la divinità femminile, quello che indica la divinità maschile è Deva) è una divinità femminile induista dalle molte manifestazioni. I diversi aspetti della Devi sono incarnati dalle diverse divinità femminili indiane. Il culto della Devi è presente soprattutto nelle popolazioni rurali dell’India probabilmente per via del collegamento della femminilità con la fertilità della terra. La Devi è detta Bharata Mata, la Madre India, in quanto il suo corpo costituisce il territorio dell’India. Anche i toponimi traggono origine spesso dalla Devi, per esempio Kolkata (già Calcutta) significa Dea Kali, dove Kali è un aspetto terrifico della Devi. Invece un suo aspetto pacifico è Parvati, e come tale è la paredra di Shiva.
La prima sposa di Shiva è Sati, ma il padre di Sati aveva insultato Shiva e allora lei si autoimmola per rispetto. Ancora oggi la parola sati indica la autoimmolazione delle vedove sulla pira funebre del marito, anche se in lento disuso. Shiva devastato di questa perdita prende il corpo carbonizzato della dea e lo trasporta in un vagabondaggio per tutta l’India. Nel trasporto il corpo di Sati si rompe in 51 pezzi che così formano luoghi sacri dell’India, mentre le gocce di sangue formano i bindu, i luoghi sacri minori. Questo mito giustifica la sacralizzazione del territorio indiano quale corpo della Devi. Giustifica anche il mito della creazione mediante la parola, perché i fonemi del sanscrito sono 51, come i pezzi del corpo della Devi e gli elementi energetici che formano l’intera realtà. La Devi è immanente e onnipresente, essendo il suo corpo l’India, la Devi è la terra stessa ed è ciò che causa la sussistenza e la felicità del genere umano. Offendere la Devi o non praticare il suo culto significa provocare sciagure verso la popolazione. Poi Sati si reincarna in Parvati e così sposa di nuovo Shiva.
Nel tantrismo la Devi è Shakti. Il tantrismo è una corrente non ortodossa dell’induismo, è opposto al dharma delle classi alte dell’induismo: l’iniziato al tantrismo tende a superare la dualità presente nella realtà facendo gesti dissacratori che indicano il suo oltrepassare il velo illusorio del mondo fenomenico (Velo di Maya). Un gesto dissacrante fatto da una persona immersa nella dualità dell’illusione reca impurità, ma se lo fa l’iniziato, che ha superato la dualità e si è ricongiunto al Principio, è espressione della sua superiorità. Come avviene per gli iniziati al culto di Shiva che si tracciano tre strisce sulla fronte dalle ceneri dei cadaveri: è un gesto che indica il superamento dell’illusione di Maya, quindi la effettiva iniziazione. In questo senso anche la Shakti del tantrismo viene raffigurata in maniera crudele, sanguinaria. Ancora oggi nel Durga Puja, la festa più importante della Devi, celebrata nel versante orientale dell’India, si fanno in suo onore sacrifici umani.
Ma il tantrismo conosce anche aspetti pacifici della Devi, come le Mahavidya. Esse sono 10 emanazioni di Sati che essa ha rilasciato per avere la meglio su Shiva in un diverbio. Queste emanazioni hanno sia aspetti pacifici sia aspetti terrifici. È tipico del tantrismo leggere l’iconografia su diversi livelli. Nel tantrismo (e nell’induismo in genere) le immagini sono strettamente legate ai testi per veicolarne il messaggio ad un pubblico maggiore e anche per avere supporti visivi per la meditazione. Una di queste emanazioni è la Chinnamasta, una raffigurazione della divinità dalla testa mozzata retta da una sua mano e con il resto del corpo in atto di dominio con i piedi sopra due esseri che fanno sesso. Il dominio del desiderio sessuale, veicolato dalla immagine, significa l’indirizzamento in alto, verso la testa, dell’energia sessuale a scopi meditativi per la liberazione spirituale. Certamente in questo mito il flusso dell’energia sessuale verso la testa potenzia anche la parola, facendola divenire nuovamente strumento della creazione, una volta che è stata ottenuta la evoluzione spirituale.
Un altro raggruppamento di divinità femminili è quello delle Sapta Matrka, le Sette Madri. La lista assume una forma definitiva, soggetta a lievissime variazioni onomastiche, a partire dalla metà del I millennio. La prima attestazione scritta del culto delle Sapta Matrka è un'iscrizione datata al 480 d.C. attribuita al sovrano Vishvavarman del Malwa (Madhya Pradesh). Tuttavia alcuni studiosi hanno individuato precedenti vallindi e vedici per questa particolare forma di culto. Esse sorgono dai corpi delle divinità maschili. Le Sette Madri godono di un rispetto reverenziale per via del timore che incutono in quanto divoratrici di bambini. Da un punto di vista simbolico le Sapta Matrka presentano due livelli di lettura, il numero sette fa riferimento a livello del microcosmo ai 7 chakra, i centri energetici disposti lungo il canale energetico che attraversa il corpo umano dalla base della pelvi alla sommità del capo; da un punto di vista macrocosmico si legge invece un riferimento ai 7 cieli, gli svarga. In entrambi i casi si tratta di una simbologia verticale, legata all'evoluzione spirituale.
Nel testo chiamato Devi Mahatmya si descrive una terribile battaglia cosmica nella quale la Devi, rappresentante delle forze del bene, crea la realtà dopo aver sconfitto un mostro del male. Quindi il Principio dell’universo, il Brahman, è di natura femminile. Ed è veramente significativo che Vāc sia un termine sanscrito di genere femminile.
Il suono originario (shabda) della parola, la voce, ha dato origine alla creazione e sta nei Veda, i testi sacri dell’induismo. Quindi chi conosce i Veda si collega a quel suono originario e ottiene la liberazione.
Il Mimansa è un sistema filosofico ortodosso che si prefigge la corretta interpretazione dei Veda. Testo di riferimento: Mimamsa-sutra di Jaimini (I-II d.C. circa; c’è chi lo data precedentemente). Obiettivo principale: dimostrare che il Veda è una sostanza a sé, di origine non umana, esistente da/per l’eternità. La Mimansa è una scienza del rito e si occupa della ricerca dei significati all’interno dei Veda. A questo scopo i mimamsaka svilupparono un metodo che servì da modello a tutti i sistemi filosofici successivi, secondo il quale ogni spiegazione deve svolgersi su 5 gradi:
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Vishaya = enunciazione dell’oggetto di un’asserzione
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Samshaya = esposizione di un dubbio in contrario
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Purvapaksha = esposizione di un’opinione contraria
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Uttara-paksha, siddhanta = introduzione dell’opinione definitiva
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Sangati = stabilire le relazioni dell’asserzione dimostrata con altri passi vedici.
L’elaborazione di questo metodo è l’elemento più importante di quello che altrimenti nemmeno apparirebbe come un sistema filosofico, bensì come una scuola esegetica.
L’eternità eterna e assoluta del Veda si basa su tre punti:
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Ogni suono (quindi anche la parola) è eterno, quando viene pronunciato non è una creazione ex novo
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Fra la parola e il suo significato esiste un legame eterno, senza principio.
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Le parole non definiscono una cosa in particolare ma una specie (akriti) trascendente.
La realtà autosufficiente delle parole si basa su un punto di vista elaborato dai grammatici che si fonda sulle concezioni sostanzialistiche dell’epoca vedica, per le quali tutto ciò che esiste possiede un’esistenza concreta, ed è presente nella parola.
A queste dottrine induiste si oppongono quelle buddhiste. Nella teoria elaborata da Dinnaga, quando diciamo la parola “vacca” questo suono non comunica la nozione di tutti gli individui designati da quel nome: essi sono infiniti e nessuna mente può abbracciarli tutti; né comunica la nozione astratta di “essere vacca”, come vogliono i realisti. La parola “vacca” semplicemente afferma una vacca in quanto esclude tutto ciò che non è vacca. Non esiste nulla di reale espresso dalle parole.
In ogni modo, per gli induisti conoscere i Veda significa allacciarsi alle sorgenti della vita e della creazione. Anche perché i Veda contengono i riti, facendo i quali si instaura l’armonia con l’universo. Il rito vedico ha un effetto: l’equilibrio cosmico. Questa azione è alla base anche del karma: se facciamo opere buone, ci raggiungono frutti positivi, se facciamo opere cattive, ci raggiungono frutti negativi. Ma il concetto di efficacia del rito e il concetto di karma sono talmente indiani da non avere paralleli nel pensiero occidentale. Si tratta della nozione di apurva, per la quale l’effetto di una azione è contenuto nella sua causa, non è qualcosa di posteriore come possiamo pensare noi. L’apurva non sta nel mondo dei fenomeni temporali e spaziali, tuttavia non è fuori da ogni durata, in quanto appartiene ancora all’ordine delle contingenze. L’apurva è una energia che appartiene all’agente che agisce facendo qualcosa, come un elemento costitutivo della sua identità considerata nella sua parte incorporea, ma che può uscire fuori da costui per proiettarsi nel mondo. Usando una immagine imperfetta, pensiamo alla vibrazione emessa da un corpo che si irradia nello spazio circostante. Ma essa deve ritornare all’agente che la emessa sotto forma di una reazione che ha la stessa natura dell’azione iniziale. Ogni azione è rottura di un equilibrio, quindi deve esserci una reazione contraria che ritorna all’agente per riequilibrare il sistema.
Nella loro evoluzione storica le lingue sembrano raggrupparsi in famiglie. L’italiano deriva dal latino, il quale è una lingua appartenente alla famiglia indoeuropea, come il sanscrito, il greco, l’albanese, il tedesco, l’inglese, e così via.
