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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 04-02-2013, 21.46.43   #51
0xdeadbeef
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti

@ Aggressor
Ti interpreto bene se affermo che per te esiste una forma e una idea della forma allo stesso modo in cui
esiste l'idea e l'idea dell'idea?
Però, a questo punto (sempre che io ben ti interpreti), mi sorge una domanda: e che fine fa la materia?
Voglio dire: se il punto di partenza della nostra discussione era l'affermazione di Platone per cui si
deve dire cosa c'è di comune fra le cose corporee e quelle incorporee, posto che entrambe "sono", allora
l'unico modo di ri-comprendere la materia nella forma è quello classico, delineato da Aristotele, per cui
la forma è l'essenza necessaria che comprende, appunto, la forma e la sostanza, cioè la materia e l'idea.
Questa "strada" aristotelica però, come ti accennavo, ci porta ben lontani da Heidegger e dal suo Essere
come "possibilità", perchè Aristotele afferma l'Essere come sostanza necessaria, escludendo con ciò che
l'Essere possa essere "progettato in possibilità".
A mio avviso, l'unico modo di "uscire" dalla necessità aristotelica non risiede nell'ipotizzare una forma
e una idea della forma; ma, platonicamente, nel distinguere fra cose corporee e cose incorporee, ove con
il termine "cose incorporee" si intendessero sia le idee delle cose particolari che quelle delle cose nella
loro universalità.
Naturalmente, come ben capisci, questo significa ri-proporre la distinzione fra "res extensa" e "res cogitans",
ma (ed è questo il punto) non per ribattere una loro irriducibile diversità, ma per "dire" cosa c'è di comune
fra la corporeità e l'incorporeità (posto che entrambe "sono"). Un "dire" che passa PER Heidegger ed il suo
Essere come possibilità, e non finisce alla "solita" affermazione di Parmenide cui ci condurrebbe Aristotele
e la sua sostanza necessaria.
un saluto
(scusami se tardo a rispondere, ma ho molte discussioni aperte e, negli ultimi giorni, non troppo tempo libero)
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Vecchio 04-02-2013, 22.42.39   #52
maral
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti

Salve a tutti, sono nuovo del forum e scusate se mi intrometto in questa interessante discussione che ha avuto uno sviluppo notevole.
Riprendo dunque il tema iniziale della discussione introdotta dal mito platonico della battaglia dei giganti. Concordo pienamente sul fatto che il problema centrale attorno a cui ruota da sempre tutta la vera filosofia è quello dell'Essere così strettamente connesso con il problema della verità, poiché è innegabile che vero è solo ciò che è. A me pare ovvio pensare che sia le cose materiali che immateriali (o corporee e incorporee) siano e siano nel senso ontologico esistenziale del termine, ossia esistano nel loro darsi spontaneo, immediato e fenomenico alla coscienza e che l'inseità oltre la coscienza, Per quanto necessaria, è assolutamente indicibile. Ogni essente inevitabilmente è e in quanto è inevitabilmente appare nel suo esser-ci (ossia nel suo essere in quel "campo di senso" ad esso indissolubilmente legato che gli consente di ottenere un significato specifico, più o meno definito, tale da farlo apparire nel modo in cui appare e che solo gli compete).
A tal proposito mi sono annotato la domanda di Heidegger, apparsa nel corso della discussione: "abbiamo oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la parola "essente"? Tenterei di rispondere limitandomi alla tautologia per cui l'essente è ciò che è, nel significato che gli conferisce il suo esser-ci: questo albero in giardino che tocco e vedo innanzi a me, l'albero come astrazione concettuale, l'idea platonica di albero, l'albero parlante di una fiaba e il mitico albero della Vita insieme a quello del Bene e del Male sono tutti innegabili nel loro esserci nel campo di senso che dà loro lo specifico significato che hanno che li fa emergere-apparire alla luce della coscienza. L'albero del mito è proprio l'albero del mito, nel contesto di senso mitologico che lo fa apparire, ma esso è, proprio come l'albero del mio giardino, pur non essendo lecito confonderlo con esso anche se con esso avrà tratti in comune.
Una volta che abbiamo convenuto sulla necessità ontologica dell'essere di tutte le cose che in qualche modo sono (materiali o immateriali che siano), possiamo esaminare il significato predicativo strettamente legato al loro comune essere ontologico: cos'è questo qualcosa che è (un albero forse? materiale o immateriale? Quale albero?). Ed è qui che l' Essere ontologico dell'essente si apre al mondo della possibilità predicativa che, appunto in virtù dei suoi campi di senso, diventa un esser-ci molteplice. Indubbiamente l'Essere per necessità (l' Essere di ogni cosa che è) è il tratto comune che sottende per intero nel profondo ogni singolo essente comunque esso sia, ma nel modo in cui è questo singolo essente appare il tratto possibilistico dell' Essere, che pur tuttavia è ancora una necessità in quanto ogni essente è, ma insieme è quello che è e nient'altro. Appare dunque uno spazio definito da tutti gli essenti, ciascuno per come irriducibilmente è. Questo spazio è lo spazio in cui L'Essere si dà come tutto attraverso gli essenti che lo definiscono ponendo a contorno di sé il Non Essere. ossia il Niente che è nel significato di assoluta contraddizione che perfettamente gli attiene: il Niente è proprio quel non essere il cui significante è il Tutto. Ma anche il singolo essente apparendo traccia il suo contorno che fa sì che ci sia e lo traccia ponendo la propria alterità, ossia tutto ciò che esso predicativamente non è (la negazione dei predicati che in quel campo di senso in cui appare appaiono come suoi). L'essere predicativo è dunque necessità della possibilità dell'essere ontologico, così come il molteplice è necessità della possibilità dell' Uno che non è quella di divenire molteplice, ma di darsi immediatamente come molteplice e del molteplice di darsi immediatamente come Uno, mantenendo l'inseparabilità di ogni essente dai predicati che lo definiscono per quello che è nell'unico modo in cui necessariamente è (l'essere frondoso di questo albero è proprio concretamente e necessariamente l'essere frondoso di questo albero e non l'essere frondoso di un altro qualsiasi albero).
maral is offline  
Vecchio 05-02-2013, 08.12.30   #53
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Riferimento: La Battaglia dei Giganti

