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Vecchio 16-10-2014, 09.47.26   #41
maral
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da Patrizia Mura
"volontà di prevaricare l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa"

Questo non mi dice ancora nulla.

"io voglio senza che ci siano limiti insuperabili al mio volere, qualsiasi cosa voglia."

E' il c.d. "delirio di onnipotenza"? (comunemente conosciuto con questa denominazione in riferimento a Freud?).
Tento di far emergere il legame tra volontà di potenza come volontà di prevaricare l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa e volontà di potenza come volontà di non ammettere limiti al mio volere.
Il punto è che il limite al mio volere è esattamente l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa. Questa identità come abbiamo visto prima si esprime dicendo A è A e non è B, C ecc. La volontà di potenza vuole invece, in virtù della propria potenza, che A non sia necessariamente A, ma che, se io lo voglio, A possa essere B, C ecc come preferisco. Dunque tradendo il principio di identità la volontà di potenza tradisce la verità primaria delle cose. Abbiamo detto che la verità si tradisce (si dice il falso) quando non se ne riconosce la parzialità che le è fenomenologicamente propria e si vuole imporre questa parzialità come se fosse una totalità. Ed è esattamente questo che la volontà di potenza vuole e proprio in tal senso essa si rivela come delirio di onnipotenza.
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Vecchio 16-10-2014, 10.14.00   #42
Patrizia Mura
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da maral
Tento di far emergere il legame tra volontà di potenza come volontà di prevaricare l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa e volontà di potenza come volontà di non ammettere limiti al mio volere.
Il punto è che il limite al mio volere è esattamente l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa. Questa identità come abbiamo visto prima si esprime dicendo A è A e non è B, C ecc. La volontà di potenza vuole invece, in virtù della propria potenza, che A non sia necessariamente A, ma che, se io lo voglio, A possa essere B, C ecc come preferisco. Dunque tradendo il principio di identità la volontà di potenza tradisce la verità primaria delle cose. Abbiamo detto che la verità si tradisce (si dice il falso) quando non se ne riconosce la parzialità che le è fenomenologicamente propria e si vuole imporre questa parzialità come se fosse una totalità. Ed è esattamente questo che la volontà di potenza vuole e proprio in tal senso essa si rivela come delirio di onnipotenza.


Ora mi è chiaro cosa intendi, e perché "volontà di potenza o delirio di onnipotenza" li classifichi in un punto a sé stante rispetto alla avocazione a se stessi di una "posizione di supremazia" (la mia visione è più completa/migliore di quella altrui).


Abbiamo fatto un excursus che mi sembra che mostri che a monte delle parole e prima di usarle per comunicare e di poter decidere insieme e praticare nella relazione un loro retto, appropriato, funzionale e proficuo (io sono sempre un po' utilitarista, nel senso che penso che ha senso comunicare se procura un qualche beneficio sia agli interlocutori sia, più in generale, non solo ad essi) utilizzo, vi sono delle condizioni necessarie che riguardano la disposizione degli interlocutori.

In pratica un interlocutore potrà comunque sempre travisare anche il più preciso ed opportuno uso della parola da un lato, mentre dall'altro una diversa disposizione potrà invece correggere positivamente gli inevitabili fraintendimenti non voluti, se, appunto non lo sono, ciò sempre entro circostanze e limiti.
Patrizia Mura is offline  
Vecchio 16-10-2014, 18.23.56   #43
sgiombo
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da maral
Tento di far emergere il legame tra volontà di potenza come volontà di prevaricare l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa e volontà di potenza come volontà di non ammettere limiti al mio volere.
Il punto è che il limite al mio volere è esattamente l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa. Questa identità come abbiamo visto prima si esprime dicendo A è A e non è B, C ecc. La volontà di potenza vuole invece, in virtù della propria potenza, che A non sia necessariamente A, ma che, se io lo voglio, A possa essere B, C ecc come preferisco. Dunque tradendo il principio di identità la volontà di potenza tradisce la verità primaria delle cose. Abbiamo detto che la verità si tradisce (si dice il falso) quando non se ne riconosce la parzialità che le è fenomenologicamente propria e si vuole imporre questa parzialità come se fosse una totalità. Ed è esattamente questo che la volontà di potenza vuole e proprio in tal senso essa si rivela come delirio di onnipotenza.