Invece accadico, arabo, etiopico, ebraico, aramaico fanno parte della famiglia delle lingue semitiche. La Bibbia secondo il canone cattolico è costituita da 73 libri: l’Antico Testamento da 46, il Nuovo Testamento da 27. L’Antico Testamento è scritto quasi tutto in ebraico, con l’eccezione di 7 libri in greco e alcune sezioni in aramaico; il Nuovo è tutto in greco.
Secondo la dottrina cristiana la Bibbia è stata scritta da diversi autori umani, cioè da persone normali, ispirate però da Dio. Isaia 34, 16: nella Bibbia agiscono la bocca e lo spirito di YHWH. Neemia 9, 20: la parola scritta della Legge è attribuita allo Spirito di Dio. 2Pietro 1, 21: “Degli uomini parlarono da parte di Dio mentre erano ispirati dallo Spirito Santo”. 2Timoteo 3, 16-17: “Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere, e per formare alla giustizia”. La Bibbia è Parola di Dio, cioè è Gesù Cristo, il Logos (Parola) eterno del Padre. Nella Eucaristia Cristo è realmente presente con il suo Corpo e il suo Sangue risorti sotto le apparenze del pane e del vino, e nella Bibbia è altrettanto presente. Come duemila anni fa ha deciso di incarnarsi nella povertà della carne, così ha deciso di risiedere nella povertà della parola umana. Come Gesù Cristo continua ad essere presente nella vita del credente che medita e si nutre della Sacra Scrittura, così è presente nella Santa Eucaristia, vero cibo di vita eterna, fonte e culmine di tutta la vita cristiana. Nella Eucaristia “si realizza ogni volta sacramentalmente la sua venuta, la sua presenza salvifica: nel sacrificio e nella comunione. Si realizza per opera dello Spirito Santo, all’interno della sua propria missione” (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem, 62).
Per Tommaso d’Aquino l’autore principale della Sacra Scrittura è lo Spirito Santo, l’uomo invece ne fu l’autore strumentale. La Bibbia quindi è opera tanto umana quanto divina. Lo strumento, infatti, ha una propria azione della quale si serve l’autore principale. Per Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III q 62 a 1) “lo strumento ha due azioni: una strumentale, secondo cui agisce non per virtù propria, ma per la virtù comunicatagli dall‘agente principale; l‘altra propria, che gli compete per natura: come lo scindere compete alla scure per l‘acutezza della lama, ma il fare un letto le compete in quanto strumento dell‘arte. Però la scure non compie l‘azione strumentale se non esercitando l‘azione propria: è infatti scindendo che produce il letto”, ad secundum dicendum quod instrumentum habet duas actiones, unam instrumentalem, secundum quam operatur non in virtute propria, sed in virtute principalis agentis; aliam autem habet actionem propriam, quae competit sibi secundum propriam formam; sicut securi competit scindere ratione suae acuitatis, facere autem lectum inquantum est instrumentum artis. Non autem perficit actionem instrumentalem nisi exercendo actionem propriam; scindendo enim facit lectum.
Nei testi patristici e magisteriali c’è anche l’espressione Spiritu Sancto dictante, “sotto dettatura dello Spirito Santo”: nella patristica il verbo dictare non significa l’enunciazione di parole che poi vengono scritte una dietro l’altra bensì il mandato, la prescrizione, il comando. Vale a dire che la Bibbia è scritta su ordine di Dio.
Dalla presenza di due autori, uno umano e l’altro divino, deriva che la Bibbia ha due sensi: quello letterale e quello spirituale. Il primo dipende principalmente dall’autore umano che ha voluto comunicare un messaggio entro il contesto storico e culturale nel quale scriveva, sempre però sotto ispirazione divina; il secondo dipende principalmente da Dio, per cui l’autore divino fa aprire a pienezza, perfeziona il senso letterale. “Per la composizione dei Libri Sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva fossero scritte” (Dei Verbum 11). Per Tommaso d’Aquino (Quodlibet q VII, a 1) il senso letterale consiste nelle cose significate “attraverso le parole” (per verba), mentre il senso spirituale consiste in quelle cose che sono “figure di altre cose” (figurae aliarum rerum).
Montano pensava che gli autori sacri agissero inconsapevolmente sotto ispirazione di Dio, come se stessero in estasi, al modo delle sacerdotesse di Cibele. La chiesa tuttavia non ritiene che la ispirazione possa fare violenza e togliere all’autore sacro la libertà. Per il sufismo, una corrente esoterica dell’Islam, esistono due tipi di messaggeri di Dio. Innanzitutto i profeti, i quali ricevono da Dio una comunicazione, spesso mediante delle creature angeliche, e la recepiscono attraverso la parte razionale della loro anima. Invece i sufi recepiscono un messaggio divino attraverso il “cuore”, che nella tradizione esoterica non significa il luogo delle passioni bensì quello spazio dell’anima deputato alla intuizione profonda. Il mondo, infatti, sarebbe costituito di tre livelli: il corpo, l’anima e lo spirito. Il corpo è la realtà grossolana e l’anima è la realtà sottile (che l’uomo sperimenta nel sogno o, più in profondità, nella rivelazione intuitiva del sufismo): questi due livelli sono quelli formali, cioè dotati di forma. Invece lo spirito è il livello ultraterreno e non formale, quello appannaggio delle intelligenze angeliche, le quali non hanno una forma ma in modo misterioso la possono assumere per interagire in qualche maniera con gli esseri umani. Il profeta (nabi) riceve una rivelazione personale, l’inviato (rasul) è simile al profeta ma riceve una rivelazione destinata ad altri e fonda una comunità di credenti. Dopo Maometto non ci sono più profeti né inviati, è aperta solo la via della santità. Per il sufismo il santo è colui che è “amico” di Dio, e il concetto di amicizia esprime quello della vicinanza con il Creatore tanto che il sufi, cioè il santo che riceve le rivelazioni divine, non è più solo né ha timore.
Facciamo ora un esempio riguardo i due sensi della Bibbia. Quando in Esodo 14 leggiamo che Dio fece aprire a Mosè il Mar Rosso e vi fece passare gli ebrei per scamparli dalla spada egiziana, si tratta di un racconto storico scritto dall’autore umano, informato dei fatti. Questo è il senso letterale. Il senso spirituale è il messaggio recondito che l’autore divino ha voluto inserire sotto il senso letterale mentre ispirava l’autore umano: Gesù Cristo ha redento l’umanità facendola passare dalla morte alla vita eterna. La lettera del testo dell’Esodo, cioè il passaggio del mare, si apre ad un senso profondo, pieno, definitivo, cioè cristologico. “Dio … ha sapientemente disposto che il Nuovo (Testamento) fosse nascosto nell’Antico e l’Antico fosse svelato nel Nuovo Testamento” (Dei Verbum 16).
Secondo un noto adagio medioevale, i sensi della Bibbia sono quattro: Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia, “la lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare, l’anagogia dove tendere”. Vale a dire che il senso spirituale è costituito dal senso allegorico, dal senso morale e dal senso anagogico. Si ha allegoria quando un fatto storico (senso letterale) diviene figura di una verità di fede cristologica, come abbiamo visto il passaggio del Mar Rosso. Si ha senso morale quando un fatto diviene un modello esemplare di una verità di fede da seguire per ottenere salvezza. Quando il patriarca Giacobbe lotta con l’angelo (Genesi 32, 23-33), l’episodio diviene un insegnamento morale del combattimento che il cristiano deve fare contro la sua carne, il mondo e il diavolo nel seguire gli insegnamenti evangelici, fino al martirio. Oppure quando la Bibbia dice che il grande re d’Israele Salomone venne spinto ad adorare gli dei stranieri dalle sue donne (1Re 11), il senso letterale è che anticamente i re facevano i cosiddetti matrimoni interdinastici per stipulare alleanze con stati stranieri, quindi il testo biblico non vuole intendere tanto che quelle erano donne con cui Salomone aveva stretto rapporti sentimentali o sessuali quanto piuttosto rapporti formali, esse provenivano da altre nazioni e lo convertirono alle loro divinità, ma l’episodio può acquistare un senso morale nel cristianesimo, quello di prestare massima attenzione alle tentazioni della carne, che spingono a peccare contro Dio, cosa molto sentita nel cristianesimo, pensiamo solo al fatto che Origene si evirò pur di non incorrere nei peccati della carne. Si ha senso anagogico quando certi avvenimenti si illuminano di un significato eterno: per cui la Gerusalemme degli ebrei diviene segno del Paradiso.
I salmi sono 150 liriche dell’Antico Testamento, scritti in ebraico. Molti salmi hanno un significato cristologico, vale a dire che l’autore umano li ha scritti per delle circostanze ben precise entro il contesto storico nel quale viveva, ma poi si illuminano di un senso spirituale in riferimento a Cristo. Pensiamo solo al Salmo 89, un salmo regale composto per la intronizzazione di Davide. Ai vv. 4-5 è scritto: “Ho stipulato un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide mio servo: Stabilirò in eterno la tua discendenza, ti edificherò un trono di generazione in generazione”. Alcuni ipotizzano che i vv. 4-5, nei quali Dio parla in prima persona, siano una citazione dell’oracolo stesso in quanto il ritmo della poesia cambia (3+3 accenti). Ma per alcuni studiosi la struttura unitaria dei primi 5 versetti del salmo non ne consentirebbe la lettura frammentaria. Ma non tutti sono d’accordo. Questo salmo, infatti, adotta tecniche compositive tipiche del salterio, come l’apertura che annuncia ciò che seguirà indicandone scopo e meta e poi l’incorniciamento che racchiude inizio e fine (inclusione), oltre a queste due, altra tecnica diffusissima nei salmi è la composizione a blocchi, cioè la scomposizione tematica proprio a sezioni non strettamente omogenee, probabilmente per riutilizzo di testi di origine differente. Andiamo avanti. Al versetto 5 compare di nuovo la coppia di verbi “edificare-stabilire”, in ebraico bnh-kwn, che abbiamo già nel versetto 3 e che riecheggia 2Samuele 7, 12-13: “Renderò stabile (kwn) il tuo regno; egli (tuo figlio) edificherà (bnh) una casa per il mio nome e io renderò stabile (kwn) il trono del suo regno”. Quindi il senso letterale è chiaramente regale. Ma gli autori cristiani hanno visto in questo e in altri salmi la figura del Cristo, per cui il trono non è più quello terrestre ma quello dei Cieli, sul quale l’Uomo Dio, Gesù Cristo, siede in eterno, di generazione in generazione.
