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Vecchio 04-10-2014, 13.20.10   #1
maral
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Che cose significano le parole?

Torno al tema del linguaggio che è fondamentale in filosofia per dire la verità delle cose. Si può davvero dire la verità o la storia della filosofia ne mostra l'impossibilitù?

Quando e in quali occasioni e da quale punto di vista ci si deve fermare a un "significa questo e basta"?

"Quando io uso una parola" disse Humpty Dumpty ... "questa significa esattamente quello che decido io - né più né meno"
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Vecchio 04-10-2014, 16.33.48   #2
acquario69
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da maral
Torno al tema del linguaggio che è fondamentale in filosofia per dire la verità delle cose. Si può davvero dire la verità o la storia della filosofia ne mostra l'impossibilitù?

Quando e in quali occasioni e da quale punto di vista ci si deve fermare a un "significa questo e basta"?

"Quando io uso una parola" disse Humpty Dumpty ... "questa significa esattamente quello che decido io - né più né meno"

appunto lo decide lui,ma le parole secondo me invece ce l'hanno in se il loro fondamento e la loro etimologia..non credo che le radici delle parole siano solo stati dei grugniti insignificanti..come succede sempre più spesso ora.
quindi secondo dumpty dumpty ognuno e' autorizzato a dire cio che vuole,tutto e' vero e' niente e' vero al tempo stesso,ed e' appunto la babele del relativismo assoluto dell'uomo moderno,da cui ha scaturito e coinvolto tutto quello che cera da coinvolgere..linguaggio e parole comprese naturalmente
conseguenze a valanga,e rimanendo in tema si può tranquillamente notare;
l'impoverimento (relativo) del linguaggio stesso,con perdita del pensiero articolato (tutto si riduce a qualcosa di più semplice e banale),incapacità quindi di individuare ed esternare sentimenti più complessi,perdita così di quel contatto più interno a noi stessi,per una comprensione più intuitiva e immediata della realtà..scollegati dalla realtà non può che esserci fraintendimento,incomprensione e chiusura.

relativismo = babele
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Vecchio 04-10-2014, 21.54.02   #3
maral
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da acquario69
quindi secondo dumpty dumpty ognuno e' autorizzato a dire cio che vuole...
Direi di più, ogni significato diventa del tutto arbitrario e per questo dire e non dire è la stessa cosa, dire è blaterare a vuoto e solo l'arbitrio, ossia la volontà di potenza, può creare da questo nulla un senso.
Altrove mi è stata suggerita un'interessante obiezione alla dichiarazione di Humpty Dumpty: e se fossero invece le parole che pensiamo di usare a usarci determinando ciò che siamo?
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Vecchio 05-10-2014, 05.56.27   #4
acquario69
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da maral
Direi di più, ogni significato diventa del tutto arbitrario e per questo dire e non dire è la stessa cosa, dire è blaterare a vuoto e solo l'arbitrio, ossia la volontà di potenza, può creare da questo nulla un senso.
Altrove mi è stata suggerita un'interessante obiezione alla dichiarazione di Humpty Dumpty: e se fossero invece le parole che pensiamo di usare a usarci determinando ciò che siamo?


Si e' interessante.
be' secondo me e' vero,pero come ipotesi posso pensare lo diventi solo per chi non si "distacca" dalle parole,quando cioè si fa esclusivo affidamento a queste,senza pero prima vagliarle dentro,per ritrovarci una corrispondenza possibile e aderente all'unisono alla realtà.
allora si,sono le parole a determinare cio che siamo e infatti diventano pure strumentali,e su questo basta vederne l'uso scorrettissimo da parte dei media,fino ad arrivare al ribaltamento totale di un senso,di un valore legato a questa…esempi ce ne sono un infinita' ,famoso quello di "missione di pace" quando e' palesemente falso,ed e' esattamente il contrario..e sono queste le parole che ci "usano"..
più in profondità secondo me poi succede che il falso che finiamo di "vedere" (scambiandolo per vero) ci disconnette ulteriormente.
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Vecchio 05-10-2014, 15.10.23   #5
Patrizia Mura
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Riferimento: Che cose significano le parole?

>che pensiamo di usare a usarci determinando ciò che siamo?

Altrove è passata in sordina una osservazione che a me ha fatto piacere leggere, e cioè che

"Il significato delle parole è una convenzione ...

... che deve essere riconosciuta da entrambi gli interlocutori".


