Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Rorty e l'ironia liberale
di Massimo Fontana - Dicembre 2014
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Essenza vitrea e rappresentazione
La filosofia e lo specchio della natura presenta già dall'inizio l’intento di una svolta non fondazionalista, la proposta di accantonare la tradizione fondativa kantiana e cartesiana riaffermata più o meno consapevolmente nel positivismo logico e nella filosofia analitica, discipline innovative rispetto al passato ma che hanno comunque il difetto di distogliere l’attenzione dai temi sociali a vantaggio di questioni accademiche aliene al divenire storico.
È un'operazione terapeutica, nel senso di un invito a non cadere nei vecchi vizi metafisici della filosofia. Dewey, Heidegger, Wittgenstein hanno posto le basi per superare i paradigmi dominanti.
Ispirandosi a Thomas Kuhn Rorty traccia un parallelo tra paradigmi scientifici e filosofici. Anche i paradigmi filosofici consistono in una particolare immagine del mondo, formatasi attraverso gruppi di teorie coerenti tra loro. Ogni problema viene risolto attraverso i metodi e i modi proposti da questo paradigma, sino a che non si presenteranno problemi apparentemente irrisolvibili, che porteranno con sé l'esigenza dell'introduzione di un nuovo paradigma e dunque di nuovi modi di risolvere nuovi problemi, dimenticando semplicemente i vecchi.
La filosofia e lo specchio della natura si sviluppa seguendo un percorso storico nel tentativo di superare concetti quali conoscenza, mente, linguaggio, memore del pensiero di filosofi come Sellars, Quine, Davidson, Ryle.
In particolare, Rorty propone di fare a meno di una metafora che ritiene logora, quella che ci permette di descrivere la mente umana come qualcosa capace di riflettere la realtà per come essa si presenta in sé, senza finzioni. La mente come uno specchio capace di rappresentazioni oggettive. Quest’occhio interiore deciderebbe se certe rappresentazioni sono da considerarsi corrette, corrispondenti, se le verità dell'arte sono tali oppure pallide imitazioni delle verità della geometria e della matematica. Questo specchio potrebbe essere a sua volta osservato e studiato attraverso metodi non empirici, puri. La certezza dell'esistenza di queste rappresentazioni privilegiate, unita alla consapevolezza del possesso di una facoltà infallibile utile a isolarle e a riconoscerle, fornisce infatti il principale argomento all'epistemologia, la disciplina che vorrebbe fondare tutte le discipline.
Cruciale è mettere in discussione il nesso tra dimensione mentale e immateriale (dunque tutti gli eventi mentali sono eventi fisici, stimolazioni del sistema nervoso). Un’impostazione fisicalista e materialista, per la quale ogni evento può essere descritto in termini microstrutturali e che rende impossibile ridurre qualsiasi tipo di evento in un’ipostasi (ci sono casomai relazioni tra entità linguistiche).
Per giungere a questo occorre assumere una concezione antirappresentazionalista, riconoscendo che nulla nella nostra “mente” o nel nostro linguaggio trova riscontri esatti out there. Per l’appunto, nessuno specchio interiore.
Rorty contrappone questa sua osservazione alla teoria della conoscenza di Locke, che considera il carattere intenzionale di un'iscrizione in relazione a un'idea che la avvalori. Quest'idea è ciò che si pone “out there”, di fronte alla mente dell'uomo quando questi pensa. Per Locke l'identificazione tra immateriale e intenzionale (il riferimento di un atto umano a qualcosa di esterno) è inevitabile e nessuna parola o processo cerebrale dicono nulla in sé, a meno che non intendano riferirsi a questa realtà immateriale esterna che è l'idea.
In questo modo la stimolazione cerebrale che noi descriviamo con una metafora linguistica, ad esempio dolore, all'interno della teoria epistemologica intenzionale-immateriale diviene un'ipostasi: il dolore è definito e oggettivato come realtà esistente in sé.
“The neo-dualist who identifies a pain with how it feels to be in pain is hypostatizing a property (…) The neo-dualist is no longer talking about how people feel but about feeling as little self-subsistent entities, floating free of people in the way in wich universal float free of the instantiations. He has, in fact, modeled pains on universal” (Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton 1979, p 30, traduzione di G. Millone e R. Sallizone: Il neodualista che identifica il dolore con la sensazione di provare dolore ipostatizza una proprietà (…) Il neodualista non parla più di cosa la gente sente, ma delle sensazioni come piccole entità indipendentemente sussistenti, svincolate dalle persone allo stesso modo in cui gli universali sono svincolati dalle proprie estrinsecazioni. In effetti, egli modella il dolore sugli universali. Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986, p. 30).