Relativamente all’Antico Testamento, detto Tanakh, anche gli ebrei compiono opera di interpretazione. Sono stati tre i modi principali: halakà (con valore normativo), haggadà (ogni interpretazione non normativa), targum (traduzione-commento in aramaico, che differisce dalla haggadà per l’assenza di continui rimandi ad altri passi biblici). Gli ebrei riconoscono più sensi. I sensi principali sono quattro, evocati dall’acronimo PARDES, Paradiso:
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Peshat: letterale; il Talmud (Shabbath 63a; Jebamoth 11b; 24a) ricorda che il passo biblico non perde mai il senso letterale;
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Remez: allegorico;
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Derash: interpretazione figurata;
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Sod: significato segreto, esoterico, tipico della Cabala.
Possiamo dire che la esegesi ebraica della Tanakh segue due grandi linee, anche se non sono sempre separate: quella razionale e quella cabalistica. La prima è seguita principalmente nel Talmud e ha varie regole esegetiche, basate su deduzione logica e analitica e dette Middot. Le più importanti sono le 7 regole di Hillel; una loro estensione è costituita dalle 13 regole esegetiche di Rabbi Ishmael; invece Eliezer ben Jose ne elencava 32. Pensiamo solo alla nota regola dell’analogia (gzerà shava), per cui se una parola o frase compare in due passi separati, è possibile istituire una comparazione tra di loro. Anche Paolo adottava questo procedimento, per esempio in Lettera agli Ebrei 4. Oppure pensiamo a un’altra regola di esegesi ebraica, detta QW oppure a minori ad maius, che si ritrova anche nella Bibbia. Se un fatto è valido per una circostanza minore, tanto più vale per una circostanza maggiore. In Esodo 6, 12 Mosè dice al Signore: “I figli di Israele non mi ascoltano, come potrebbe ascoltarmi il faraone?”. Il pensiero rabbinico farà grande uso di questo tipo di ragionamento, così come anche Cristo. In Matteo 12, 11-12 è scritto: “Chi è colui tra voi il quale avendo una pecora, se quella cade in un pozzo di sabato, non la prenda e non la tragga fuori? Ora, da quanto più è un uomo che una pecora! Gli è dunque lecito fare il bene di giorno di sabato”.
Invece le regole cabalistiche sono basate sulla “simpatia”. Pensiamo soltanto alla tecnica della permutazione, che consiste nell’anagrammare tutte le consonanti possibili di una parola ebraica per ottenere nuovi significati. È un procedimento analogo alla tecnica alchemica del Solve et Coagula: una parola si “dissolve”, cioè viene scomposta, e dalle consonanti si istituisce un nuovo significato, cioè si “coagula”. Facciamo questo esempio. La parola ebraica pere significa “selvaggio”, ma anagrammando le consonanti si forma la parola efer, “cenere”. Quindi una interpretazione cabalistica è che colui il quale segue la propria natura “selvaggia”, cioè istintuale, irrazionale, sarà raddrizzato da Dio mediante una dura prova che lo ridurrà in “cenere” per imparare a vivere secondo le leggi divine.
La Bibbia è ricca di particolarità linguistiche, filologiche e letterarie. Un vero pascolo per gli studiosi che tentano sempre di dare nuovi contributi in relazione alle innumerevoli problematiche. In Lamentazioni 2, 13 abbiamo in ebraico mah achidek mah adameh lak: il primo verbo (achidek) può essere tradotto come “testimoniare”, “portare testimonianza”, “dire”, allora il senso sarebbe “cosa posso dirti … per consolarti?”; ma questo verbo può essere anche sinonimo del secondo (adameh), quindi sarebbe “a cosa ti rassomiglierò, a chi ti paragonerò per consolarti?” (questa seconda resa è preferibile se si considera che il ricorso a espressioni sinonimiche è una tecnica frequente nella poesia ebraica). In Gioele 2, 17 c’è la forma ebraica li-mshal: dato che il verbo ebraico MSHL con davanti la be significa “dominare su” gli antichi traducono “al vituperio che è il dominio su di loro delle nazioni”; invece gli autori moderni collegano la forma al sostantivo ebraico mashal, “proverbio”, “scherno”, e traducono “al vituperio, allo scherno di loro delle nazioni”. In Naum 2, 11 compaiono tre sinonimi ebraici: “distruzione, devastazione, desolazione”, il secondo è un hapax, il terzo è un participio pual sostantivato dalla radice BLQ che in questa forma compare solo qui; il secondo termine ha una sillaba in più del primo, il terzo una in più del secondo, si esprime in questa maniera un incremento di intensità del sentimento descritto. Facciamo un altro esempio. In Abacuc 2, 10 è scritto: “Hai decretato la vergogna della tua casa, distruggendo molti popoli e hai peccato contro te stesso”. “Hai peccato” è in realtà in ebraico un participio qal dalla radice HTH’, “peccare”, cioè chothe’, che il testo masoretico considera apposizione al soggetto del verbo precedente. Ma le versioni antiche e gli autori moderni tendono a emendarlo e lo leggono come un qatal di seconda persona maschile, cioè “hai peccato”, chatha’ta, concordandolo con la forma verbale precedente, come facciamo noi. In Sofonia 3, 18 abbiamo un testo pieno di problemi, sicuramente è stato corrotto nella trasmissione. Gli studiosi di continuo cercano varie soluzioni, ma risulta incomprensibile ad ogni possibile resa.
Noi traduciamo la Bibbia con le categorie mentali che ci provengono dal pensiero greco, ma gli ebrei ragionavano in una maniera molto differente. Il pensiero greco descrive gli oggetti in relazione al loro aspetto, invece il pensiero ebraico in relazione alla loro funzione. A causa di questo aspetto in ebraico i verbi sono usati più degli aggettivi. Per noi, discendenti del pensiero greco, un cervo e una quercia sono due oggetti molto diversi, infatti li chiamiamo con nomi diversi. Invece per l’ebreo erano detti con lo stesso termine, ayil, in quanto la loro descrizione funzionale è uguale. La parola ayil significa di per sé “leader forte”, “sovrano”, ed era impiegata per il cervo in quanto considerato uno degli animali più forti della foresta, e per la quercia perché ha il legno molto duro rispetto agli altri alberi, quindi viene vista come il “leader” tra gli altri alberi del bosco. Per questo in riferimento al Salmo 29, 9 noi occidentali disponiamo di due possibili traduzioni: “La voce del Signore fa partorire il cervo” oppure “La voce del Signore contorce le querce”. Invece chi ha composto il salmo in questione voleva comunicare l’idea che la voce del Signore, cioè la sua parola, fa girare, rigira, sconvolge addirittura i capi forti.
Facciamo un altro esempio. La Bibbia ebraica mette spesso in contrapposizione chi osserva e chi infrange i comandamenti di Dio. Noi pensiamo che l’autore biblico volesse dire la obbedienza e la disobbedienza. Ma questa è una occidentalizzazione. Nell’ebraico biblico “mantenere” è shamar, che significa letteralmente “custodire, proteggere”, mentre “rompere” è parar e significa letteralmente “calpestare”. Quindi l’autore non voleva indicare la obbedienza e la disobbedienza meccanica verso i comandamenti bensì l’atteggiamento nei loro confronti: la contrapposizione è tra chi li apprezza e tra chi li getta a terra, li calpesta, li disprezza; in definitiva l’autore parlava di chi ama la parola di Dio e di chi non la ama.
Il pensiero greco è astratto, mentre il pensiero ebraico è concreto. Il primo quindi ragiona con categorie astratte, il secondo mediante espressioni concrete. Nel Salmo 103, 8 abbiamo che il Signore è misericordioso e lento all’ira. Ma questa traduzione è una occidentalizzazione. Difficilmente l’ebreo ragionava in termini puramente ideali. “Misericordia” è rechem, che indica letteralmente il grembo materno. Quindi l’autore umano non voleva rinchiudere Dio in una categoria astratta bensì paragonarlo ad una madre esaltando in questa maniera la sua vicinanza all’uomo. “Lento all’ira” è letteralmente “lento di nasi”. Quando una persona è molto arrabbiata, inizia a respirare a fatica e le narici iniziano ad allargarsi. Un ebreo vede la rabbia come un divampare di nasi, cioè di narici. L’autore umano ci sta dicendo molto concretamente che Dio si arrabbia raramente mediante l’immagine di una persona “lenta di naso”.