Aggiungo altre riflessioni:

1) il linguaggio è uno strumento, ed è funzionale alla comunicazione.
2) come ogni strumento ha anche la capacità di performare chi lo utilizza, in questo caso il cosiddetto "pensiero discorsivo"

3) la lingua sanscrita ha una sua teoria su se stessa di cui, nel punto precedente, riassumo con le parole della 'casalinga di voghera' il lato che ho trovato interessante, ovvero qualcosa che chiamerò "la parola creatrice", che fu l'intuizione, ed anche qualcosa di più di una intuizione, che il linguaggio e la comunicazione sonora, vocale, parlata avrebbero prodotto una evoluzione della qualità dell'esistenza umana, ma, come sempre, ogni strumento è arma a doppio taglio;
la cosa fu trovata così "importante" che il Vyākaraṇa (lo studio della grammatica) non è, nella lingua sanscrita, un semplice apprendere a utilizzarla, ma è considerato un vero e proprio Darśana, cioè una via, e non è disgiunto da altri studi comprendenti la logica e l'epistemologia.

4) esistono altri linguaggi, che non sono solo le parole, che in alcuni casi le possono sostituire quasi completamente: uno di essi è quello corporeo, che spesso può accompagnarle oppure no, nella comunicazione, oppure quello puramente "sonoro" che fa si che io possa esprimere parole aventi comunemente un senso, ma con un tono ed un atteggiamento che esprime il suo contrario: mai visto una persona pronunciare parole normalmente "amorevoli" con astio o odio?

5) Dunque la parola da se stessa può non bastare e non è in sè stessa l'unico elemento che le conferisce un significato.
Le parole, e forse proprio per questo fenomeno, mutano di significato nel tempo.

Ad esempio io dò ogni giorno dei "comandi" al mio pc, oppure li impartisco ad una pagina web tramite html e css, sono comandi, altresì detti in-put, ma nessuno penserebbe che io sia una sostenitrice della dittatura fascista perché faccio questo, tuttavia se solo pensiamo alle parole che abbiamo dovuto cambiare perché quell'ambiente ed epoca storica hanno impartito loro, hanno impresso in esse, un significato particolare ...

Se nella nostra infanzia determinate parole o espressioni verbali sono state utilizzate con un particolare tono emotivo, o in modi errati, esse saranno venute a rappresentare "qualcosa" di particolare e verranno sempre lette in misura del significato che è stato loro iniettato in quel momento.

6) Studiando la linguistica è possibile approfondire un particolare ramo che mostra come le parole vengano, nel tempo, spompate dei loro significati originali e rimpompate di nuovi, come questo sia possibile, e come sia - conoscendo il processo - anche una "tecnica" precisa che è possibile utilizzare artatamente nel tempo.

7) Per questo la lingua sanscrita è in realtà un "esperanto", ovvero non è una "lingua madre" di nessuna popolazione, ma una lingua sam skrta (fatta pura, purificata, linguaggio che è stato raffinato) e può solo essere appresa:

in questo cambio di linguaggio vanno persi i condizionamenti che sono stati posti sulla parola e veniva e viene ritenuto che questo è necessario per agevolare i processi di apprendimento, conoscenza e comunicazione.


6) Oltre a tutto ciò il significato della parole varia al variare del contesto, tanto è vero che una stessa parola può appartenere contemporaneamente sia al linguaggio comune sia al linguaggio tecnico, variando sensibilmente di significato dall'uno all'altro caso, infatti i processi per la formazione di un linguaggio tecnico sono principalmente due: in uno si conia un termine o suono nuovo, nell'altro si muta di significato ad un termine esistente di uso comune, e - in seguito - si rende più preciso il suo utilizzo in relazione ad un preciso contesto tecnico.

8) quindi le parole in sè stesse sono simboli ed è implicita la variabilità del loro significato.

9) a questo punto si potrebbe anche riflettere sul fatto che forse, in determinati contesti, la parola non basta a se stessa, in altri può diventare un condizionamento superfluo (il buddhismo zen ha molto approfondito questo aspetto), che può essere fraintesa o malintesa, che può costituire un mezzo di comunicazione in cui non vi è condivisibilità-condivisione, che può essere abusata, e forse altro ancora che ora non mi viene in mente.