Ma una realtà esterna, definita immateriale, sostiene di conseguenza un'esigenza, quella di affidare i processi conoscitivi a un'entità interna a sua volta invisibile, che possa cogliere le idee.
Quest'entità è la mente.
Rorty mette in dubbio la facoltà di essere separatamente dal corpo da parte di qualcosa come “la mente”. Non vi sono ragioni evidenti per distinguere tra stati fisici e stati mentali o di porre delle differenze tra un resoconto del tipo: "Mi sento infreddolito!", da uno del tipo: "Nutro la speranza di diventare l'uomo più ricco del mondo".
Come già John Dewey ricordava, questo tipo di conoscenza indubitabile, proprio perché pura e non empirica, pone le basi per tutte le proposte di filosofia come fondazione della conoscenza certa e di epistemologia come scienza che fonda la legittimità di tutte le altre scienze. Il desiderio di colmare la lacuna tra soggetto e oggetto della conoscenza attraverso meccanismi epistemologici genera, sempre secondo Dewey, una approccio filosofico spettatoriale, magari stimolante in ambito accademico, ma socialmente sterile.
Rorty, su questo solco, sostiene che l'unica cosa di cui disponiamo sono proprio i processi cerebrali e le parole più adatte per descriverli. Nulla può giustificare una teoria infallibile del significato se non la fede verso qualcosa di esistente in sé e fuori di noi, che fonda la nostra esistenza.
Conoscere se stessi, esistere separatamente dal proprio corpo, possedere una dimensione priva di spazio, cogliere gli universali, sono certezze conseguenti alla visione dualistica della realtà.
Già i filosofi greci attribuiscono una particolare nobiltà a quel tipo di conoscenza che è la conoscenza attraverso l'occhio della mente, un occhio imparziale che osserva tutto e formula giudizi basati sulle idee di bene, bello, uguale, ecc.
Rorty ricorre a una metafora di Shakespeare per definire la mente come “glassy essence”, essenza vitrea, rispecchiante, raggruppando assieme nozioni diverse come l’anima o soffio vitale degli eroi di Omero, lo spirito animatore del mondo di San Paolo, l'intelletto attivo di Tommaso, sino alla coscienza cartesiana e alla mente.
C’è poi anche una distinzione tra la concezione dello specchio della natura e delle immagini che riflette proposta da Aristotele e quella cartesiana. Nella prima l'intelletto è lo specchio che diviene tutt'uno con l'oggetto osservato, un'immagine retinale che diviene tutte le cose, come se specchio della natura e occhio fossero la stessa cosa. In Cartesio abbiamo un punto di osservazione privilegiato, un occhio interiore che osserva le immagini riflesse nello specchio, nell'intento di giudicarle più o meno vere, chiare e distinte.
Mentre in Aristotele la ranità, l’idea di rana, è connessa indissolubilmente all'immagine della rana che osserviamo, attraverso l'interpretazione cartesiana noi possiamo distinguere tra la rana, ossia l'immagine retinale stessa, e l'idea chiara e distinta della rana che acquisiamo attraverso l'occhio interiore. Così la ranità finisce per avere una sua realtà separata. L'immagine retinale della rana viene invece bollata come apparente e soggettiva, perché non dà a Cartesio quelle garanzie che gli servono per rendere stabile e indubitabile una nozione.
A questa impostazione rappresentativa della realtà Rorty preferisce piuttosto quella ilomorfica di Aristotele, che non separa materia e forma attraverso la distinzione tra res extensa e res cogitans, attribuendo certezza alle conoscenze basate sulle sostanze prive di estensione, che divengono così indubitabili come un teorema geometrico.
Con Cartesio l’epistemologia sale sul gradino più alto, scalzando la metafisica, e l’indagine sul modo della conoscenza genera dualismo.
In La filosofia e lo specchio della natura si propone di considerare inscindibile la rana dalla ranità, senza fare dell'entità mentale un genere ontologico distinto. Allo stesso modo non si propone di negare gli universali, ma di mantenere un approccio nominalista evitando ipostasi.
Una volta eluso il dualismo, in assenza di dimensioni mentali da rifiutare, attribuiremo minore significato anche a una visione materialista della realtà.
L'essere umano consiste in una nerve net e ciò di che possiamo definire conoscenza può ricondursi a una sequenza di stimolazioni cerebrali. Anche il linguaggio, di conseguenza, è un linguaggio neurologico.
Rorty pensa che anche il termine sensazione non ci sia molto utile. La sensazione è un'ipostasi di una stimolazione della nostra nerve net.