Anche il Nuovo Testamento ha molte problematiche, pensiamo alla questione sinottica (la storia della formazione dei primi tre vangeli, cioè Matteo, Marco, Luca; una ipotesi abbastanza recente è stata quella della fonte Q) o alla questione giovannea (sul quarto vangelo). In Luca 18, 25 c’è il noto detto di Cristo “è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno di Dio”: già Cirillo proponeva di correggere la parola greca kamēlon, “cammello”, con quella simile e poi a quell’epoca dalla stessa pronuncia kamilon, “corda, gomena”. Facciamo un altro esempio. Alcuni manoscritti riportano in Matteo 27, 16 e 27, 17 che il prigioniero Barabba viene chiamato Gesù Barabba. In aramaico il nome Barabba significa “figlio (bar) del padre (abba)” e alcuni ritengono che sia un epiteto aramaico di Cristo che potrebbe essere stato traslitterato in greco e poi frainteso come nome proprio. Invece Westcott e Hort ipotizzavano questo: nel punto fatidico c’è in greco umin (Iēsoun ton) Barabban; ora, anticamente la scrittura nei manoscritti era continua (le parole non erano separate), quindi qualche copista avrebbe interpretato la “-in” della parola um-in come una abbreviazione del nome Iēsoun, dopo di che l’errore avrebbe dato luogo a una famiglia di manoscritti con la parola Gesù prima di Barabba.
Ricordiamo che il greco usato nel Nuovo Testamento non è quello classico, quello di Euripide, di Lisia, di Senofonte, ma il greco ellenistico detto koiné dialektos, ed è quasi sempre nella sua variante popolare, ricchissima di semitismi, cioè di espressioni provenienti dalle lingue semitiche parlate dagli ebrei ai tempi di Gesù, vale a dire aramaico (lingua d’suo quotidiano) e ebraico (lingua liturgica): chi compose il Nuovo Testamento lo scrisse in greco ma pensava con le categorie delle lingue semitiche, quindi infarciva il dettato con espressioni particolari. Per le chiese orientali questa presenza massiccia di forme provenienti da altre lingue si spiega con il fatto che i vangeli sarebbero stati scritti in aramaico e solo dopo tradotti in greco. Invece Carmignac ipotizzava che la lingua originale fosse un ebraico simile a quello ritrovato nei testi di Qumran.
Per esempio si incontra il comunissimo ebraismo “e avvenne, ci fu, c’erano” come frase introduttiva, che non trova giustificazione in greco. Luca 2, 1: “Avvenne in quei giorni (che) uscì un decreto di Cesare Augusto di censire tutta la terra abitata”. Luca 2, 8: “E c’erano in quella regione dei pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al gregge”. Oppure a volte abbiamo nei vangeli un participio grafico, detto anche pleonastico o descrittivo, in quanto descrive una azione precedente o concomitante al verbo principale ma che è facilmente intuibile: riflette un ordinario modo di esprimersi semitico, da rapportarsi alla mentalità concreta e espressiva (Matteo 8, 7: “Avevano anche pochi pesciolini; ed egli detta la benedizione su di essi, fece distribuire anche quelli”, dove il participio greco eulogēsas, “avendo benedetto”, è ripetitivo). Ancora. All’inizio del prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1-18) è scritto: “In principio era la Parola e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio”. Si tratta di una struttura detta concatenatio, nella quale la frase successiva sviluppa la frase precedente. In essa avviene il calco in greco della congiunzione ebraica we, la quale introduce una frase che sviluppa quanto detto nella frase precedente. Una simile struttura la abbiamo anche in Giovanni 16, 16: “Un poco e non mi vedrete più, e poi un poco ancora, e mi vedrete”. Ricordiamo anche la espressione che Cristo pronuncia in Giovanni 2, 4: “Che c’è in comune tra me e te?”, riferita alla Madonna. In greco abbiamo ti emoi kai soi ed è il calco della nota espressione ebraica mah-li walak.
Facciamo qualche altro esempio. Il modo di esprimersi semitico fa largo uso del complemento di specificazione (per via dello stato costrutto) rispetto all’aggettivo, quindi il greco usato da persone che avevano più familiarità con una lingua semitica rispecchia tale mentalità (si parla di genitivo ebraico). In Luca 16, 8 abbiamo letteralmente “amministratore di ingiustizia”, oikonomon tēs adikias, ma il dettato migliore in greco sarebbe dovuto essere “amministratore ingiusto”, oikonomon adikon. Ancora. In Giovanni 1, 11 è scritto letteralmente: “Nella propria proprietà venne, e i suoi non lo accolsero”, in greco eis ta idia ēlthen, kai oi idioi auton ou parelabon. Queste parole greche denotano una relazione di stretto possesso, c’è chi ha richiamato un contesto tipicamente ebraico, cioè la segullah dell’ebreo, la proprietà-base che era tutto quello che poteva avere un pastore ebreo (qualche pecora tra quelle del padrone). L’espressione “nella propria proprietà”, eis ta idia, fa riferimento a quella ebraica beitho, “casa propria”. Inoltre le parole greche potrebbero indicare anche un legame di sangue. L’intimità del rapporto fa capire il dramma della non accettazione della Parola. È quel “mondo” (kosmos) creato dalla Parola (o logos) ma che non la ha accettata e che quindi si trasforma nel “mondo” in quell’altro senso, l’entità negativa che non accoglie la Parola: l’autore del prologo usa l’espressione “non lo accolsero”, ou parelabon, che è un termine della sfera giuridica, e come nota Bultmann tutto il Vangelo di Giovanni allude a un grande processo fatto dai Giudei nei confronti di Cristo in tutta la sua vicenda terrena (per questo dopo la dipartita di Cristo egli invierà il Paraclito, che in greco significa avvocato difensore). Facciamo un altro esempio. In aramaico esiste una particella ambigua, di, che può indicare tanto una cosa quanto una persona. In Marco 14, 68 abbiamo “Non so e non capisco tu cosa dici”, oute oida oute epistamai su ti legheis, mentre nel testo parallelo di Luca 22, 57 abbiamo “Non lo conosco”, ouk oida auton. Probabilmente c’è dietro un’unica fonte aramaica che aveva usato la particella di, che Marco ha tradotto in un modo e Luca in quell’altro. Il testo aramaico doveva essere: di ‘amar ‘ant, cioè non so “ciò che dici” oppure non so “di chi dici”.
Quando leggiamo il Nuovo Testamento, scritto in greco ma da persone che pensavano secondo categorie ebraiche, dobbiamo ricordarci che in greco il nome indica perlopiù una persona o una cosa, come oggi in italiano, mentre in ebraico il nome è spesso come un verbo, cioè indica perlopiù una azione. Quando diciamo ginocchio, pensiamo come i greci, cioè indichiamo una parte del corpo, ma l’ebreo quando diceva berak, intendeva un ginocchio che si piega. Allora la parola derivata berakah, “benedizione” e “dono”, indicava non un semplice dono ma un dono portato con il ginocchio piegato in segno di umile omaggio. Gesù nell’Ultima Cena benedice il pane e il vino, compie quindi una cerimonia di benedizione e di offerta a Dio Padre del pane e del vino come il suo corpo e il suo sangue, ma il senso del gesto è squisitamente ebraico: una umile prostrazione di Cristo alla volontà del Padre. Allo stesso modo in ebraico av indicava il padre come colui che dà forza alla famiglia (mentre la madre, em, come colei che la tiene unita): pertanto quando Cristo chiama Dio come Padre sta evocando la sua funzione di datore di forza e di ogni altro bene, anche grazie al sacrificio che Cristo compie della sua vita.
Tutto il greco biblico è caratterizzato dai semitismi. Un libro dell’Antico Testamento in greco è quello di Tobia, che in 8, 19 ha la espressione greca artous pollous, letteralmente “molti pani”, ma taluni non la intendono in senso letterale ma come calco dell’espressione aramaica lechem rab, tradotta dalla Settanta con dochēn megalēn e da Teodozione con deipnon mega, cioè “un gran banchetto”. Oppure pensiamo in Tobia 14, 10 alla espressione greca en tōi poiēsai eleēmosunēn, “grazie alla elemosina” (letteralmente “nel fare elemosina”), nella quale en + dativo non esprime un locativo ma uno strumentale perché ricalca la preposizione ebraica be. Questo sintagma di Tobia è interessante anche perché nel Codex Sinaiticus il verbo poiēsai è seguito da me, come se Tobia dicesse “grazie alle mie elemosine”, ma si tratta di un errore commesso da questo codice. Forse l’originale era la forma verbale ebraica bchswt-w, “con il suo fare”, che è stata letta erroneamente dal codice come bchswt-y, “con il mio fare”: il codice potrebbe aver commesso tale errore in quanto all’epoca era frequente il fenomeno della intercambiabilità tra y e w. Un altro libro dell’Antico Testamento scritto in greco è Baruc, che si apre con la congiunzione “e”: è un classico semitismo e indica che l’opera è connessa con quella precedente, cioè la profezia di Geremia. Anche il testo greco del libro di Daniele mostra molti semitismi, pensiamo solo alla struttura e+verbo+soggetto. E via dicendo.
L’arabo è una lingua semitica storicamente recente (compare a partire dal V secolo a. C.), ma strutturalmente antichissima. La prima testimonianza importante dell’arabo la abbiamo con il Corano (VII secolo d. C.). Il Corano è il testo sacro dell’Islam, per i musulmani contiene l’ultima rivelazione, quella perfetta. Il mistico musulmano Sunā’ī, prendendo la prima e la ultima lettera del Corano, cioè la ba della basmala e la sin di al-nas nella sura 114, evoca la parola di origine persiana bas, “abbastanza”, quindi sostiene che il Corano è quanto basta agli uomini ora e sempre.
La sura 3, 7 del Corano dice che i versetti possono essere semplici oppure allegorici. Un hadit dice esplicitamente che il Corano ha un senso essoterico (zahir), cioè che tutti possono capire, e un senso esoterico (bahir), cioè riservato a una interpretazione appannaggio di pochi. Alcuni esegeti musulmani riconoscono nel Corano quattro sensi: quello letterale così come enunciato (ibarat), quello allusivo (isharat), quello occulto relativo al mondo sovrasensibile (lata’if), quello delle alte dottrine spirituali (Haqa’iq).