10) Ricordiamoci di alcuni studi - il nome degli autori non lo ricordo - in cui degli psicologi hanno osservato come è possibile che due persone (in quel caso erano dei bambini, forse gemelli se non ricordo male) possano sviluppare un loro linguaggio comprensibile solo a loro stessi: accade ed è un fenomeno che è stato osservato (nel caso che fece nascere una ricerca - e se ne avete sentito parlare e mi ricordate il nome degli studiosi ve ne sono grata - due bambini, credo gemelli, avevano sviluppato un linguaggio autonomo e i genitori non erano più in grado di comprendere cosa si comunicassero poiché tale linguaggio era noto solo a loro).

11) la condivisione e condivisibilità del linguaggio dipende dunque anche dalla volontà di addivenire a questa condivisibilità da parte dei comunicanti.



>"significa questo e basta"

una ipotesi è che più è definito l'oggetto e più può essere definita la parola che lo indica.

Se dico "mela" quasi nessuno penserebbe che sto parlando di pera, arancia o susina.

Però in alcuni contesti si dà meno importanza alla parola e più alla relazione e ad altri tipi di comunicazione.

Un esempio lo abbiamo quando abbiamo a che fare con la lingua tibetana che - da un lato - ha in alcune sue espressioni saputo ereditare la volontà di precisione della lingua sanscrita ed è dotata di un vocabolario straordinario per definire ogni sfumatura di sentimento ed emozione per cui la "gioia" non è semplicemente la gioia, ma ne esistono moltissimi tipi, ad esempio come "quella che provi quando" si è in questo frangente o situazione o "quella che provi quando altro", ovvero si è in un altro frangente o situazione.
Lo stesso avviene nei paesi nordici dove non esiste solo la neve, ma esistono tanti tipi di neve, ed ognuno ha il suo nome specifico.
Lo stesso avviene per i fiori di loto: vi sono diverse lingue che assegnano loro un nome diverso a seconda della diversità di sfumature del suo colore.

Eppure - dall'altro lato - nella lingua tibetana a seconda del contesto posso chiamare la mela in molti modi diversi senza che nasca equivoco su ciò di cui sto parlando e, di volta in volta, può diventare "la rossa", "la tonda", "la dolce" o altro, cioè la posso definire secondo la qualità che sto osservando, che mi assume una importanza in un determinato contesto comunicativo, e questo avviene senza che gli interlocutori si confondano perché sono abituati a tenere presente questo aspetto del linguaggio.

Ovvero da un lato questa lingua, le sue parole, sono state rese capaci di un linguaggio preciso e tecnico, ma applicato al campo della sfera emotiva, ed allo stesso tempo il suo uso ha postuto, saputo o dovuto - questo non so - conservare degli aspetti arcaici dell'espressività attraverso un linguaggio in cui la posso usare in modo tale che non sia improprio ma che allo stesso tempo mi si possa comprendere meglio solo in determinati contesti di relazione.


Forse lascio troppi ulteriori spunti di riflessione.

Alla prossima.

Ultima modifica di Patrizia Mura : 05-10-2014 alle ore 20.33.37.
Patrizia Mura is offline  
Vecchio 05-10-2014, 21.25.39   #6
sgiombo
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Riferimento: Che cose significano le parole?

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Originalmente inviato da Patrizia Mura
>"significa questo e basta"

una ipotesi è che più è definito l'oggetto e più può essere definita la parola che lo indica.

Se dico "mela" quasi nessuno penserebbe che sto parlando di pera, arancia o susina.

Però in alcuni contesti si dà meno importanza alla parola e più alla relazione e ad altri tipi di comunicazione.

Un esempio lo abbiamo quando abbiamo a che fare con la lingua tibetana che - da un lato - ha in alcune sue espressioni saputo ereditare la volontà di precisione della lingua sanscrita ed è dotata di un vocabolario straordinario per definire ogni sfumatura di sentimento ed emozione per cui la "gioia" non è semplicemente la gioia, ma ne esistono moltissimi tipi, ad esempio come "quella che provi quando" si è in questo frangente o situazione o "quella che provi quando altro", ovvero si è in un altro frangente o situazione.
Lo stesso avviene nei paesi nordici dove non esiste solo la neve, ma esistono tanti tipi di neve, ed ognuno ha il suo nome specifico.
Lo stesso avviene per i fiori di loto: vi sono diverse lingue che assegnano loro un nome diverso a seconda della diversità di sfumature del suo colore.