Per quanto riguarda Maral, devo ammettere di essere praticamente in tutto d'accordo con te. Nonostante questo, per non portare una definizione dell'Essere che sia del tutto tautologica (ammesso che ciò si possa fare), ti invito a leggere ciò che scriverò tra poco, e la risposta a 0xdeadbeef.



Maral:
Indubbiamente l'Essere per necessità (l' Essere di ogni cosa che è) è il tratto comune che sottende per intero nel profondo ogni singolo essente comunque esso sia, ma nel modo in cui è questo singolo essente appare il tratto possibilistico dell' Essere, che pur tuttavia è ancora una necessità in quanto ogni essente è, ma insieme è quello che è e nient'altro.

Ogni ente è, prima di tutto, esser-ci, cioè, per questo, esistente per/con gli altri essenti che delimiteranno il suo contenuto e gli danno peculiarità (esattamente come dici, il contesto che dischiude il contenuto). Questo possesso di una particolarità lo chiamiamo pure soggettività. Dunque, se tutte le cose che esistono hanno una soggettività, ciò che è comune tra loro è proprio questo: il possedere una forma specifica. Quando si parla di proprietà delle cose, tipo la grandezza, la bellezza ecc, si può creare un concetto che si dice "universale" col quale si indica la stessa caratteristica particolare sciolta però dalla contingenza delle sue manifestazioni concrete. Per questo mi pare che l'Essere non sia altro che un cocetto universale in cui si rinchiude il senso generale della soggettività (che esista per sé o meno l'Essere è una questione che rimando volentieri a quando ci troveremo d'accordo su questi punti).



0xdeadbeef
Però, a questo punto (sempre che io ben ti interpreti), mi sorge una domanda: e che fine fa la materia?

Da un lato posso dirti che sei troppo tentato di leggere i miei post con un rimando a filosofi specifici. Ti dirò che ho studiato Aristotele, e pur avendo certe idee in comune, non le esprimo negli stessi termini e non mi ci ritrovo appieno, per cui attenzione inomma (più che altro do un significato diverso alle parole con cui vengono tradotti i suoi concetti in italiano).
Precisato questo risponderò alla tua domanda in linea con i miei contenuti, iniziando peraltro con una domanda.
Cos'è la materia? In senso scientifico la materia è quella cosa che stà dentro gli oggetti di studio (diciamo che sarebbe l'energia più che altro, ma, insomma, veniamoci incontro), è un qualcosa che conferisce forse consistenza, ma la materia per sé non possiede una soggettività, una forma particolare: è ciò di cui sono fatti gli oggetti, non è il "come sono fatti gli oggetti". Per cui, come la "sostanza" del mondo delle idee (la cosa di cui sono fatte queste idee, se esistono), essa si realizza nella peculiarità degli oggetti al di fuori dei quali non saprei dirti se esista o meno (per me questa domanda è la stessa del chiedersi se l'Esistenza permane al di fuori degli essenti).