Per lo sciismo, l’altro grande ramo dell’Islam, diffuso soprattutto in Iran, ma minoritario rispetto a quello ortodosso o sunnismo, diffuso soprattutto in Arabia Saudita, il mondo materiale trova corrispondenza nel mondo spirituale, vale a dire che materia e spirito si compenetrano a vicenda, dall’uno si passa all’altro. Dalla materia brilla una luce superiore nello spirito senza che la materia sia annullata, bensì trasfigurata. È la legge delle corrispondenze, il simbolismo dei mondi (tawāzon al-‘awālim). Gli universi o mondi nei quali cui si struttura la creazione sono tra di loro corrispondenti.
Uno dei più grandi maestri della spiritualità iranica del XIV secolo è stato Semnānī, il quale interpretava Corano 41, 53: “Mostreremo loro i nostri segni negli orizzonti e nelle loro anime”. Gli orizzonti (āfāq) corrispondono al mondo materiale, mentre le anime (anfos) sono il mondo interiore, spirituale. Vale a dire che il Corano ha un senso sia nel mondo materiale (senso letterale) sia nel mondo spirituale (senso spirituale). Esiste infatti sia il tempo cronologico, quello della storia, della lettera, che Semnānī chiamava zamān āfāqī, sia il tempo interiore, quello dello spirito (zamān anfosī), nel quale l’avvenimento storico non è annullato bensì trasfigurato.
Uno dei pensatori più eminenti della Persia savafide è stato Qāzī Sa’īd Qommī, il quale prevedeva tre tipi di tempo:
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Tempo opaco (zamān kathīf), è quello degli esseri materiali;
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Tempo sottile (zamān latīf), quello degli esseri spirituali, è il Mondo dell’Anima;
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Tempo ancora più sottile (zamān altaf), quello delle intelligenze più spirituali, gerarchicamente superiori, è il Mondo dell’Intelligenza.
A questo punto i mondi paralleli ma diversi nei quali si articola la creazione sono tre, gerarchicamente superiori: quello sensibile, quello dell’anima e quello dell’intelligenza. Ognuno ad ogni passo successivo si schiude nell’altro senza essere annullato.
Un famoso hadit sciita pone invece quattro mondi o posizioni (maqāmat):
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Maqām detto “segreto che rimane avvolto nel segreto”;
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Maqām detto “segreto del segreto”;
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Maqām detto “il segreto”;
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Maqām essoterico, cioè manifesto a tutti.
Il mondo materiale (l’essoterico) è in collegamento con un mondo superiore detto “il segreto”, il quale a sua volta trova corrispondenza in un mondo ancor superiore detto “segreto del segreto”, il quale fa la stessa cosa con l’Abisso, la Verità della Verità, ossia “segreto che rimane avvolto nel segreto”, il mondo ultimo, perfettissimo.
Ora, il Corano è sia un libro materiale, apparso nella storia, cioè nel mondo o nel tempo storico, quello inferiore. È il testo che possiamo comprare in libreria e magari leggere anche in arabo. È il livello letterale, al quale spetta il senso letterale. Ma esiste anche un Corano eterno, l’archetipo celeste del Libro rivelato a Maometto da Dio. Questo archetipo perfettissimo si situa nel livello dell’Abisso, del “segreto che rimane avvolto nel segreto”. Questo livello sta alla base del senso spirituale più recondito del Libro. Esistono poi altri due sensi spirituali che sono nel mezzo e che corrispondono ad altrettante discese epifaniche di questo archetipo nei mondi inferiori, cioè il “segreto del segreto” e “il segreto”.
Quindi il Corano ha quattro sensi: uno letterale o essoterico e tre spirituali o esoterici, di profondità crescente.
Inoltre, anche il Corano, come tutti i testi antichi, ha molti problemi linguistici e filologici. Per esempio ha molti prestiti e influenze dall’aramaico, tanto che si è ipotizzato che sia stato scritto in questa lingua e solo dopo tradotto in arabo. La sura 108 si apre con questo versetto: “In verità ti abbiamo dato l’abbondanza”, che in arabo suona inna ‘ataynaka l-kawtar. Non si sa bene cosa significhi l’ultima parola, kawtar: alcuni pensano a un nome dalla radice KTR, che potrebbe significare “abbondanza”; ma si tratta di una soluzione teorica poco probabile, quindi altri ipotizzano un nome proprio, ma non si sa chi possa indicare; quindi altri ancora propongono un calco dall’aramaico kuttara, “pazienza”.
L’arabo ha una storia variegata e già all’epoca di Maometto l’arabo era composto di vari dialetti. I dialetti arabi ḥigāzeni del tempo di Maometto non pronunciavano la hamza, invece quelli orientali sì. Sappiamo che nei primi la hamza mediana si mutava in una vocale lunga, mentre nei dialetti orientali era pronunciata distintamente. Questa è la ragione storica per la quale una parola come ra’s, “testa”, viene scritta contemporaneamente con la hamza e con la alif: la pronuncia ḥigāzena leggeva la alif (vocale lunga), invece quella dei dialetti orientali conservava la hamza; i grammatici presero come base l’ortografia ḥigāzena ma per dare conto della pronuncia dei dialetti orientali la integrarono con un segno creato ex novo a partire dalla lettera ayn, cioè la hamza.
Invece il cinese è una grande famiglia di lingue spesso non intellegibili tra di loro, come il cinese classico, il cinese moderno, il cinese mandarino, il cinese cantonese, e così via. Il cinese appartiene al grande gruppo delle lingue sino-tibetane.
Il cinese che studiamo in Occidente è perlopiù il cinese mandarino. Non è, certamente, quello che veniva parlato nel corso di un lunghissimo periodo. Come tutte le lingue, il cinese ha subito un’evoluzione sotto vari aspetti. L’aspetto più evidente, per chi studia il cinese classico, è che tranne per rarissime eccezioni, si tratta veramente di una lingua monosillabica, aspetto che nel cinese moderno c’è ancora, ma soltanto il 20% è monosillabico. La maggior parte delle parole attuali del cinese è bisillabica, cioè è formata da due caratteri. Nel cinese moderno ci sono anche parole monosillabiche e parole che possono essere abbreviate. Ad esempio, Xuexi, “studiare”, può anche essere detto solamente xue, per cui, fondamentalmente, torna al monosillabismo originario. Ci sono molti verbi che sono tutt’ora monosillabici, come ad esempio i verbi di movimento. Ma ci sono anche tantissimi verbi, che sono la maggioranza, che sono composti. Questi ultimi, delle volte, hanno differenze minime tra loro, come Gǎibiàn, “cambiare”, e Gǎi zhūn, “correggere”.
Tra le altre differenze tra cinese classico e cinese moderno, vi è un’enorme sinteticità della frase del cinese classico. Il che vi porta da un lato ad avere frasi molto sintetiche, in cui mancano molte preposizioni o dei caratteri che conosciamo grazie allo studio dei complementi. Ciò porta, apparentemente, ad una facilitazione, ma in realtà bisogna essere abbastanza elastici per tradurre bene una frase. Ad esempio ci sono dei brani in cui c’è un sottinteso ipotetico o temporale. Dunque, quando traduciamo dobbiamo aggiungere “se…”, oppure “quando…”, “nel caso in cui…” e così via, che non sono scritti. La giusta resa dipende dalla nostra corretta interpretazione del senso della frase.
Il cinese è una lingua che si è evoluta nel tempo. La sua forma scritta è un aspetto diverso rispetto, alla evoluzione degli aspetti fonologici e, quindi, della pronuncia. Il primo supporto scritto che noi conosciamo sono le listarelle di bambù. Si trattava di listarelle che venivano unite insieme da una corda. Su ogni listarella c’era una singola riga in verticale, massimo due. Quindi, un libro era formato da un certo numero di queste listarelle che, poi, venivano arrotolate. Da ciò possiamo capire che arrotolarsi una persiana sotto al braccio non era possibile, era ingombrante. Dunque, ciò ci giustifica perché i testi dell’epoca erano molto brevi. Ci sono studiosi che si occupano della forma scritta del carattere, che si evolve nel tempo anche in maniera molto complessa. Alcuni caratteri in questo periodo erano scritti in maniera diversa. Il cinese dell’antichità era quello che oggi definiamo “cinese non semplificato”, ovvero quello che si usa ancora oggi a Taiwan, Hong Kong e in molte comunità cinesi nel mondo occidentale, come negli USA, in Australia e così via. Quello che noi studiamo, invece, è il cinese semplificato. Infatti, dopo la vittoria dei comunisti in Cina Popolare, nei primi anni ’50, il governo comunista decise, per favorire l’apprendimento, di semplificare un certo numero di caratteri cinesi. Si trattava di caratteri molto usati e utili, ad esempio il carattere Tīng, “ascoltare” oggi è molto semplice, mentre in cinese originario era difficile da memorizzare, perché era formato da moltissimi segni. Anche il carattere Yì, “arte”, è stato semplificato, ma prima era estremamente complesso, aveva circa 13/14 tratti di pennello.