Eppure - dall'altro lato - nella lingua tibetana a seconda del contesto posso chiamare la mela in molti modi diversi senza che nasca equivoco su ciò di cui sto parlando e, di volta in volta, può diventare "la rossa", "la tonda", "la dolce" o altro, cioè la posso definire secondo la qualità che sto osservando, che mi assume una importanza in un determinato contesto comunicativo, e questo avviene senza che gli interlocutori si confondano perché sono abituati a tenere presente questo aspetto del linguaggio.

Ovvero da un lato questa lingua, le sue parole, sono state rese capaci di un linguaggio preciso e tecnico, ma applicato al campo della sfera emotiva, ed allo stesso tempo il suo uso ha potuto, saputo o dovuto - questo non so - conservare degli aspetti arcaici dell'espressività attraverso un linguaggio in cui la posso usare in modo tale che non sia improprio ma che allo stesso tempo mi si possa comprendere meglio solo in determinati contesti di relazione.

Premetto che sono un profano neanche tanto "amatorialmente provveduto" in fatto di linguistica, e chiedo anticipatamente venia per eventuali strafalcioni (che comunque apprezzerei se fossero corretti, ovviamente).

Non sapevo che il sanscrito (se ho ben capito), che ritenevo un' antica lingua indoeuropea "naturale", come il greco o il latino (cui é stata spesso ritenuta, fin dal Leopardi, molto affine), fosse una lingua artificialmente e di proposito definita (o se preferite stabilita) a scopo di comprensione fra parlanti diverse lingue naturali (un po' come l' esperanto) e anche allo scopo di consentire un ragionare (pensare) discorsivo (linguistico) e un comunicare preciso e inequivoco, e dunque il più rigoroso e corretto possibile (un po' come il latino sine flexione di Peano).
Ma ho qualche dubbio di aver compreso bene (forse ho frainteso, fatto perdonabile considerando che in questo forum si parla una -splendida!- lingua naturale, l' italiano).

Ma dubito soprattutto fortemente che fra la lingua tibetana (di cui non so nulla) e qualsiasi altra lingua naturale possa esistere un "salto di qualità" quanto a precisione e inequivocabilità.
D' altra parte tutte le lingue sono reciprocamente traducibili in maniera accettabilmente fedele (altrimenti -poveri noi!- non sarebbe possibile intenderci fra popoli diversi) e le varie sfumature o caratterizzazioni del concetto di gioia possono essere espresse anche, credo altrettanto bene, in sostanza, con circonlocuzioni (per esempio: gioia che si prova in questa o in quest' altra circostanza); così come le diverse parole degli Esquimesi per la neve possono essere rese con la neve in questa o in quest' altra circostanza.
E' chiaro che avendo gli Esquimesi a che fare con la neve praticamente sempre e dunque in circostanze molteplici e significativamente diverse é stato ed é per loro più comodo e utile (e credo sia venuto loro naturale e spontaneo) dotarsi di tante diverse parole che includono immediatamente i concetti che nelle altre lingue sono espressi con ulteriori precisazioni ("normalmente" senza troppa fatica e inconvenienti pratici per i parlanti le altre lingue).
Non mi stupirei se allo stesso modo gli Esquimesi avessero un' unica parola per tutti gli agrumi o per tutti i vini, mentre noi più meridionali ne abbiamo tantissime e diversissime.

<<Se dico "mela" quasi nessuno penserebbe che sto parlando di pera, arancia o susina>>.
Certo non un tibetano, ma non mi stupirei se lo facesse qualche esquimese.
I Tibetani credo però che in compenso confonderebbero le diverse accezioni nelle quali gli Esquimesi parlano della neve.

Credo in generale che tutte le lingue naturali differiscano nella ricchezza e varietà del rispettivo lessico sostanzialmente per motivi utilitaristici legati alle condizioni di vita di chi le parla, e così tutte le lingue artificiali per i campi del sapere a cui si applicano.
sgiombo is offline  
Vecchio 06-10-2014, 04.46.05   #7
green&grey pocket
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Penso Maral che però bisogna distinguere tra la Verità del discorso filosofico come tramandato dalla storiografia e che trova epigono in Hegel, o la verità epistemologica.