Cioè, stò dicendo che sia il mondo materiale che quello ideale (ammesso un simile dualismo) sono composti da essenti, cioè da entità distinte che, direi, si auto-limitano (nella loro peculiarità si fanno da contesto, da punto di riferimento l'uno per l'altro, dischuidendo ogni particolare esser-ci). Per dimostrare questo dicevo nell'altro post che l'idea del bello non è, per esempio, l'idea di unità; dunque, anche nell'iperuranio sembrerebbe esserci una soggettività degli enti e un reciproco informarsi (nel senso di delimitarsi portando a una forma, definirsi reciprocamente). Così come nel notro mondo vediamo delle forme e non la materia sottostante, nell'iperuranio vedremmo la forma delle idee universali e non la specifica materia sottostante. Secondo me questa "sostanza" sottostante, questa materia del senso scientifico che è pure l'energia, è lo stesso dell'Esistenza, un universale sotto cui si racchiude il senso dela soggettività.

Ultima modifica di Aggressor : 05-02-2013 alle ore 14.56.17.
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Vecchio 05-02-2013, 10.45.01   #54
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Devo aggiungere delle cose però, perché rileggedo i commenti mi accorgo di altro.


0xdeadbeef:
Ti interpreto bene se affermo che per te esiste una forma e una idea della forma allo stesso modo in cui
esiste l'idea e l'idea dell'idea?


Evidentemente un chiarimento degli effetti di una simile interpretazione l'ho data prima. In ogni caso, per non lasciarti senza risposta specifica, direi che SI, affermi bene; poi ho messo in risalto il problema di parlare dell'esistenza della idea di idea, come della idea di forma, perché mentre l'esser-ci tramite la soggettività dichiude una comunanza intrinseca (quella di possedere una soggettività: proprietà comune per tutti gli enti-nel-mondo), l'idea di forma, o l'idea di soggettività, o l'Esistenza in sé (l'Essere), non possiede questa soggettività che dischiude la comunanza. Non è dunque un ente-nel-mondo ed allora, si potrebbe dire: "non esiste" (ma su questo ci concentreremo in seguito forse).


0xdeadbeef:
Questa "strada" aristotelica però, come ti accennavo, ci porta ben lontani da Heidegger e dal suo Essere
come "possibilità", perchè Aristotele afferma l'Essere come sostanza necessaria, escludendo con ciò che
l'Essere possa essere "progettato in possibilità".


Non so se questa lettura di antitesi tra Aristotele e Heidegger sia frutto della tua riflessione o se si riferisca all'interpretazione stessa di Heidegger o chi per lui, in ogni caso è certo interessante. Quello che direi per ora è che l'essere per sé è intrinsecamente una possibilità (poter essere in un modo o in un altro, Essere con una certa forma o con un'altra), così può essere certo progettato nelle sue manifestazioni. Mi rendo conto però, di quello che avevo scritto in precedenza: l'ente-nel-mondo o la forma particolare porta con sé certe caratteristiche direi trascendentali. Tra queste 1) l'impossibilità di porsi al di fuori della relazione (distinzione) con altre forme. 2) un'armonia interna=> questo aspetto che ho trovato sarà meglio che lo chiarisca, ed è uno dei motivi fondamentali per cui mi sono intromesso in questa discussione, poiché, dicevo, questa "armonia" potrebbe trovare un corrispettivo (o essere una causa o effetto) nel concetto di "progetto" Heiddegeriano. (Qui diventerei sempre più oscuro però, almeno adesso, per cui ancora sono costretto a rimandare).


Volevo sottolineare che non conosco Heiddeger direttamente dai suoi testi ma indirettamente, e non totalmente, per il tramite dei saggi di Gadamer e delle lezioni di ermeneutica di Donatella Di Cesare (allieva di Gadamer e importante studiosa di Heiddeger). Per cui alcuni concetti mi sono chiari, altri li riesco a comprendere solo tramite un po' di riflessione.