"Volontà di potenza come volontà di non ammettere limiti al mio volere" mi é del tutto chiaro: come dice Patrizia Mura si tratta del noto delirio di onnipotenza (mi permetto però di dubitare che questa nozione sia stata definita da Freud; il qual caso me lo farebbe rivalutare un pochino).

"Volontà di potenza come volontà di prevaricare l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa" continuo a trovarlo senza senso: non ha senso volere che il bianco sia nero e viceversa, poiché ciò che é (o diviene; realmente) é (o diviene; realmente), ciò che non é (o non diviene) realmente non é (o non diviene; realmente) checché se ne pensi, come che lo si consideri (e anche se non se ne pensa nulla, se non lo si considera affatto).

Che "il limite al mio volere" sia "esattamente l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa" non mi impedisce di conoscerne le leggi del divenire e applicarle per conseguire scopi coscienti e deliberati (ovviamente limitati, e purché realistici; altrimenti si ricade nel delirio di onnipotenza).
Per esempio se voglio andare a Cremona (la mia bella città natale), che dista 35 Km dalla mia attuale abitazione, prendo la mia bici e, salvo imprevisti, in un' ora e un quarto ci sono; oppure prendo la mia moto e, salvo imprevisti e se non c' é troppo traffico ci arrivo in meno di un quarto d' ora (percorrendo l' autostrada e stando bene attento nei sorpassi; però in realtà non lo faccio per via del "safety tutor": pretendere di farlo senza beccarsi una megamulta e perdere punti-patente sarebbe delirio di onnipotenza), senza minimamente tradire "il principio di identità" né "la verità primaria delle cose".
(Se volessi arrivarci in cinque minuti cadrei invece nel delirio di onnipotenza).
sgiombo is offline  
Vecchio 18-10-2014, 13.51.51   #44
maral
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da sgiombo
"Volontà di potenza come volontà di prevaricare l'identità ontologica di ogni cosa a se stessa" continuo a trovarlo senza senso: non ha senso volere che il bianco sia nero e viceversa, poiché ciò che é (o diviene; realmente) é (o diviene; realmente), ciò che non é (o non diviene) realmente non é (o non diviene; realmente) checché se ne pensi, come che lo si consideri (e anche se non se ne pensa nulla, se non lo si considera affatto).
Infatti non ha senso, ma la volontà di potenza vuole che ciò che non ha senso sia non riconoscendo limiti alla sua potenza.
Il divenire è la visione in cui si manifesta propriamente la volontà di potenza. Dire che A diventa B significa in termini ontologici dire Che A è B proprio in quanto è A, ossia che esiste un tempo e un luogo ove A è B pur rimanendo sempre A, significa dire che A è e non è A.
Diverso è invece considerare che della totalità di A appare fenomenologicamente solo una parzialità e ammettere che questa parzialità non corrisponde alla totalità di A che è. Ovvero dire che Sgiombo da giovane diventa vecchio significa in verità dire solo che di Sgiombo appare via via il suo essere giovane e poi il suo essere vecchio, ma l'identità ontologica di Sgiombo, sottostante alle parzialità che appaiono e che sono da sempre e per sempre in questa totalità comprese, è rispettata.
La volontà di potenza esemplificata in questo caso identifica l'identità ontologica di A con una delle parzialità del suo necessario apparire fenomenologico, dunque mente sulla verità dell'ente, perché ciò che dell'ente appare non è la totalità dell'ente.
Le leggi del divenire sono pertanto solo leggi dell'apparire, ossia le modalità con cui l'apparire si manifesta necessariamente in quel determinato campo di senso ove proprio questo apparire accade.
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Vecchio 18-10-2014, 19.22.27   #45
sgiombo
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Maral:
Infatti non ha senso, ma la volontà di potenza vuole che ciò che non ha senso sia non riconoscendo limiti alla sua potenza.
Il divenire è la visione in cui si manifesta propriamente la volontà di potenza. Dire che A diventa B significa in termini ontologici dire Che A è B proprio in quanto è A, ossia che esiste un tempo e un luogo ove A è B pur rimanendo sempre A, significa dire che A è e non è A.

