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Vecchio 18-08-2013, 16.28.44   #71
Parva
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Riferimento: I non guru del non culto del non metodo

Citazione:
Originalmente inviato da Yam
C'e' una visione negativa della Vita dominante nel pensiero religioso orientale e occidentale, un rifiuto della Vita.

Condivido su questo, credo che la paura di morire annulli tutto ciò che concerne il corpo. Anche il concetto di spiritualità è alienante, bisogna ritrovare l'istinto perduto, cioè la terra, questo astrarci nel nulla ci distrugge.

Citazione:
Originalmente inviato da Yam
Solo quando la morte dell'ego e' totale, accade che il pensiero funzioni in modo diverso, a comando dico io. Prima semplicemente, disturba di meno, sempre di meno, ma anche qui non siamo noi a deciderlo.
Il pensiero cade come chiacchiericcio come interlocutore, tipo: perchè lo fai? Hai sbagliato, stai attento, ecc.
Cade si il dualismo ma per me non è stato entrare in un mondo ascetico ma in un mondo vivo, di dolore e di gioia, sento la gente intorno a me, sono felice se sono felici, addolorata se soffrono, incavolata se sono crudeli e fanno del male.
Non sono affatto serafica, ma libera, piuttosto allegra, estremamente terrena e transeunte..
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Vecchio 04-12-2013, 02.34.27   #72
Sté-detonator
SiamoUniciPezzi di N.. :D
 
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Lightbulb Riferimento: I non guru del non culto del non metodo

Ebbrava Isabella!! Navigando navigando vedo che c'è sempre più interesse verso la naturalità, e quindi si approda anche a quell'omino che era UG..
All'inizo, vi ricordate com'èro impetuoso?
Tante cose le presi alla lettera e mi permettevo solo interventi sui forum o articoli, poi è uscito fb e i libri online.. poi altre esperienze, e allora mi son deciso..: se UG dice che quello stato non è utilizzabile per patrocinare una crociata, in effetti è perché lui non poteva farci nulla, ma io, non essendo in quello stato, posso usare le mie esperienze e diffondere le informazioni che abbiamo di quello stato, date da UG, ed ecco che farò un libro anch'io
Quelle informazioni sono una pietra angolare tutt'ora valida almeno per mitigare nuovi condizionamenti
Troppo ganzo rientrare qui dopo tanti anni e rileggervi..
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Vecchio 22-03-2014, 19.55.42   #73
oroboros
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Riferimento: I non guru del non culto del non metodo

Trovo molto divertente ascoltare i falsi guru che immaginano che essere un guru dipenda dalle proprie opinioni, e non dalla vista interiore e universale, falsi guru, dicevo, che rifiutano i veri guru... e in quel rifiutare si sostituiscono a loro sparlandosi addosso. Osho, Krishnamurti... ho ascoltato e letto ciò che affermano, e credo siano gli individui più assurdi e pieni di contraddizioni del pianeta.
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Vecchio 23-03-2014, 07.21.27   #74
oroboros
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Riferimento: I non guru del non culto del non metodo