Importante:
Mi pare di aver capito, fin ora, che il modo in cui inquadro l'Essere e lo definisco sia, in qualche modo, troppo astratto e trascendente rispetto agli enti-nel-mondo di quanto non faccia Heiddeger. Cioè io sciolgo dapprima l'Essere da qualsiasi carattere vagamente determinato/soggettivo (come potrebbe essere quello di un progetto, che alla fine considero come una forma determinata, cioè in contrasto con l'idea di una forma determinata/in opposizione all'Essere), eppure, andando a cadere su delle caratteristiche trascendentali degli enti-nel-mondo (in puro senso Kantiano, cioè come caratteri intrinsechi delle forme possibili in sé, in corrispondenza, appunto, con le caratteristiche intrinseche di una conoscenza possibile in sé), non faccio forse che definire dei "caratteri" dell'Essere, in quanto implicitamente ammetto che il suo manifestarsi abbia delle connotazioni imprescindibili, che a questo punto intuitivamente non avrei problemi ad ammettere: manifestino il vero "senso" dell'Essere. Il cui primo è sicuramente l'essere-per-l'altro o l'essere-con-l'altro.


Ma qui è importante sapere se questa progettualità Heidegger la ascrive a tutti gli enti, o solo all'uomo. Se fosse da ascrivere ai soli uomini, scarterei che egli stia parlando dell'Essere nel senso che più gli conviene (più possibilmente onnicomprensivo). In ogni caso la mia posizione non è antropocentrica; il fenomeno kantiano è per me una condizione di tutti gli enti in quanto forme, come si sarà capito. Perché oggetto di esperienza o meno, un soggetto possiede delle peculiarità=> concetto che si annullerebbe in assenza dell'alterità. In altre parole una sasso, osservato o meno, possiede delle proprietà non per sé, ma nella relazione con l'altro, e meglio, alla Fichte, la relazione dischiude la soggettività.

Ultima modifica di Aggressor : 05-02-2013 alle ore 14.58.55.
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Vecchio 05-02-2013, 16.17.17   #55
maral
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@Aggressor
D'accordo, ogni ente è innanzitutto un esser-ci, ove il ci lo determina in modo interattivo per quello che propriamente è, il ci è l'insieme significante del significato specifico e irriducibile di soggetto. Trovo però che questa forma soggettiva peculiare abbia in origine il suo limite, il suo proprio contorno nel momento stesso del suo apparire come risultato della costante interazione con ogni altra forma esistente pertinente al campo di senso in cui può apparire.
La materia-energia sottostante a queste forme a questo punto verrebbe a coincidere con la modalità interattiva astratta di tutte le forme specifiche, ma il fatto di aver utilizzato un termine fisico specifico rende questa "materia-energia" ancora un altro essente (sia pure con pretese universali molto forti) e non l'Essere ontologico che pone a suo unico confine il niente. A meno ovviamente di non postulare arbitrariamente (e a mio avviso contraddittoriamente) che tutto ciò che è non è altro che materia-energia e che quindi anche ciò che non appare come fisico (materiale, corporeo) al fisico debba per forza prima o poi essere ricondotto per confermarne l'esistenza.

Sopra abbiamo usato il termine forma per dar ragione della specificità degli enti, presupponendo dunque una sostanza informe che venga formata acquisendo carattere peculiare di soggetto. In realtà penso (in accordo con Aristotele) che forma e sostanza nel loro senso di universali astratti, siano nel concreto essente assolutamente inseparabili, ossia l'essente sia sempre (in quanto forma) per l'altro e, a mezzo dell'altro, per sé e (in quanto sostanza) in sé e, a mezzo del sé, nell'altro.
L'Essere non è allora solo in sé ma è in sé e per sé ove tra l'in sé e il per sé ci sta l'essere di ogni essente per gli altri essenti, come tu stesso affermi quando scrivi che il suo primo carattere è l'essere-per-l'altro e con-l'altro, ove questo altro non è l'altro dell'Essere che non è, ma l'altro essente di ogni essente.