Sgiombo:
Il divenire è mutamento delle cose.
Non c’ è in esso alcuna contraddizione.
Ci sarebbe contraddizione se di affermasse che nello stesso intervallo di tempo A è B, e non che per un certo intervallo di tempo è (reale) A e in un diverso intervallo di tempo non è più (reale) A ma è (reale) B: esiste un tempo e un luogo ove A non è più (reale) ed invece è (reale) B, non rimanendo affatto più reale A. Ergo A è A (esistente realmente per un certo tempo) e non B, il quale è B (esistente realmente per un certo altro diverso tempo) e non A.
A é e unicamente é (non: non é; in un certo determinato lasso di tempo); e pure B é e unicamente é (non: non é; un certo determinato altro, diverso lasso di tempo)




Maral:
Diverso è invece considerare che della totalità di A appare fenomenologicamente solo una parzialità e ammettere che questa parzialità non corrisponde alla totalità di A che è. Ovvero dire che Sgiombo da giovane diventa vecchio significa in verità dire solo che di Sgiombo appare via via il suo essere giovane e poi il suo essere vecchio, ma l'identità ontologica di Sgiombo, sottostante alle parzialità che appaiono e che sono da sempre e per sempre in questa totalità comprese, è rispettata.
La volontà di potenza esemplificata in questo caso identifica l'identità ontologica di A con una delle parzialità del suo necessario apparire fenomenologico, dunque mente sulla verità dell'ente, perché ciò che dell'ente appare non è la totalità dell'ente.

Sgiombo:
Quella di cui parli non è la “l'identità ontologica di Sgiombo”, la quale muta nel tempo, bensì l’ “identità gnoseologica complessiva (ciò che complessivamente si sa, per lo meno in potenza: ciò che complessivamente si potrebbe sapere) di Sgiombo”, la quale comprende (gnoseologicamente, come nozioni, conoscenze) tutto del suo (mio) esistere e mutare nel tempo, mentre in ogni istante realmente (= ontologicamente) esiste solo una parte della sua (mia) identità gnoseologica complessiva, la parte reale limitatamente a tale istante.
Se si ha cura di tener conto di questa precisazione non si identifica punto ciò che è parte (Sgiombo ora, presentemente) con il tutto (tutta la vita -che mi auguro lunga e per lo più felice quanto e più di adesso, da che ci sono!- di Sgiombo), ma li si distingue del tutto correttamente, logicamente, sensatamente.




Maral:
Le leggi del divenire sono pertanto solo leggi dell'apparire, ossia le modalità con cui l'apparire si manifesta necessariamente in quel determinato campo di senso ove proprio questo apparire accade.

Sgiombo:
Ma che altro possiamo percepire e dunque conoscere se non ciò che appare?
Se esiste (come credo; per fede) una realtà in sé indipendentemente dalle percezioni fenomeniche essa non può per definizione essere oggetto di esperienza e dunque constatata sensibilmente (può solo essere congetturala, ipotizzata; ma non dimostrata).

(Già altre volte non ci siamo compresi, ed è ragionevole pensare che neppure ora ci riusciremo –pazienza: non si può aver tutto dalla vita; vedi come la volontà di potenza intesa nel solo modo da me comprensibile = delirio di onnipotenza è lungi da me!- ma queste obiezioni “mi vengono proprio dal cuore”, non riesco a trattenerle).
Me ne scuso.
sgiombo is offline  
Vecchio 19-10-2014, 00.51.18   #46
laryn
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Il divenire è mutamento delle cose.
Non c’ è in esso alcuna contraddizione.
Concordo. Altri definiscono tempo il mutamente continuo delle cose.
Se le cose non mutassero e restassero sempre come sono non esisterebbe la nozione di tempo.

Citazione:
Ci sarebbe contraddizione se di affermasse che nello stesso intervallo di tempo A è B, e non che per un certo intervallo di tempo è (reale) A e in un diverso intervallo di tempo non è più (reale) A ma è (reale) B: esiste un tempo e un luogo ove A non è più (reale) ed invece è (reale) B, non rimanendo affatto più reale A. Ergo A è A (esistente realmente per un certo tempo) e non B, il quale è B (esistente realmente per un certo altro diverso tempo) e non A.
A é e unicamente é (non: non é; in un certo determinato lasso di tempo); e pure B é e unicamente é (non: non é; un certo determinato altro, diverso lasso di tempo)