Krishnamurti, in quanto filosofo, ha letto molto delle sacre scritture, che sono poi niente altro che l'equivalente della Bibbia per noi occidentali, ma il piano culturale sul quale Krishnamurti interpreta non può comprendere il vero significato, che è essenza, delle parole espresse dalle sacre scritture vediche. La conseguenza è disastrosa tanto da fargli confondere la percezione animale e istintiva, propria a quello che è chiamato subconscio o, peggio ancora, inconscio, con la consapevolezza interiore data dall'Intelligenza universale la quale è, precisamente, l'Intuizione spirituale. La percezione, e questo termine non è utilizzato da Krishnamurti a casaccio, indica la capacità sensoriale prima di tutto e, per estensione, anche il modo di sentire la realtà attraverso la dimensione emozionale, che si estende nei prolungamenti della sfera psichica che include sia l'emozione che il mentale costituito dal pensiero, il quale è il mezzo attraverso cui l'intelligenza, sia quella individuale che quella a carattere universale, si esprime. L'intelligenza individuale è il modo che ha la centralità individuale di essere all'interno della manifestazione della realtà relativa, mentre l'Intelligenza universale è, analogamente, la proprietà essenziale della Centralità universale che l'uomo chiama "Spirito". Krishnamurti, ignorando cosa sia l'Intuizione superiore dal momento che le sovrappone la percezione psichica, ignora di conseguenza la prima qualità propria alla spiritualità, sia essa universale che individuale, perché ogni essere ha in sé la stessa centralità della quale costituisce l'espressione, particolare perché differenziata, dello stesso Centro che tutto comprende. Gli errori che Krishnamurti commette in seguito a questa sua interpretazione distorta sono gravissimi, e la sua concezione del sacro è analoga a quella della religione anglosassone protestante, che si è fusa nell'eterodossia conseguente all'occidentalizzazione di alcuni indiani i quali, associandosi a occidentali americani e anglosassoni, hanno dato sangue alla comunità teosofica nata originariamente dall'inventiva della Blavatsky e di Olcott. Tra questi madornali errori c'è l'idea che il guru deve essere soppresso, così come deve esserlo l'influenza spirituale che determina l'iniziazione, e qui è centrato il ridicolo che ogni falsità trascina dietro di sé, con la frase "Se incontri un Budda uccidilo". Il ridicolo sta nel fatto che Krishnamurti opera come se fosse un maestro spirituale, ammaestrando però le masse, non gli eletti, nel modo tipico delle religioni, attraverso il credere. In definitiva Krishnamurti afferma che si è veramente liberi nel momento in cui ci si lascia andare al proprio percepire, il che equivale a porre lo stato della trance sul gradino più alto delle possibilità di essere. In realtà, se si dovesse stabilire una gerarchia riferita all'obiettivo implicito all'esistenza questa avrebbe, al suo culmine, la liberazione dai vincoli dati dall'esistenza stessa, in un ampliamento privo di costrizione conseguenza dell'identificazione alla Centralità universale. Lo stato di trance, al contrario di quello spirituale e liberatorio dato dall'Intelligenza universale attuata nel pieno delle proprie possibilità, costituisce il modo di liberarsi di sé attraverso la riduzione della propria coscienza. Come è fin troppo facile vedere, la dottrina di Krishnamurti è diabolica, come lo è, d'altronde, quella di tutta la società teosofica. Da notare che Krishnamurti accenna anche all'Intuizione limitandosi a dire, nell'evitare accuratamente di descriverne le proprietà, che è una parola che usiamo con troppa superficialità...
Di Osho dirò in un altro commento...
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Vecchio 23-03-2014, 07.23.04   #75
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Riferimento: I non guru del non culto del non metodo

Sempre è la Legge che dev'essere seguita e non certo la persona, a meno che questa persona non sia identificata alla legge, come è stato il caso del Buddha, o del Cristo, o di Maometto, o di Lao Tze, o di Zarathustra etc. etc. Ma cosa è questa supposta "Legge"? Per Legge si devono intendere i princìpi universali che sono norma dell'esistenza. Questi princìpi, essendo universali e dunque applicabili all'intera manifestazione della realtà relativa, sono necessariamente gli stessi per tutte le dottrine monoteistiche del pianeta e dell'intero universo. Il fatto che il Buddha non abbia accentrato la sua attenzione all'Assoluto non significa che non conoscesse la Trascendenza divina, ma solo che la sua attenzione era rivolta a ciò di cui si può dire senza utilizzare, per dirlo, delle negazioni come deve essere fatto quando si parla dell'Assoluto. "Quando si parla dell'Uno diventano molti", dice un hadit dell'Islam, evidenziando i pericoli insiti nel discorrere attorno alla Realtà che non è oggetto di descrizione. Osho, e lo ha dimostrato con la scelleratezza del proprio aver vissuto negli agi esagerati e nel corteo delle 33 Rolls Royce che possedeva (lo ha dimostrato anche coi suoi scritti folli presi accattonando qua e là dalla Tradizione metafisica che non capiva) ha attuato un compito demoniaco che ha avuto l'intento di capovolgere i princìpi universali dando a essi valori distorti che hanno allontanato dalla verità dottrinale le persone che avrebbero potuto avvicinarvisi perché qualificate a farlo. La sfera emotiva e il credere al quale essa induce è la realtà più cangiante che c'è, mentre i princìpi universali sono gli assi fissi attorno ai quali ruotano la vita e la morte. Affidare al sentimento il timone della propria esistenza sarebbe buona cosa per un essere solo quando quell'essere fosse assolutamente buono e nel giusto e, per questo suo stato, l'intelligenza fosse un orpello superfluo. La mente è il mezzo attraverso il quale l'intelligenza esprime le proprie qualità, ma l'intelligenza può essere individuale e limitata oppure universale e priva di limiti che ne costringano l'ampiezza dell'orizzonte visto. Non si può chiamare intelligenza una sola realtà, quando le differenze tra i due modi di essere intelligenti sono così distanti tra loro da non avere alcun punto in comune.
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Vecchio 24-03-2014, 09.59.31   #76
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Critica a Carlos Castaneda