Nel primo caso a me non sembra che la filosofia abbia detto dell'impossibilità del Vero, in quanto il vero è sempre ricerca, viaggio, inchiesta.
Nel secondo caso che mi sembra inopinatamente ti interesse di più, il discorso si va ingarbugliano, da un punto di vista formale.logico Tarsky è riconosciuto sempre storiograficamente come il punto di non ritorno, ossia la verità in sè non esiste.
Da un punto di vista linguistico, la teoria dei giochi di Wittgenstein ci spiega che i gruppi famigliari di parole, contengano di per sè materiale per un certo punto di vista di verità.Ma la linguistica è vasta, a mio parere comprende la semiotica, e comunque per il poco che ho letto, il problema della verità non può che essere demandato alla filosofia generale, e quindi siamo al punto uno sopra esposto.
Dai punti di vista sociologico-psicologico-politico-morale-artistico per me rimangono solo questioni politiche, e più spesso del politichese.

Parlare delle lingue grafiche come fa Patrizia è assai arduo, perchè la nostra come dice anche il prof. Sini è comunque un alfabeto atomico, che ben si sposa con il mondo del linguaggio binario delle scienze dell'informatica e della tecnologia.

Patrizia in effetti hai messo troppa carne al fuoco, sebbene interessante mi rimane il dubbio che tu confonda la parola con il linguaggio: sono cose assai differenti.

Sul tema della falsificazione o mimesi come la chiamo io, credo che abbisognamo di un 3d a parte.

Io francamente lo trovo arduo da affrontare in concomitanza con il tema della parola vera.

Da chi dovremmo partire? dal genio maligno di Cartesio alla teoria dei modelli di Austin, le teorie abbondano: quale scegliere?
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Vecchio 06-10-2014, 13.17.30   #8
maral
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Citazione:
Originalmente inviato da green&grey pocket
Nel secondo caso che mi sembra inopinatamente ti interesse di più, il discorso si va ingarbugliano, da un punto di vista formale.logico Tarsky è riconosciuto sempre storiograficamente come il punto di non ritorno, ossia la verità in sè non esiste.
Si potrebbe dire che la verità è proprietà di contesto che si trova esemplificata nelle relazioni tra gli oggetti in quel contesto presenti e che se questo vale per qualsiasi contesto, questa è la verità in sé?

Citazione:
Dai punti di vista sociologico-psicologico-politico-morale-artistico per me rimangono solo questioni politiche, e più spesso del politichese.
Quindi ritieni indebito e falsificante riferirle alla base di un'argomentazione filosofica?
maral is offline  
Vecchio 06-10-2014, 13.43.48   #9
Patrizia Mura
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Riferimento: Che cose significano le parole?

Citazione:
Originalmente inviato da sgiombo
Premetto che sono un profano neanche tanto "amatorialmente provveduto" in fatto di linguistica, e chiedo anticipatamente venia per eventuali strafalcioni (che comunque apprezzerei se fossero corretti, ovviamente).

La linguistica è una materia molto complessa e ne ho sfiorato alcuni aspetti in relazione ad un breve approccio alla lingua sanscrita, scoprendo un mondo, ma non sono in grado di correggere nessuno. Riferisco solo - come spunto - quel poco che ho appreso.

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Non sapevo che il sanscrito (se ho ben capito), che ritenevo un' antica lingua indoeuropea "naturale", come il greco o il latino (cui é stata spesso ritenuta, fin dal Leopardi, molto affine), fosse una lingua artificialmente e di proposito definita (o se preferite stabilita) a scopo di comprensione fra parlanti diverse lingue naturali (un po' come l' esperanto) e anche allo scopo di consentire un ragionare (pensare) discorsivo (linguistico) e un comunicare preciso e inequivoco, e dunque il più rigoroso e corretto possibile (un po' come il latino sine flexione di Peano).
Ma ho qualche dubbio di aver compreso bene (forse ho frainteso, fatto perdonabile considerando che in questo forum si parla una -splendida!- lingua naturale, l' italiano).

Hai compreso correttamente, anche se, credo e spero di aver scritto che è "come un", meglio sarebbe stato dire "come una specie" di esperanto, e di non aver scritto che "è un esperanto".

A voler essere precisi infatti occorre dire che origina comunque dal vedico, e che esistono diverse diatribe fra esperti su dove far finire il vedico e dove far iniziare il sanscrito, e quante fasi quest'ultimo abbia, se due o tre.
Ma anche la lingua vedica non era la lingua di un popolo, bensì già di una "casta". Il processo di raffinazione è tale che essa ricomprende ed importa anche diverse caratteristiche delle lingue pra-krte (non raffinate, per noi forse più simili a dialetti) così come le influenza ed in esse è possibile rintracciare quella che viene chiamata "l'ombra sanscrita", ma si, non è la lingua madre di alcun popolo bensì lingua creata per specifici usi.