Ci sono anche dei caratteri che sono rimasti uguali, come Rén, “persona”. Ma, al di là della forma del carattere, anche l’aspetto fonologico è mutato nel tempo. Dunque, ci sono tutta una serie di studi che cercano di ricostruire anche il suono del cinese delle varie epoche. Come è stato possibile ricostruire un suono in mancanza di registrazioni del cinese antico? Attraverso i cosiddetti “rimari”, ovvero i libri di rime delle poesie. Si è notato subito, analizzando, ad esempio, le poesie di epoca Tang, quindi un’epoca non così remota, il periodo d’oro della poesia, che delle volte non fanno rima se leggiamo il cinese con la pronuncia attuale. Da lì si è partiti con una serie di studi sulla pronuncia. Ci si è basati sui rimari e sul Qieyun, un testo scritto nel 601 d.C., quindi un po’ prima dei Tang. Attraverso questi testi, in particolare il Qieyun, si è ricostruito in modo abbastanza accurato il cinese parlato o, almeno, la pronuncia del cinese scritto, dell’epoca Tang. C’erano i quattro toni, ma non erano esattamente quelli che si studiano oggi.
Ad esempio, il quarto tono, che noi definiamo come tronco, era chiamato “entrante”. I toni del cinese in epoca Tang non equivalevano al carattere singolo. Possiamo fare un collegamento tra il cinese e il greco antico, perché questo aveva vari dialetti. Infatti, è vero che c’erano varie forme scritte in Cina, ma anche varie forme del parlato. Se andiamo indietro nel tempo di parecchi secoli a partire dai Tang, la ricostruzione fonetica di com’era la pronuncia è sempre più incerta. Per cui ci sono studi, ad esempio, sulla pronuncia del periodo dei Regni Combattenti, ma non c’è una certezza scientifica, perché non abbiamo neanche il supporto dei rimari del VII secolo. Quindi, si sono fatti molti passi avanti, ma la ricostruzione del cinese di 2000 o 2300 anni fa, quindi di anche epoca Qin, Hàn o, prima ancora, dei Regni Combattenti, è una ricostruzione che ha una certa percentuale di accuratezza, ma non è sicura.
Oggi ci sono solo i suoni nasali: –ng, tipo “Wang”, “sovrano”. Prima, invece, c’erano delle parole che terminavano con –g e –k e con delle dentali –t e –d. Questo fenomeno non esiste più, ma questi suoni un po’ particolari che terminano con -g e -k si sono parzialmente conservati in alcuni dialetti dell’estremo Sud. Il cantonese, ad esempio, pare essere un altro figlio del cinese di epoca Tang, per non parlare poi di altre lingue tipo il vietnamita, che per motivi geografici è confinante con la zona in cui si parla il cantonese.
Per Wényán si intende il cinese classico, mentre il Báihuà è il vernacolare. Man mano che passarono i secoli il cinese classico risentì sempre più di quello vernacolare. A un certo punto, anche grazie all’influsso del buddismo che arriva in Cina, nei testi medievali cominciano a mostrarsi degli elementi di origine vernacolare. Ad esempio, i dialoghi del Chan. Il Chan è una particolare tradizione buddista che nasce in Cina nel VII secolo, all’inizio dei Tang, è quello che in Giappone è chiamato lo Zen. I dialoghi Chan sono i dialoghi tra un maestro e un discepolo, a volte sono molto divertenti, surreali, particolari. Proprio perché vogliano riprodurre quello che è l’effettivo dialogo, non è più come l’epoca classica dove nel Mencio (famoso testo classico confuciano) questi parla col Re in cinese classico, puro. Nei Chan troviamo anche delle espressioni vernacolari, inizialmente con altri significati.
Stando alle ipotesi linguistiche più accreditate (Shiratori, Ranstedt, Polivanov), il coreano non è una lingua sino-tibetana come il cinese, ma una lingua altaica, imparentata quindi con mongolo, lingue turche, giapponese, mancese. Come nelle altre lingue altaiche, il coreano è agglutinante; nell’ordine della frase il verbo si trova per ultimo ed è preceduto dai complementi diretti e indiretti, mentre i modificanti (aggettivi, avverbi, forme relative) anticipano i termini cui si riferiscono; non prevede distinzioni di numero e genere e l’uso di articoli; vi è armonia vocalica. La presenza nel coreano, secondo alcuni linguisti, anche di elementi tipici delle lingue uraliche o sino-tibetane, tradisce la complessità che caratterizza il processo di formazione della lingua e del popolo coreano.
Esistono anche delle lingue isolate, cioè che sembrano non appartenere a nessuna famiglia in particolare, come il sumerico, l’etrusco, il basco e l’egiziano antico. L’egiziano antico ha una storia di 5000 anni e nella sua ultima fase, il copto, è parlato ancora oggi.
Il verbo egiziano è molto complesso. Pensiamo solo alla coniugazione suffissata, quando al verbo si aggiunge un pronome. Le forme suffissate dell’egiziano antico sono sei. Ne presentiamo solo due: il prospettivo (congiuntivo, futuro, presente) e il passato (con l’aggiunta dell’infisso N).
La forma sDm=f corrisponde, in copto, alla parte radicale dei causativi. Ad esempio, il copto t-senkó=f, “allattarlo”, significa letteralmente: “far sì (t-) che egli poppi (senkó=f)”. Da qui possiamo capire che, nella forma sDm=f, la vocale si trovava dopo la prima consonante della radice (“radicale”) e dopo la terza, e che quest’ultima era una vocale lunga, dunque accentata: *sanqá=f. Sempre dal significato che ricopre nei causativi (“che egli poppi”, congiuntivo), impariamo il significato principale di questa forma: quello, appunto, del congiuntivo. Altri significati che la forma sDm=f può assumere sono quello di un futuro più o meno inevitabile (qualcosa di simile alla forma “shall” inglese) o, più banalmente, di un presente indefinito: sDm=f nTr, “che egli oda il dio!, egli udrà il dio!, egli ode il dio”.
La coniugazione sDm-n=f non sopravvive in copto, ma è conservata nella forma tardo-egiziana n-urét-ne=f, “egli non può stancarsi”, lett.: “egli non si è stancato (mai)”, e nella trascrizione cuneiforme satep-na-, “scelto da”. Da queste due forme possiamo capire che, nella forma sDm-n=f, la vocale si trovava dopo la prima radicale come /a/, dopo la seconda come /e/, ossia come /i/ (visto che l’egiziano non possedeva la /e/), e dopo la /n/ come /a/: *saDím-na=f. Sempre dal significato che ricopre in queste forme, possiamo capire che la forma sDm-n=f corrisponde al nostro passato prossimo o remoto: sDm-n=f nTr, “egli ha ascoltato / ascoltò il dio”.
Oggi si considera Marx come antropologo della filosofia del linguaggio. Ha tentato di produrre una diagnosi della modernità (che prenderà definitivamente vita con Foucault). Marx crea un’ontologia del presente. Per Marx è tipico del capitalismo mettere in rilievo alcuni tratti immutabili della nostra natura umana, che è metastorica da sempre, ovvero non cambia nel tempo. Le invarianti biologiche messe in evidenza creano potere e ricchezza. L’unica coscienza reale è il linguaggio. La forza/lavoro è pura potenza, potenzialità. Non è una potenza accanto alle altre ma è la Somma di tutte le capacità/facoltà mentali e somatiche dell’uomo. La modernità consiste nella compra-vendita del non-reale e quindi della forza/lavoro, che non è il lavoro ma la possibilità di esso.
La mente umana ha il suo fulcro nella relazione con l’altro. Ciò che mi definisce non è in me ma nel TRA. Prassi: attività di una specie che oltre a vivere deve rendere possibile la propria vita. È un’attività politica che produce risultati che continuano nel tempo anche dopo la fine della prassi. Per prassi intendiamo anche rappresentazione della trasformazione dell’attività sociale con il fine quindi di rendere possibile la propria vita (Idealismo hegeliano come riconoscimento del carattere trasformativo dell’attività umana che si contrappone al materialismo ovvero la rappresentazione come specchio, caratterizzato da passività).
Il termine prassi ha la precedenza rispetto alla tripartizione Azione/Lavoro/Produzione. La prassi viene prima del pensiero ed è un genere senza specie. I giochi linguistici di Wittgenstein dipendono dalla prassi e non viceversa. È come una funzione matematica di cui l’argomento è la prassi stessa.
Per Marx l’homo cognitivus non esiste e rende irreale il materialismo. Esiste solo l’uomo che rende possibile la sua vita. Paradossalmente l’idealismo di Hegel è più realistico.
La filosofia del Tra è ciò che definisce il singolo nella relazione. Il Tra rende possibile il singolo. E lo rende unico. La natura umana esiste solo nella relazione tra i molti. Si parla di Ontologia della relazione, che è anti-psicologica perché la relazione è tra le Menti e quindi La Mente si annulla. Il piano individuale esiste ma ESISTE SOLO GRAZIE ALLA RELAZIONE.
Identificare il linguaggio in relazioni umani significa per Marx che il linguaggio è un tutt’uno con la coscienza e con il pensiero.
Quindi per Marx la prassi è attività e la natura umana è relazione. A rendere possibile la vita è la storia! L’individuo è individuale perché è la singolararizzazione di qualcosa di comune. L’auto produzione della vita appartiene ad una specie che ha un mondo e che è disambientata. Essa non è rappresentata dal lavoro (che è libero).
La scissione storica determina dei sistemi sociali. La forma storica che rende possibile l’autoproduzione della vita è il conflitto e la storia nasce dalla biologia.
Il materialismo è per Marx è un errore poiché sconfina nell’utopia. Teoria dell’agire comunicativo (dove comunicazione significa comprensione etico-politica). Nel materialismo l’essere umano è soggetto di rappresentazioni e la sensibilità è passività. Marx sostiene che la sensibilità è un’attività pratico-ricorsiva dell’ambiente. Crea inoltre la scissione tra “al di là” e “al di qua”. In quest’ultimo c’è la scissione nella vita reale. Il materialismo classico fa i conti con la natura ma non con la storia.