Carlos Castaneda è stato un mistificatore che, più volente che nolente, ha trasformato il pesante e leggero riflesso del mistero che chiamiamo “vita”, in un sistema di pensiero il quale, dietro un’accattivante apparenza magica, di magico ha solo la capacità di dare forma e peso a ciò che non ne può avere costruendo, in questo modo, caricature per ingenui che sono parodia della Verità. Castaneda ha voluto dare una fisicità a ciò che immagine fisica non può essere, perché appartenente a quella sottilissima sfera che si esprime solo all’intuire superiore, rivolto all’Intelligenza universale, perché questo costituisce la prima manifestazione dell’universalità intellettiva nella sfera individuale. L’intuire superiore si esprime nell’individuo con la visione del reale per ciò che il reale è, il quale non si esprime per questo in immagini fisiche, ma in una superiore certezza che solo come conseguenza si evidenzierà agli occhi della mente, ma non con contorni e forme visibili in uno stato di seconda consapevolezza. I contorni e le forme della vita, precedenti all’apertura dello sguardo spirituale, sussisteranno e persisteranno ancora, dopo l’apertura interiore, ma s’illumineranno in una visione superiore che non avrà più necessità di interpretare quella che costituisce la velatura del reale per occhi solo rivolti all’esteriore. La certezza che “Vede” lo fa nella piena consapevolezza, attraverso il dono di comprendere le connessioni dei minutissimi elementi, non percepibili dall’occhio esterno, che danno vita e senso al reale. Normalmente le persone, non avendo consapevolezza dei principi universali, non sono nemmeno in grado di riferirsi alla loro stringente logica consequenziale, la quale ordina gli elementi, grandi o piccolissimi di cui è formata la realtà, che necessariamente sfuggono alla valutazione dell’interpretazione individuale priva della capacità data dall’osservazione che procede dal Centro dal quale proviene tutto ciò che è.
È l’osservazione della realtà, attraverso i Principi che costituiscono il “Senso dell’Eterno”, che conferisce la vista del Vero universale, senza la falsificazione operata dalla mediazione individuale. In altre parole… non è l’individuo che “Vede”, ma il Centro che, esprimendosi nell’individuo consapevole, riconosce la Verità perché l’individuo si scansa dall’interpretarla a proprio uso e consumo. Questo volersi scansare è il solo “merito” dell’individuo che comunica col proprio Centro universale. Quando questo individuo deciderà di identificarsi a questa centralità… sceglierà, decidendo in quel modo, la possibilità di divenire libero.
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Vecchio 28-03-2014, 19.28.17   #77
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Critica a Hermann Hesse