Che sappia io il principio di identità AèA o A=A è il modo in cui si apprende il linguaggio.
E' un'assioma che consente la funzione del linguaggio.
Se A fosse A e nel contempo non fosse A, ma fosse B, allora una parola varrebbe tutte le altre e il pensiero non potrebbe essere espresso.
E' come dire, in matematica, che 1=1 sia nel contempo anche =2... non sarebbe possibile nessun calcolo.
Il principio di identità, pertanto, più che essere una verità da tempo indefinito a tempo indefinito, è una convenzione di comodo, un modo per a- fermare le cose nel tempo, anche di millenni, e, purtuttavia, il trascorrere del tempo (mutamento delle cose) per lunghissimi periodi, finisce per incrinare il principio di identità.
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Vecchio 19-10-2014, 15.44.26   #47
Patrizia Mura
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Ma che altro possiamo percepire e dunque conoscere se non ciò che appare?
Se esiste (come credo; per fede) una realtà in sé indipendentemente dalle percezioni fenomeniche essa non può per definizione essere oggetto di esperienza e dunque constatata sensibilmente (può solo essere congetturala, ipotizzata; ma non dimostrata).

Prendendo spunto da qui, io credo che il linguaggio - eccessivamente astatto - stia cominciando a manifestare i suoi segni di confusione.

Tutto quello che posso fare è dunque slacciarmi ed esprimere, a partire dalla citazione di sgiombo che uso come spunto la mia posizione.

Esiste una realtà ed esiste un percipiente umano, e siamo noi che ne stiamo parlando, che necessita di acquisire e trasmettersi informazioni a proposito di tal realtà.

Il fatto che esista una realtà indipendente dal percipiente non è un atto di fede poiché una volta constata l'innegabile esistenza di relazioni di causa-effetto fra costellazioni di concause e derivanti altre costellazioni di effetti non vedo alcuna difficoltà ad ammetterlo come dato di fatto.

Di fatto lo facciamo e se vedo una foglia secca evidentemente e più che correttamente posso ritenere che esista un albero da cui la foglia secca è caduta.

Questo facciamo ogni giorno e su questo viviamo.
E' una verità semplicemente lapalissiana.

Ora non trovo abbia senso filosofeggiare su questioni lapalissiane.

E l'albero esiste e la foglia secca anche indipendentemente dal fatto che io ne sia testimone. Ciò è talmente evidente che solo un folle potrebbe pensare di costruire un sistema di pensiero che lo neghi senza essere soggetto a derisione.

Tutta la nostra sopravvienza si basa sulla facoltà esistente di percepire correttamente relazioni di causa-effetto fra gli eventi.

La percezione della realtà ci dice anche che esiste il divenire e cioè che qualunque cosa muta costantemente in infinte complesse relazioni di causa effetto per cui continuamente eventi si trasformano in altri.
Se guardo un tavolo posso vedere l'albero da cui è stato ricavato, l'uomo che lo ha abbatutto, colui che ha trasportato il legno, colui che lo ha lavorato, la terra che ha permesso all'albero di radicarsi, l'ossigeno che ha prodotto di giorno e che ha consumato di notte, la funzione clorofilliana, e persino l'esistenza del sole e del calore in assenza della quale non potrebbero esistere nè albero nè tavolo.

Pensare di mettere in discussione queste cose rende inutile qualunque comunicazione.

Il sole è il sole per convenzione. In quanto anche nel tavolo esistono elementi sole, ma non chiamo il tavolo sole.
Tale convenzione serve al linguaggio per le sue funzioni ma mi guardo bene di affermare che le cose che appaiono in una certa forma in un certo momento abbiano per loro natura una identità fissa, esente dal divenire che da esso prescinde.

Questo avviene nel linguaggio che occorre per descrivere particolari condizioni della realtà ma che non determina la realtà e la sua identità o non identità.

Il divenire è un dato di fatto che constatiamo ogni giorno ed ogni istante della nostra esistenza, sul quale si basa la vita e ben testimoniato dalla nostra morte.

Dunque per mio conto esiste una realtà che è realtà in divenire ed esiste indipendemente dal percipiente umano se vogliamo considerare come percipiente a pieno titolo solo esso.
Diversamente esiste una realtà che comunque manifesta l'intessitura di una rete complessa di cause ed effetti e di continue trasformazioni di cose o di parti di cose in altre cose.