Infine, se mi permetti, una domanda: cosa intendi con l'Essere può essere progettato nelle sue manifestazioni? In che senso progettato? Progettato da chi e per cosa?
maral is offline  
Vecchio 05-02-2013, 21.42.33   #56
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@ Aggressor
Allora, vediamo di chiarire un pò meglio i termini della discussione.
Io credo che quando si afferma l'Essere si afferma, per così dire, "l'assoluto universale". Che quindi
contiene in sè le cose corporee e le cose incorporee, e quindi anche l'idea e l'idea dell'idea (senza stare
quindi a specificare sulla materia e l'immateria, oppure sull'idea come forma particolare o sull'idea dell'idea
come universale delle idee).
L'Essere "è" però secondo due modalità fondamentali: la possibilità e la necessità.
Quella che io definisco "strada aristotelica" assume l'Essere secondo la modalità della necessità ("è impossibile
che l'Essere non sia", dice Aristotele nella "Metafisica"). E', questa di Aristotele, una concezione che egli
deriva direttamente da Parmenide, il quale ne ricava che: "il non-Essere non è (se l'Essere è)".
La seconda modalità fondamentale è quella che inizia con il celebre "parricidio" di Platone nei confronti di
Parmenide. Platone, con ciò, intende dire che l'Essere non è quel concetto immobile come è per Parmenide, ma
che è un qualcosa che "diviene in possibilità" (considera che E.Severino, nel suo "Neoparmenideismo", deve
ammettere l'assoluta immobilità di tutto ciò che "è", e con ciò negare il "divenire" delle cose).
Ora, naturalmente anche Aristotele ammette il "divenire" delle cose, ma l'ammette secondo la modalità
parmenidea della necessità, cioè secondo il principio che ciò che è in un certo modo è impossibile che sia
altrimenti. Aristotele, in parole povere, nega che nel divenire vi sia la possibilità che le cose "siano"
diverse da quello che sono.
Ne deriva che l'Essere di Aristotele è un Essere monolitico, assoluto nel suo "essere". Mentre in Platone
l'Essere "può essere" (Platone, nel "Parmenide", dice che l'Essere: "non è né uno né molti, ma uno e molti
assieme").
Adesso: perchè, a mio parere, l'indistinzione fra le cose corporee e le cose incorporee conduce dritti ad
Aristotele ed al suo Essere necessario, negando così quella che io ritengo una fondamentale connessione con
il pensiero di Heidegger (sì, è frutto di una mia personale e, direi, "sofferta" riflessione - visto che fra
Aristotele ed Heidegger vi sono profonde similitudini, fra l'altro sottolineate da una mente brillante quale
fu il compianto F.Volpi)? Ma semplicemente perchè Aristotele afferma che la "forma" è inseparabile dalla
materia, e quindi che l'"essenza", o "sostanza", è necessario che "sia" (notevole, trovo, il parallelismo
che c'è con l'affermazione di Hegel per cui reale e razionale coincidono, costituendo la necessità di ciò che "è").
Solo che, io trovo, Heidegger affermando che: "l'esserci, in quanto comprensione, progetta il suo Essere in
possibilità", ha esplicitamente abbracciato la teoria platonica dell'Essere come possibilità.
Per questo ti chiedevo che fine fa la materia, e ti accennavo al fatto che questa "strada" ci portava lontano
da Heidegger...
Per quel che riguarda la "progettualità" di cui parla, Heidegger sì, la ascrive solo all'uomo (mentre anch'io
sono del parere che essa debba venir "superata" in modo da comprendere tutti gli enti, in quanto tutti gli
enti "divengono" in possibilità). Però Heidegger trovo sia una "tappa" importante, perchè ci permette di
spostare il discorso sull'accadere "storico", e quindi linguistico (con la successiva ed altrettanto fondamentale
tappa costituita dall'ermeneutica). Fino ad arrivare (te lo premetto, perchè questo era lo scopo per cui ho
scritto questo post) al "segno semiotico" e all'Evento, termine con cui la semiotica designa l'origine della
catena dei significati e dei significanti (la mia intenzione è di tracciare un parallelo fra l'Evento e
l'Essere). Ma ne avremo tempo e modo, se ne sarai interessato.
un saluto anche a Maral
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 06-02-2013, 12.35.39   #57
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Molto bene. Da un lato approvo tutto ciò che ha detto maral (anche i parallelismi con Aristotele sono come li intenderei io, nonchè il discorso sulla materia-energia, che sembra più ostico solo per un problema ermeneutico, per cui lo lascio volentieri da parte e affermo di esere d'accordo); dall'altro credo di aver compreso appieno la questione sollevata da 0xdeadbeef. Per cui ora mi cimenterò in un commento della stessa, propndendo una visione che scaturisce dalle cose dette in precedenza e che muove verso una descrizione sempre più completa della natura, dove si inizierà a vedere la differenza del mio pensiero rispetto a quello di Aristotele e a quello di Severino (che conosco, e che non mi soddisfa=> una volta la pensavo come lui, ora mi pare di avere più elementi per parlare sensatamente del divenire, e finisco per parlarne in modo più vicino ad Heiddeger).