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Ma dubito soprattutto fortemente che fra la lingua tibetana (di cui non so nulla) e qualsiasi altra lingua naturale possa esistere un "salto di qualità" quanto a precisione e inequivocabilità.
D' altra parte tutte le lingue sono reciprocamente traducibili in maniera accettabilmente fedele ... e le varie sfumature o caratterizzazioni ... espresse anche, credo altrettanto bene, in sostanza, con circonlocuzioni

Eh, già, circonlocuzioni, a volte peripezie, nelle quali si può orientare quasi solo chi conosce bene la cultura di riferimento.
Poi le lingue sono talmente tante e ciascuna ha le sue caratteristiche.
Non sto dicendo che anche altre non possano presentare medesime o altre caratteristiche, sono solo le due extraeuropee di cui mi sono interessata e le ho prese solo come esempio per spunti di riflessione.[/quote]


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<<Se dico "mela" quasi nessuno penserebbe che sto parlando di pera, arancia o susina>>.
Certo non un tibetano, ma non mi stupirei se lo facesse qualche esquimese.
I Tibetani credo però che in compenso confonderebbero le diverse accezioni nelle quali gli Esquimesi parlano della neve.

Beh, si, temo anche io che la assimilerebbe al macroinsieme frutta e si domandarebbe perché chiamiamo la frutta in così tanti modo



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Credo in generale che tutte le lingue naturali differiscano nella ricchezza e varietà del rispettivo lessico sostanzialmente per motivi utilitaristici legati alle condizioni di vita di chi le parla, e così tutte le lingue artificiali per i campi del sapere a cui si applicano.

Non ho ragionevoli motivi per obiettare, ripeto, ho portato solo due esempi e non intendevo aleggiare delle superiorità linguistiche ... anche se il sanscrito è davvero molto molto particolare e non so a cosa altro potrebbe essere paragonato, ma - limite mio - non conosco un numero sufficiente di lingue e non ho approfondito a tal punto la linguistica per fare dei paragoni.

Ripeto, erano solo spunti di riflessione.

Forse più tardi ritorno.
Patrizia Mura is offline  
Vecchio 06-10-2014, 14.01.17   #10
Patrizia Mura
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Parlare delle lingue grafiche come fa Patrizia è assai arduo, perchè la nostra come dice anche il prof. Sini è comunque un alfabeto atomico, che ben si sposa con il mondo del linguaggio binario delle scienze dell'informatica e della tecnologia.

Patrizia in effetti hai messo troppa carne al fuoco, sebbene interessante mi rimane il dubbio che tu confonda la parola con il linguaggio: sono cose assai differenti.


>Parlare delle lingue grafiche come fa Patrizia è assai arduo

Non credo di aver compreso cosa intendi con grafica, l'alfabeto sanscrito non è composto da "ideogrammi" come le lingue sino-orientali.

>confonda la parola con il linguaggio

La parola è semplicemente il termine che definisce un oggetto.

Il linguaggio potrebbe - forse - già cominciare con l'uso della grammatica, il modo in cui scelgo, assemblo e ordino le parole e, di più, il modo con cui le manipolo, che di per sè esprime qualcosa di più.

Inoltre linguaggio è un termine forse ancora troppo generico:

linguaggio comune
linguaggio giuridico
linguaggio medico

linguaggio forbito
linguaggio colorito
linguaggio impersonale

linguaggio amoroso
linguaggio aggressivo

sono già tre categorie diverse, eppure le chiamiamo tutte "linguaggio".

A ciò aggiungiamo l'importantissima intonazione, il contesto, e tutte le altre variabili che gli appartengono.

Se devo limitarmi alla parola per ora sento di dire solo che
più è definito l'oggetto
più è definito il termine che lo indica.

Quando si può dire "significa questo è basta" è perché entrano in gioco una serie di altre circostanze che riguardano la condizione degli interlocutori, oltre al fatto che l'oggetto non è sufficientemente definito ... oppure è negato da uno dei due interlocutori ...

... oppure - mi viene in mente - è molto astratto e i due non condividono i medesimi processi di astrazione.

Forse con altri esempi pratici potremmo comprenderci meglio.
Patrizia Mura is offline  

 



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