La sola differenza fra me e un tavolo è che "forse" il tavolo si accontenta della sua realtà di fatto di essere tavolo, oggetto su cui umani appoggiano oggetti, desco e vivande, passibile di diversi trattamenti e se di legno buon nutrimento per i tarli, e forse nulla gli interessa dell'albero, del sole, della funzione clorofilliana, della terra, dell'ossigeno, del sole, dell'uomo che l'ha abbatutto e di quello che lo ha traformato in tavolo.
Il fatto che se ne freghi o che non lo possa percepire non signfica che ciò non sia avvenuto dato che il tavolo non ha una propria natura a sè stante che possa essere definita A e che non sia anche non A, in quanto esso contiene ed è composto da elemento non-tavolo, altrimenti non potrebbe esistere.

La funzione delle parole non è trasformare la realtà che ben pur percepiamo ma solo descriverla e comunicarla e non è neppure quella di creare nelle nostre menti delle pseudo realtà altre che prescindando dall'esperienza del comunemente percepito, dove un pugno sul naso è un pugno sul naso e nessuno si sognerebbe di definirlo come qualcosa di diverso.

Il problema delle parole è proprio questo, e cioè che chi le usa e chi le percepisce ci può rimanere invischiato dentro con il pensiero perdendosi in congetture fantasione che non hanno più alcun reale collegamento con la realtà, fino all'assurdo della retorica che ne nega l'esistenza così come essa funziona e cioè in divenire.

Giocare con le parole essere e non essere, giochicchiare con un verbo, ha poco senso, si tratta solo di un verbo.

Quando dico "è bel tempo" non mi passa neanche per l'anticamera del cervello di starmi riferendo ad una identità dotata di una essenza a sè stante, autonoma ed indipendente da cause e condizioni.
Tutti capiscono cosa intendo.

Non ha senso disquisire sulla "natura in sè del bel tempo" come non ha senso disquisire sulla "Aiità di A" poichè tutti siappiamo che dire è bel tempo significa affermare una certa condizione metereologica per cui avanti ai miei occhi vi è cielo sereno, regna il sole e se esco non ho bisogno di prender l'ombrello.

A che serve discutere per andare oltre a ciò che è perfettamente condiviso?

Oltre un certo limite e senza più riferirsi alla realtà le parole perdono davvero senso.
Patrizia Mura is offline  
Vecchio 19-10-2014, 20.19.48   #48
maral
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da sgiombo
Il divenire è mutamento delle cose.
Non c’ è in esso alcuna contraddizione.
Ci sarebbe contraddizione se di affermasse che nello stesso intervallo di tempo A è B, e non che per un certo intervallo di tempo è (reale) A e in un diverso intervallo di tempo non è più (reale) A ma è (reale) B: esiste un tempo e un luogo ove A non è più (reale) ed invece è (reale) B, non rimanendo affatto più reale A. Ergo A è A (esistente realmente per un certo tempo) e non B, il quale è B (esistente realmente per un certo altro diverso tempo) e non A.
A é e unicamente é (non: non é; in un certo determinato lasso di tempo); e pure B é e unicamente é (non: non é; un certo determinato altro, diverso lasso di tempo)
Sgiombo, a mio avviso non si può tirare in ballo il tempo per superare la contraddizione del dire che A diventa B. Il concetto di tempo è una conseguenza del mutamento (del trascorrere delle cose), non il contrario. Se il divenire è contraddizione ontologica è contraddizione pure il tempo che vuole spiegarlo in quanto la dimensione temporale si limita a rappresentarlo in termini astratti, ma significa la stessa cosa.
Con questo, anche per rispondere a Patrizia non sto dicendo che l'apparire del mutamento non ci sia, il mutamento appare costantemente e riguarda ogni cosa del mondo e il suo apparire è vero, ma il suo apparire e non il suo essere come tale. Poiché il suo essere è contraddizione dell'identità di ogni cosa a se stessa.

L'identità ontologica di Sgiombo a se stesso non può mutare se Sgiombo è solo e unicamente Sgiombo e non altro, qualsiasi cosa sia Sgiombo esso è presente interamente in ogni istante del suo apparire. Questo è un principio ontologico generalissimo, non gnoseologico, non riguarda ciò che possiamo o meno conoscere di Sgiombo, Ciò che possiamo conoscere è ciò che ci appare e ci appare il suo mutare che è contraddizione.