Ancora sull'esempio del dolore. Noi proviamo dolore e nessuno conosce il dolore inteso come oggetto intenzionale della conoscenza, si tratta di uno stato nervoso e non mentale. Le complicazioni nascono confondendo questi due stati.
La storia della filosofia moderna inizia invece proponendo la teoria della conoscenza per valutare l'oggettività raggiunta dalle scienze nella loro ricerca, per proporre la certezza in luogo dell'opinione e della saggezza e quest'affermazione epistemologica è individuata da Rorty soprattutto in tre autori.
Innanzitutto Cartesio, come abbiamo visto, che definisce che cos’ è la mente, quest’occhio interiore che osserva e giudica l'attendibilità delle rappresentazioni interne.
Poi Locke, che dirige l'occhio interiore della mente all'esterno, a ciò che si presenta ai sensi e costruisce una scienza dell'uomo basata sulla convinzione che vi sia un metodo preciso per capire come funziona l'intelletto, pur se questo resta legato a una conoscenza empirica e sensibile. Si tratta di distinguere tra idee che possono assomigliare o meno ai loro oggetti esterni e che di conseguenza possono essere più o meno perfette.
Kant fonda epistemologicamente l'io concedendogli la stessa certezza che Cartesio aveva dato alle idee chiare e distinte, attraverso l'individuazione degli apriori della conoscenza empirica. In particolare Kant ripropone la concezione dualistica e definisce due fattori nel processo conoscitivo: il dato sensibile esterno e il momento interpretativo proprio dell'attività pensante. Vi è una molteplicità di dati empirici intuiti e riportati all'unità nel concetto, in una sintesi, dalla nostra facoltà razionale fondata su principi a priori.
Rispetto a Locke siamo di fronte ad un passo in più secondo Rorty, dalla conoscenza come percezione empirica di dati sensibili esterni a quella come definizione di criteri conoscitivi soggettivi a priori. Kant pensa che la conoscenza consista in un rapporto verticale tra le rappresentazioni e quello che è rappresentato.
La prima svolta sarebbe determinata da Hegel, il primo a proporre una filosofia non fondativa secondo Rorty. In questo senso la distinzione tra i filosofi di scuola hegeliana e storicista da quelli di scuola kantiana e fondazionalista.
Introducendo già l’idea di una filosofia che si nutre di conversazione e linguaggio d’uso più che sul confronto e le ipostasi, Rorty ricorda che i concetti sono concepiti con l'uso del linguaggio, olisticamente, nominalisticamente, sono parole giustificate dall'interno, dal loro uso e dal particolare contesto sociale in cui sono pronunciate. I concetti, o i significati in ambito analitico, sono utili per spiegare il nostro comportamento, come resoconti linguistico-soggettivi.
C’è insomma la proposta di un’idea di linguaggio come fatto indipendente dai significati, che può essere usato solo nella consapevolezza della sua funzione metaforica, nella descrizione di stimolazioni cerebrali successivamente giustificate dalla messa in gioco delle metafore in società.
Rorty separa due diverse correnti della filosofia analitica, quella di Putnam e Dummett, ancora epistemologica nel suo impianto, incardinata sull'analisi del significato, quella di Davidson, che demolisce le ultime certezze del linguaggio, negando che questo abbia alcuna relazione con il funzionamento della conoscenza oggettiva e proponendo una visione olistica e contestuale, del significato.
Davidson propone il superamento della fede in un super-linguaggio e dell'esigenza di porre relazioni tra schemi mentali come sistemi organizzanti e qualcosa come la realtà esterna che attende di essere organizzata.
Dunque per Davidson le affermazioni sulle particelle elementari non dovrebbero essere prese sul serio più di quanto non si faccia nel caso di affermazioni estetiche o morali. Anche la scienza, come l'arte, compie delle ridescrizioni delle stimolazioni del sistema nervoso che noi chiamiamo realtà esterna, attraverso il linguaggio metaforico.
Davidson respinge la concezione del linguaggio come qualcosa di esistente per sé tra l'io che lo formula e la verità esterna significata. Si può parlare piuttosto di un sistema di segni, suoni, parole, rumori che ci è utile in certi contesti e a certe condizioni per prevedere il comportamento linguistico di altre persone al fine di metterci in contatto con loro (in questo senso la sua Passing Theory).
La strada aperta da innovatori della tradizione analitica come Quine, Sellars e Davidson sarebbe anche la strada che potrebbe portare alla dissoluzione dei motivi di divisione tra filosofia analitica e tradizione continentale.
In particolare diventa importante il ridimensionamento del ruolo predominante della scienza e l'apertura ai nuovi orizzonti estetici, morali e narrativi in cui la funzione del linguaggio rimane cruciale, in una concezione dei vocaboli pienamente nominalista.
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