L’autoproduzione della vita non produce modelli di società giusta. Per Chomsky invece sì. La giustizia per Marx dipende da susseguirsi di diverse operazioni che portano a diverse possibilità. L’ambiente viene trasformato attraverso il linguaggio. L’autoproduzione della vita non suggerisce un modello di società giusta, come invece fa Chomsky. C’è la necessità di trasformare il proprio contesto vitale (La storia è ricorsiva).
Qui si fonda l’antipsicologia: l’etica della relazione non esclude il piano psichico singolare ma cerca di individuare l’interiorità che parte dalla relazione. La psicologia individuale è il risultato di una relazione transindividuale. Il linguaggio e le idee non sono separati. Bisogna scambiare ciò che è condiviso e comune con ciò che è universale ovvero con il TRA che vive nella relazione ma ha un nome a sé. Ciò che è universale è ciò che trovo in tutti i membri di una classe o specie.
Oggi i filosofi del linguaggio si occupano anche della analisi del problema della sintassi: il ruolo dell’enunciazione altrui ha dei presupposti linguistici. Reazione al discorso altrui. Ideologia come configurazione linguistica (non esiste l’ideologia senza le parole) e vita del segno, che è qualcosa di reale che riflette una ulteriore realtà. Il segno-segnale è una sollecitazione dall’ambiente e costituisce quindi una ferma relazione con lo stato mentale.
Il significato è affare della coscienza interiore. I segni non sono né psicologici né sentimentali. Compaiono nel processo di interazioni tra coscienze individuali. La coscienza diviene tale solo riempiendosi di un contenuto ideologico. L’errore è la localizzazione della realtà dei segni nella coscienza individuale e singola. Il segno può sorgere solo in un territorio individuale e la coscienza si assesta nel materiale linguistico. Tale interazione linguistica caratterizza il processo produttivo che comporta un dialetto, un modo di usare un linguaggio.
La parola non può essere solo qualcosa di individuale. Nulla è più collettivo dell’atto di parola. La sintassi è quindi intesa come ciò che è comune, collettivo. Lo scambio verbale è essere invasi nel proprio parlare ed è discorso indiretto. Il discorso altrui, anche nel bambino, viene interiorizzato nel monologo interiore.
Le unità componenti sono quelle che possiedono in sé le proprietà fondamentali dell’interno, parti di un interno in forma di diagramma. Il Significato deriva dalla fusione tra pensiero e linguaggio. Il linguaggio è Funzione comunicativa. La parola è unità componente dell’unione tra pensiero e linguaggio e la componente affettiva è componente del pensiero.
Il passaggio dal linguaggio preverbale al verbale è, per Piaget, anello di congiunzione tra lo stato iniziale e quello successivo, dove quello iniziale è superato da forme di pensiero che corrispondono a forme di linguaggio. Essere il centro dell’ambiente di ciò che accade ha dato vita alle prime forme di pensiero-logico.
Per Piaget dove inizia un pensiero realista, logico, sociale, il linguaggio egocentrico del bambino finisce e inizia quello comunicativo.
La parola è senz’altro un segno e per Deleuze i segni dell’arte in tutte le sue forme, anche quella letteraria, sono certamente comunicativi, ma in ultima istanza ci portano all’essenza. La vera arte, come quella espressa da Proust, supera la contingenza della soggettività e quella delle proprietà dell’oggetto, le supera in una ampia comunicazione addirittura con l’essenza. Per Deleuze l’essenza è capitale nella vita dell’individuo perché ci fa partecipare ad un tempo originale, che fonda il nostro stesso essere persona. La contingenza comunica l’essenza, ma la verità di questo tempo originale non si comunica, ma si interpreta, non è voluta, ma appare improvvisamente e in maniera involontaria.
Prima di Proust, Goethe non voleva riprodurre la storia, ma cercava nelle sue opere di rappresentare qualche cosa di tipicamente umano. Lo ha trovato nello streben, in quell’atteggiamento di continua ricerca che caratterizza il Faust, aperto al desiderio e al continuo tendere verso qualcosa che lo completi. Abbiamo qui a che fare oramai con l’epoca moderna, nella quale l’uomo non si accontenta più di soluzioni redatte a tavolino dai sapienti ma cerca con spirito indomito la propria verità nel mondo, che con lo spirito che sarà quello del capitalismo tenta anche di costruire mediante la tecnica, in una tensione continua verso il mondo. L’età di Goethe, di cui Goethe è il rappresentante per eccellenza, è l’esito di una tendenza al rinnovamento che ha iniziato ad esprimersi dall’umanesimo rinascimentale, secondo la tesi di Korff, e ha finalmente trovato la sua forma più compiuta e ha posto le basi dell’uomo moderno. La storia non è più vista come il passato, specie religioso, che ci fonda, bensì qualcosa da studiare con spirito scientifico e filologico: adesso ci fonda il simbolo, cioè ciò che ci rapporta alla inesauribilità della vita, a quel sentimento di ricerca di senso non in uno sterile passato che non c’è più, ma nell’uomo stesso e nella sua vitalità. In Goethe avviene quella Intuizione Poetica mediante la quale si instaura un connubio tra Ragione e Fantasia: i due mondi non sono più separati ma collaborano affinché l’uomo esprima completamente le proprie potenzialità. Ma la storia non viene annullata del tutto, bensì trasfigurata mediante l’Idea, che mette in stretta relazione il passato con il futuro. L’incertezza della vita non viene vinta con la esaltazione del passato bensì con l’Idea, che dà senso e forma all’agire dell’uomo. Questa Idea si esprime nell’arte e soprattutto nella poesia.
È significativo, come nota Blanco, che per i romantici di Francia il tempo presente sembra bloccare il movimento del tempo e della razionalità. Pertanto essi andavano contro le idee allora dominanti di libertà e progresso come evoluzione storica, ne segnalavano le contraddizioni e agognavano il passato. Ma l’età di Goethe (quella del Romanticismo tedesco) si pone in stretta relazione con l’avvenire, il progresso, quello spirito umano che fonda la realtà sull’uomo e non sulla sola storia. La tradizione deve essere superata in vista della inesauribilità della vita, cioè deve essere in stretto collegamento con il futuro. Non va annullata (in quanto ogni scrittore si pone sul solco della tradizione precedente) ma va innovata e trasfigurata in continuazione. Ogni nuova opera al tempo stesso fa rivivere il passato ma altresì lo cambia.
Per Berlin il Romanticismo è stata la più grande rivoluzione cognitiva della storia dell’umanità. Alla fede acritica nella tradizione si sostituì il dare la vita per le proprie convinzioni. Anche se solo l’artista percepisce la sua arte come bella, è giusto che egli dia la vita per questa convinzione, andando contro i giudizi degli altri. Nel Medioevo le luci interiori erano soffocate da istanze soteriologiche, invece con il Romanticismo si inizia a voler sacrificare la vita per le proprie luci interiori, e uno dei modelli è Beethoven, il quale seguendo la luce interiore chiuso in una soffitta crea capolavori e quindi è un eroe romantico. Ideali di sincerità e di integrità, contro ogni falsa adesione a idee di comodo. Lo spirito romantico è presente ancora in noi. Il nostro animo aspira a quegli ideali di fiducia nelle forze umane e di quanto c’è di buono nell’umanità, pur senza dimenticare che il passato è sempre la base del presente. Dallo spirito romantico nasce anche la contraddizione: prima si pensava che le cose buone potessero andare d’accordo, ma con un tipico dramma romantico, La morte di Danton composto da Büchner, le persone assistono alla scena di un rivoluzionario carico di errori che quindi va messo a morte anche se non merita di morire.
Ci sono molte ragioni per le quali un artista compone le sue opere, traccia dei segni grafici oppure visivi oppure acustici, e altro, e ri-crea la realtà in maniera originale. In esse la storia come passato è sempre presente, ma viene anche superata e trasfigurata. Nella poesia trobadorica occupa un posto di rilievo Rudel (1125-1148), il quale scriveva perché avvertiva in sé una grave mancanza. Il suo io lirico avvertiva una grave inquietudine perché non aveva quegli elementi contingenti che gli permettevano di raggiungere la felicità. Rudel vedeva la bellezza della natura quale opera di Dio e provava un grande vuoto: allora mosso da questo sentimento componeva le sue liriche. La scrittura è un mezzo per evocare l’amore, che sembra colmarlo di questa mancanza di felicità assoluta. Quindi amore come ritorno originario al paradiso fetale, in quel grembo della madre nel quale il bambino si sentiva onnipotente e perfettamente beato. Allora amore come collegamento con l’inconscio personale, quella struttura senza tempo della nostra mente dove il presente può ritrovare il passato.
La vera arte affonda le radici altresì nell’inconscio collettivo, che sta alla base di immagini archetipiche generate dagli archetipi le quali guidano la nostra coscienza. Per questo nella cultura di tutti i tempi ci sono storie che sembrano ripetersi.
Alcuni fanno risalire i Veda addirittura al 6000 a.C. e sostengono che siano i testi più antichi dell’umanità ai quali tutte le storie successive hanno tratto direttamente ispirazione. Secondo la prospettiva di Guénon, che troverebbe conferma dalle dichiarazioni dei sapienti di tutte le tradizioni, esisterebbe una sola religione sulla faccia della terra, una vena sotterranea che si esprime in qualche modo in tutte le religioni manifeste. Se vogliamo è anche il concetto di Filosofia Perenne, cioè una visione mistico-soteriologica che accomunerebbe per discendenza diretta i grandi sapienti di ogni dove e di ogni tempo.