Allora, mi pare che il discorso di Aristotele (ammesso che sia effettivamente suo e non una interpretazione, in ogni caso prenderemo questa concezione in esame perché ci interessa) e di Severino sia fallace in questo: il divenire inerisce all'animo (non pensate che io parli dell'anima cristiana, parlo di anima perché è questa la definizione di Aristotele), cioè al sinolo di materia e forma, non è, invece, qualcosa che può essere ascritto -nelll'astrazione tutta mentale che facciamo tra materia e forma, che in realtà si presentano assieme e hanno il loro senso assieme- alla sola materia o alla sola forma.

Ora, lasciate che l'intero discorso nella sua unità funga da chiarimento sempre più efficace del concetto che voglio descrivere.

Una volta credevo che il divenire delle cose fosse legato al puro meccanismo, perché le forme, pensavo, sono determinate e determinati dovevano essere i loro effetti. Il caso ontologico come concetto non mi era mai piaciuto, poiché esso manifesta la sua totale indipendenza dalle determinazioni naturali, e non riuscivo a capire d'onde esso traesse la possibilità di influenzare in un certo modo le cose naturali. Allorché la mia ontologia si identificava con quella almeno neo-parmenidea, ma studiando la teologia, alcune cosucce di fisica e altri vari argomenti mi sono accorto che il mio sviluppo teoretico non reggeva (non mi metterò a parlare di questi aspetti che trovavo incompleti). Così mi sono persuaso (per dirla in fretta), che in qualche modo le cose naturali si dovessero evolvere secondo un senso non del tutto meccanco, ma che non poteva essere quello del caso. Ed è così che ho ripreso il concetto di libertà accorgendomi di questo: se voglio dirmi libero non posso ammettere di evolvermi del tutto meccanicamente, né posso ammettere di evolvermi secondo il caso ontologico, né posso, tuttavia, ammettere di evolvermi tramite la mera "somma" di questi due concetti, nel loro darsi così opposto (come se fossi un robot, nel senso più comune di questa accezione, che a volte si muove a caso). La libertà deve essere qualcosa di ambiguo tra il determinismo e il caso, ma non una semplice somma dei due, più che altro una somma in senso olistico (=>il totale non è la semplice somma delle due parti). Come se X (determinazione, meccanismo)+ Y (indeterminazione, caso)= Z (libertà=> entità ambigua tra le due) e non X+Y= insieme costituito da X e Y.

Secondo una lettura leggermente diversa è come se vi stessi dicendo che l'idea di forma (=>la materia che non ha una forma) rappresenta una totale inderminazione, la forma (in senso Aristotelico, non il mio) rappresenta la più totale determinazione, ma ciò che siamo è il sinolo dei due. E che non c'è nulla che non sia così, non esiste (se non forse in situazioni limite come quelle del Big-Bang?) la forma assolutamente indeterminata, né quella assolutamente determinata (per questo il mio concetto di forma, non è proprio quello Aristotelico), perché materia e forma sono indissolubilmente legate.

Ancora, per farvi capire cosa intendo vi dirò: alcuni potrebbero dire che il tempo è composto da vari istanti definiti che si susseguono. Io credo che noi non siamo questi istanti che si susseguono (e anzi direi che queste forme non esistono), ma la manifestazione del susseguirsi stesso, il passaggio tra l'uno e l'altro, che non è ente-definito come potrebbero essere i vari istanti a se stanti ma ente-ambiguo, in quanto colto nell'atto di trasformazione. In questo senso l'Essere non è più monolitico, esso non è niente al di fuori degli essenti (enssenti ed Essere sono concetti del tutto contrapposti solo nell'esercizio mentale) e la loro verità come unità conduce necessariamente a un divenire per così dire "ad un tempo monolitico" (poiché segue un senso unitario) e, nello stesso rispetto, del tutto sconnesso.