Citazione:
Sgiombo:
Ma che altro possiamo percepire e dunque conoscere se non ciò che appare?
Se esiste (come credo; per fede) una realtà in sé indipendentemente dalle percezioni fenomeniche essa non può per definizione essere oggetto di esperienza e dunque constatata sensibilmente (può solo essere congetturala, ipotizzata; ma non dimostrata).
Sì, possiamo conoscere solo ciò che appare e appare sempre in modo diverso e il nostro conoscerlo esprime il nostro volerlo trattenere presso di noi. Ma questo non incide minimamente sulla realtà ontologica dell'ente che è sempre l'intera totalità che è in base al principio di identità, intera totalità che non può come tale apparire e di questo abbiamo già a lungo discusso, quindi non vado oltre.
Se poi si vuole sostenere, come altri fanno notare, che il principio di identità riguardi solo il linguaggio e non la realtà delle cose può anche essere, ma in tal caso non potremmo che concludere che qualsiasi cosa diciamo è solo mistificazione linguistica ed equivale a non dire niente, poiché non vi è entità senza identità.
maral is offline  
Vecchio 19-10-2014, 21.05.02   #49
maral
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Rispondo ad alcune osservazioni di Patrizia rimandando per quanto riguarda il divenire a quanto già replicato a Sgiombo
Citazione:
Originalmente inviato da Patrizia Mura
Il fatto che esista una realtà indipendente dal percipiente.
Sono perfettamente d'accordo e quindi occorre anche dire che se è così questo implica che esiste una realtà indipendente dal percepito. Sei d'accordo?

Citazione:
Questo facciamo ogni giorno e su questo viviamo.
E' una verità semplicemente lapalissiana.
Ora non trovo abbia senso filosofeggiare su questioni lapalissiane.
Purtroppo, per quanto possa darci fastidio il compito eminente della filosofia è sempre stato e sempre sarà mostrare quanto poco siano lapalissiane le verità che consideriamo più lapalissiane.


Citazione:
E l'albero esiste e la foglia secca anche indipendentemente dal fatto che io ne sia testimone. Ciò è talmente evidente che solo un folle potrebbe pensare di costruire un sistema di pensiero che lo neghi senza essere soggetto a derisione.

Direi piuttosto che l'albero e la foglia esistono come l'albero e la foglia di cui mi appare insieme il mio esserne testimone e come albero e foglia di cui mi appare insieme il mio poterli concepire senza esserne testimone.

Citazione:
Tutta la nostra sopravvienza si basa sulla facoltà esistente di percepire correttamente relazioni di causa-effetto fra gli eventi.
Perché questa è la dimensione fenomenologica in cui necessariamente esistiamo

Citazione:
Se guardo un tavolo posso vedere l'albero da cui è stato ricavato, l'uomo che lo ha abbatutto, colui che ha trasportato il legno, colui che lo ha lavorato, la terra che ha permesso all'albero di radicarsi, l'ossigeno che ha prodotto di giorno e che ha consumato di notte, la funzione clorofilliana, e persino l'esistenza del sole e del calore in assenza della quale non potrebbero esistere nè albero nè tavolo.
E questo ci dice quanto ogni ente è fenomenologicamente correlato a ogni altro ente essendo ciò che è. I rapporti causa effetto rientrano a pieno titolo nella fenomenologia dell'esistente, ossia nel suo modo di apparire.
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Vecchio 19-10-2014, 21.19.08   #50
maral
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In merito al discorso sulla convenzionalità dei termini linguistici e anche per riportare più direttamente la conversazione in tema tengo a ricordare che al di là del significato delle parole (che potremmo definire la dimensione aperta del linguaggio, nel senso di aperta alle convenzioni) vi è pure quella essenziale della loro posizione logico grammaticale che fissa la struttura in cui i significati possono esprimersi. Ora, questa posizione logico grammaticale sembra assai meno aperta alle convenzioni, ma molto più fissa e univoca per tutti i linguaggi (ad esempio la distinzione tra soggetto, verbo ecc.), tanto da far pensare ad alcuni linguisti (ricordo ad esempio Noam Chomsky) che essa sia rilevatrice di una vera e propria struttura metafisica sottostante.
Anche qui si potrebbe discutere se tale struttura è propria della realtà del mondo che crea i linguaggi, oppure se è propria del linguaggio che crea il mondo rappresentandolo secondo le sue categorie logico grammaticali.
A voi la parola.
maral is offline  

 



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