Boccaccio nella novella Le Tre Anella racconta di un saladino sufi che chiede a un orafo ebreo quale sia la vera religione tra ebraismo, cristianesimo e Islam. L’orafo ebreo risponde con una storiella: in una famiglia ci si trasmette un prezioso anello d’oro da generazioni, ma ad un certo punto il padre ha tre figli quindi fa fare delle copie dando così l’anello a tutti e tre. Boccaccio vuole dirci che le tre grandi religioni monoteistiche si equivalgono. Lullo ne Il Libro del Gentile e i Tre Savi diceva sostanzialmente la stessa cosa. Nella Hypnerotomachia Polifilo viene condotto da due ninfe in una grotta davanti a tre porte con sopra tre scritte: in arabo, in ebraico e in greco e latino, simboli dell’Islam, dell’ebraismo, del cristianesimo orientale e del cristianesimo occidentale. Ebbene queste scritte dicono più o meno la stessa cosa, quindi le religioni monoteistiche si equivalgono. Albera e Couroucli curarono un volume nel quale si pongono in evidenza i luoghi sacri comuni ai tre monoteismi: molti santuari dal Mediterraneo fino all’India furono per secoli luoghi di culto indistintamente di ebrei, cristiani e musulmani.
Molti studi comparativistici anche attuali traggono da queste idee la loro ragion d’essere, pensiamo a quelli di Coomaraswamy, che nei suoi oltre mille scritti analizza dettagliatamente il fenomeno artistico, filosofico e culturale indiano mettendolo a confronto con quello occidentale, ma più di recente anche a quello di Izutsu, che ravvisa fermi collegamenti tra sufismo e taoismo, mentre il principe moghul del XVII secolo Dārā Šikōh ne ravvisava tra l’Islam in genere e l’induismo.
Molto probabilmente i Veda sono di gran lunga più recenti, le religioni sono assai diverse tra di loro, i grandi pensatori dell’umanità esprimono idee estremamente divergenti tra di loro, molto spesso incompatibili. Più che altro le religioni sono spesso sincretistiche, come il Viṣṇu indiano attuale che assomma il dio vedico aiutante di Indra, il culto degli eroi (Vira) e il culto post-vedico del Narayana. Nell’antico Egitto Cristo veniva raffigurato come il dio egiziano Osiride. In Giappone nello scintoismo le divinità (kami) dopo un certo momento vennero intese quali i vari buddha del buddhismo. E così via.
Le storie dell’umanità che sembrano ripetersi nelle letterature e nelle arti di tutti i tempi sono, in realtà, frutto di quella arte letteraria, pittorica, musicale e dei nuovi mezzi di comunicazione la quale trae linfa vitale da quei sogni ad occhi lucidi che spesso accompagnano la vita dell’artista e costituiscono il ponte con gli archetipi, cioè con i recessi della nostra psiche. Allora veramente la parola è un guado nel passato. I miti rievocati da ogni arte sono frutto delle divinità, intese come elementi psichici inconsci, ma che emergono nella cultura e sul piano individuale, potendo anche possederci. Sta qui anche la vena patologica di ogni civiltà, la quale si allaccia al sogno notturno e diurno come a una visione schizofrenica. Per la prospettiva junghiana la creazione artistica è un attingere a quegli dei sepolti nel nostro inconscio i quali se non trovano espressione nella nostra vita quotidiana possono anche diventare patologia. Per questo Jung diceva che gli dei si sono trasformati in malattie. È insomma in qualche modo il pathos del tempo, per cui nei segni dell’arte l’artista esprime un disagio profondo, una ferita che viene continuamente aperta e fatta sanguinare di nuovo dalle divinità che va ad evocare. Nella letteratura medico-filosofica francese dell’Ottocento è particolarmente evidente la prospettiva per cui il sogno è una patologia simile agli stati allucinatori e deliranti.
Con Internet il modo di raccontare le storie si sta rivoluzionando. Come le persone ascoltano un suono o vedono una immagine mediante dei modelli mentali, fanno la stessa cosa con l’informazione, che è processata dal nostro cervello mediante dei precisi schemi concettuali. Raccontare le storie è quindi un bisogno innato da sempre nell’uomo, che si propone in ogni cultura della storia. Però cambiano le modalità con le quali le persone raccontano le storie. Con Internet abbiamo un modo non consequenziale con il quale è possibile addirittura farne parte. Internet e soprattutto i social, ma anche i giochi virtuali, costituiscono una specie di grande performance collettiva nella quale siamo immersi e da semplici fruitori di sequenze narrative ne diventiamo anche gli attori.
La nostra società dello spettacolo, a cominciare dalla seconda metà del Novecento, ha visto incrementarsi di molto i mezzi di comunicazione ed è nato un fenomeno al quale adesso contribuisce persino Internet, quello del media mix, per cui una storia può essere raccontata mediante modalità assai differenti. La rivoluzione Internet sta cambiando anche il modo in cui l’industria dello spettacolo e altresì la letteratura si esprime nel raccontare le storie. Stiamo vivendo una vera rivoluzione nella quale l’arte non è solo dipendente dal genio dell’artista ma si esprime enormemente mediante una industria capillare che non solo sta alla base della sua diffusione ma addirittura contribuisce a crearla.
Per Benjamin la riproduzione perfetta dell’opera d’arte con i nuovi media ne intacca l’autenticità, che nel passato era la caratteristica fondamentale, e la trasforma in consumo. L’arte non è più irripetibile ma diviene un prodotto commerciale per la società di massa. L’arte perde quell’aura di esaltazione del divino che aveva prima e diviene un semplice prodotto commerciale. Questo fenomeno è tanto più vero con l’avvento di Internet, dove l’arte è riprodotta e diviene fruibile sempre più facilmente.
Internet doveva all’inizio essere qualche cosa di molto settoriale, così come Facebook, ma, a detta di Gladwell, i cambiamenti sociali sono come le epidemie, si diffondono alla stregua di un virus tra le persone fino a che non raggiungono un punto critico dopo il quale c’è una grande esplosione del contagio, che non segue più le leggi di causa effetto da cui è nato, quindi, socialmente parlando, scatta una rivoluzione che travolge le nostre vite e fa cambiare la cultura che produciamo, di conseguenza la civiltà e la storia.
Come notava Segre, oggi la filosofia e la critica letteraria rinunciano alle teorizzazioni e alla totalità, “oggi la seduzione della totalità è appassita”, e assieme a questa è appassita anche una terminologia dogmatica. Oggi è sparito l’utopico tentativo di considerare globalmente l’attività letteraria di un periodo o di uno scrittore. È insomma quel “pensiero debole” di Vattimo, che si estende anche alla critica letteraria.
Certamente Internet è il frutto di questo abbandono dei “laternoni” (Pirandello), cioè delle certezze assolute, per cui oggi sul web non esiste più una sola voce che guida tutti, ma ne è anche una delle cause in un certo qual modo, in quanto Internet frantuma ancora di più le certezze: non parlano più solo gli esperti ma tutti possono esprimere la loro.
Quindi se prima il linguaggio verbale si faceva sempre più meno dogmatico, adesso il linguaggio verbale (e non solo) del web è divenuto molto più malleabile e duttile, molte regole grammaticali sono saltate, si è fatto più vicino alla comunicazione reale, più icastico, più giornalistico, meno pedissequo e artificioso.
Da sempre esiste l’influenza dello “spazio mediale” sull’opera letteraria, cioè quanto su di essa agiscano gli aspetti materiali e immateriali, come la cultura e i media di riferimento. I poemi omerici si facevano portavoce delle istanze sociali di allora e sono per Havelock una sorta di “enciclopedia tribale” che veicolava all’uditorio i valori fondamentali del tempo ma anche le tecniche. Con il romanzo borghese del Settecento e dell’Ottocento si assisteva a un grande indottrinamento, erano continuamente esaltati i valori di quella società, come l’intraprendenza e lo spirito di sacrificio della nascente borghesia evocate dal Robinson Crusoe. Oggi il web si fa portavoce in continuazione non di una sola società ma di tutta la società che può trovarvi espressione. Di conseguenza anche la letteratura ne risente ed essa diviene crogiuolo nel quale nascono a nuova vita idee sempre più innovatrici, meno settoriali, cioè universali. Siamo in piena globalizzazione culturale.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 36 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
Bibliografia
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M. Dārā Šikōh, La congiunzione dei due oceani, Milano 2011;
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R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano 1989;
T. Izutsu, Sufismo e taoismo, Milano 2010;
H. A. Korff, Umanesimo e Romanticismo, Rovereto 2007;
L. Lucci (a cura di), Gioele. Introduzione, traduzione e commento, Milano 2011;
S. Martin, I. Piazza (a cura di), Spazio mediale e morfologia della narrazione, Firenze 2019;
E. M. Obara, Lamentazioni. Introduzione, traduzione e commento, Milano 2012;
V. Pietrantonio, Archetipi del sottosuolo. Sogno, allucinazione e follia nella cultura francese del XIX secolo, Milano 2011;
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F. Rose, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di Internet, Torino 2011;
J. Rudel, L’amore di lontano, Roma 2003;
D. Scaiola (a cura di), Naum, Abacuc, Sofonia. Introduzione, traduzione e commento, Milano 2013;
C. Segre, Ritorno alla critica, Torino 2001;
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G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Roma-Bari 2005;
V. N. Volosinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari 1976;
L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Milano 2011;
M. Zappella (a cura di), Tobit. Introduzione, traduzione e commento, Milano 2010;
M. Zerwick, Biblical Greek, Roma 2001;
E. Zolli, Il Nazareno. Studi di esegesi neotestamentaria alla luce dell’aramaico e del pensiero rabbinico, Milano 2009.
Libri pubblicati da Riflessioni.it
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