Alla fine credo che questa grande distinzione degli opposti sia solo, come nella percezione, un ché di propedeutico a comprendere la natura delle cose. Ed allora appoggerei volentieri il senso del progetto di Heiddeger così ben disposto a collocarsi con la libertà degli enti.



Un saluto

Ultima modifica di Aggressor : 06-02-2013 alle ore 15.00.29.
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Vecchio 06-02-2013, 23.44.34   #58
maral
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Trovo interessante e insieme sorprendente questa associazione rilevata da Oxdeadbeef tra Aristotele e Parmenide, entrambi assumono l'essere secondo necessità, mentre Platone vede nell'essere la possibilità di un divenire introducendo il valore predicativo dell'essere. E' vero, Platone ha meditato il parricidio parmenideo pur considerando il vecchio Parmenide venerando e terribile, mentre Aristotele lo considerava, a quanto mi risulta, solo folle. Dunque se è lecito l'accostamento tra Aristotele e Parmenide possiamo dire che il realista Aristotele condivideva (magari senza accorgersene) almeno una fetta di follia con Parmenide. Effettivamente a ben pensarci la follia ha sempre un carattere di assoluta necessità, ma questo è un altro discorso.

L' Essere come possibilità ha a mio avviso due gradi di possibilità. Il primo lo abbiamo visto, è la possibilità (necessaria) di essere molti essenti, possibilità che a mio avviso possiamo dire che determina lo spazio degli essenti e questa è possibilità in primo luogo dell'Essere. La seconda possibilità, che per distinguerla chiamerei potenzialità, riguarda invece in primo luogo l' essente. La prima possibilità, che in fondo è quella platonica esprimente un diverso predicare gli essenti quindi un diverso significarli fa riferimento all'uso predicativo del verbo essere, ma non è vera possibilità degli essenti. La possibilità degli essenti o potenzialità credo sarà invece proprio Aristotele a fondarla e con un pensiero che va contro Parmenide. Il modo in cui Aristotele la pone è quello di considerare separabili l'essenza degli essenti dai suoi attributi, solo in questo modo infatti si può ammettere il divenire, dunque quel pro-gettare, come un gettarsi innanzi verso ciò che sarà (e che per Heidegger partirà dal riconoscimento umano della propria mortalità). Separando l'essenza degli essenti da ciò che di essi si predica a mezzo della copula (Tizio è giovane) renderà possibile a Tizio di diventare vecchio pur rimanendo lo stesso Tizio che è stato giovane. Essere giovane ed essere vecchio non sono infatti necessari per essere Tizio, Tizio ha così guadagnato la sua piena potenzialità di essente. Non importa che Tizio sia giovane o vecchio, magro o grasso, bello o brutto, con un naso a patata o con uno aquilino ecc., potrà cambiare tutti gli attributi che vorrà restando sempre Tizio in essenza, nei limiti di ciò che la tecnica saprà fare per lui. E, in questo senso, è proprio Aristotele che completa il tentato parricidio di Parmenide iniziato da Platone. E' vero che i principi logici aristotelici sono per necessità inderogabili (e per primo il principio di identità ripreso da Parmenide), ma è Aristotele stesso a introdurre in deroga il tempo oltre al contesto di senso di cui abbiamo precedentemente parlato ( A non è non A nello stesso senso e nello stesso tempo) e così nega l'assolutezza del principio di non contraddizione per salvare il divenire.
Ma qui a mio avviso ha pienamente ragione Severino, perché se l'essente è il risultato dei diversi predicati che lo determinano proprio come quell'essente in che modo posso togliergliene o attribuirgliene di diversi senza negarlo proprio per quell'identità che solo quei predicati possono fondare?

Un saluto a tutti.
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Vecchio 07-02-2013, 16.26.24   #59
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Ciao Maral, mi piace il discorso che hai fatto, soprattutto quando dici che l'è essendo "altro" dagli attributi permette il divenire. Ma se sono comunque qualcosa di determinato, di fatto in un certo preciso modo, in che senso il mio essere sarebbe disposto al mutamento? Forse si tratta della stessa contraddizione che poni con la domanda:
Maral: Ma qui a mio avviso ha pienamente ragione Severino, perché se l'essente è il risultato dei diversi predicati che lo determinano proprio come quell'essente in che modo posso togliergliene o attribuirgliene di diversi senza negarlo proprio per quell'identità che solo quei predicati possono fondare?


Mi piace che il tema abbia toccato questo punto, io stesso ho scritto una tesina in cui parlo della impossibilità di trattare l'esistenza come un attributo. Ma nello scrivere questa stessa tesi mi è venuto fuori che le proprietà stesse non possono essere attribuite ad un soggetto specifico (=>un ente particolare), poiché esse dipendono da un rapporto, da un sistema, e così non ineriscono nessuno di loro. Fondamentalmente, visto pure che il non-essere non potrebbe separere le cose, ho finito per identificare il soggetto delle predicazioni con un substrato proprio di ogni sistema, l'Essere appunto. Visto pure che gli enti sono nello spazio-tempo e non solo nello spazio, ribadisco la mia tesi dell'ambiguità delle forme, poiché esse potrebbero essere esattamente determinate, se appunto non fossero soggette al divenire, ma questo non può verificarsi in virtù di ciò che stò per scrivere: come potrebbero tutti gli enti essere determinati (cioè anche esserlo in un determinato istante temporale) se al di fuori dell'universo (l'insieme di tutti gli enti, o forme) non c'è nulla che possa definire la sua forma? Credo che il divenire sia necessario perché, come per Kant, esso serve a distinguere un "io" (in questo caso "il tutto") da se stesso, ma così, muovendosi e mutando la sua forma, l'universo e i suoi enti non possono essere del tutto e inequivocabilmente determinati, perché essi esistono nel passaggio, nell'ambiguità, non potendo esistere nel solo spazio che non porterebbe con sé l'altro.


Per essere più preciso dal discorso che abbiamo fatto si è visto che le cose non esistono per se stesse (essere-per-l'altro); quello che dico io è che il delimitarsi non porta gli enti ad essere ognuno per sé, quindi il soggetto di una predicazione non può essere questo o quello, come quando colgo i colori, essi non appartengono né a me, né al fiore (per esempio). Questo è il cuore del parallelismo che intravendo tra gli enti e i fenomeni.


Ovviamente si tratta solo di riflessioni personali, ma poiché muovono dalle stesse basi vostre ve le propongo, anche per cercare una risposta a ciò che chiede 0xdeadbeef

Ultima modifica di Aggressor : 08-02-2013 alle ore 01.30.09.
Aggressor is offline  
Vecchio 07-02-2013, 21.37.28   #60
0xdeadbeef
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@ Aggressor e Maral
Vorrei innanzitutto puntualizzare il fatto che la similitudine fra Aristotele e Parmenide si ferma all'affermazione
circa la "necessità" dell'Essere, e non va certo estesa alla negazione del "divenire" che fa Parmenide (già
l'avevo detto, ma è bene sottolinearlo).
Quello che Aristotele afferma è l'identità di Essere e di "sostanza" ("indicare la sostanza di una cosa non
è altro che indicare l'Essere proprio di essa" - Metafisica). E siccome la sostanza è considerata da Aristotele
necessaria, necessario è dunque l'Essere.
Come facevo riferimento, il concetto aristotelico, e parmenideo, di un Essere necessario è ben "visibile" in
Hegel, per il quale le cose che "sono" non è pensabile che "siano" diversamente (egli, come forse saprete,
irrideva alla distinzione di Kant fra Essere e Dover-Essere). Questo, naturalmente, ci porta ad individuare
chiaramente proprio in Kant la concezione dell'Essere come possibilità (cioè come possibilità che le cose NON
siano così come sono).
In parole povere: spero sia chiaro che affermare l'Essere come necessità non rimanda forzatamente a Parmenide
ed alla sua negazione del divenire, ma solo alla negazione della possibilità che le cose non siano state, non
siano e non saranno così come sono state, sono e saranno.
Detto ciò, a mio avviso si pone il problema di determinare esattamente la visione di Heidegger rispetto a queste
due fondamentali concezioni dell'Essere.
A me sembra chiarissimo il porsi di Heidegger verso un Essere come possibilità (non vedo davvero come qualcuno
possa sostenere il contrario); il che ci "dischiude tutto un universo", per così dire...
un saluto
0xdeadbeef is offline  

 



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