In un suo scritto sulle religioni, lo scrittore Herman Hesse magnificava, entusiasta, la risposta di un monaco buddista che, alla domanda fattagli da Alessandro Magno sul senso della vita, così rispose: “Nulla di sacro, aperta distanza!”.
Quel monaco confondeva l’Infinito con l’indefinito, il Sacro col profano. Alessandro aveva incontrato il monaco sbagliato, e Hermann Hesse non è stato in grado di coglierne la differenza.
La conoscenza, sulla superficie della sfera presa a immagine della realtà incontra, nel suo procedere, l’indefinita aperta distanza e ruota continuamente senza poter approdare alla sintesi della certezza assoluta, poiché l’estensione deve escludere l’essenziale, che non è esteso ed è il Principio che la determina, simboleggiato proprio dal Centro. Per questo l'estensione non può essere infinita. L’Infinito non deve escludere nulla perché, se lo facesse, l’esclusione diverrebbe il suo limite. L’indefinito è invece caratterizzato da un limite il quale, come se l’Infinito che l’ha creato lo chiamasse a sé, mentre sta per essere raggiunto si allontana divenendo un orizzonte irraggiungibile. Il drago che si morde la coda (L'Uroboros o Ouroboros o Oroboros della Tradizione) è il simbolo della razionalità che non riesce a comprendere interamente le ragioni della totalità di cui è parte ed effetto, oltre a essere anche quello, su un altro piano più elevato, della ciclicità di tutti gli eventi e dell'esistenza tutta. L’indefinito limite costituisce il confine della manifestazione che può risolversi solo nell’Infinito, il quale, senza contingenze che lo circoscrivono, crea la realtà relativa senza subirne le limitanti conseguenze, poiché la causa non è modificata dal suo effetto. Il fuoco non brucia il calore che lo determina. Hesse aveva una conoscenza "culturale", e non immediata, della Tradizione Vedica Induista, così come del Taoismo e del Buddismo, ma egli proveniva culturalmente dal modo d'intendere la realtà del Sacro propria al protestantesimo, che affida all'individuale, nel suo aspetto relativo e culturale, la comprensione di Principi universali che sono al più basso grado di relatività e solo nel loro rapporto con l'Assoluto, e che possono essere compresi solo dalla comunicazione consapevole col Centro universale che è Causa prima dell'individualità. Questo significa "al di sopra della mente" e in un modo "immediato” e senza distinzione né divisione, tra colui che conosce e la realtà conosciuta. Mai all’individuo che non risiede stabilmente col proprio conoscere nella sfera dell’universale, quindi nel Centro di tutte le realtà, è concessa la conoscenza dei Principi universali e la conseguente capacità di “ragionare” per Principi, escludendo facilmente, con ciò, ogni contraddizione e paradosso, i quali appartengono solo al regno dell’impossibilità.

Aggiungo questo appunto al giudizio espresso sopra su Hesse, ricordando il suo romanzo dal titolo "Il gioco delle perle di vetro", nel quale l'autore racconta di un ipotetico e speciale gioco che è in grado di tradurre la realtà nei suoi intimi meccanismi di principio, come se la realtà fosse il risultato di un meccanismo. Naturalmente di questo magico pallottoliere non dà mai nemmeno una sommaria descrizione di tipo logico, matematico o geometrico, ma non è questa mancanza che deprime. Il mio sconforto di lettore segue la consapevolezza che la totalità non potrà mai essere racchiusa in un sistema che sia qualcosa più che simbolico, essendo il simbolo il rappresentante muto della realtà, perché ne sintetizza i principi attraverso immagini, non altrimenti comunicabili, che evocano intuizioni interiori. Così è per i Tarocchi, per le Rune celtiche, per lo I Ching cinese e per altri microcosmi che racchiudono il macrocosmo, per la legge della corrispondenza analogica che è assicurata dal fatto che il grande deve obbedire alle leggi che regolano il piccolo poiché il grande è il risultato dell'unione dei piccoli. Dalla conoscenza dei principi universali nascono questi insiemi simbolici che, però, mai costituiscono un sistema di pensiero, e questo per un'impossibilità a esserlo derivata da ragioni precise. La più importante delle quali è che la totalità è indefinita nel suo racchiudere un tutto che per essere tutto ha necessità delle eccezioni, mentre ogni sistema ha il vezzo di costituire una sistematizzazione di pensiero che, per definizione, deve escludere ciò che non rientra nei suoi obiettivi e, di norma, quello che esclude è l'essenziale che non può essere colto dalla consequenzialità del pensiero, e quest'assenza della centralità ineffabile rende la sistemizzazione inapplicabile, illusoria e limitante. Un'altra ragione importante è data dal credere che il tutto possa riempire la logica del pensiero. È questa un'altra impossibilità, perché la logica, quando è rispettosa dei principi dai quali deriva e non un'assurda sequela di proposizioni casuali, è conseguenza ed effetto della verità, e in quanto tale non potrà a propria volta contenere interamente il proprio contenitore e comprendere la verità nella sua totalità. Su questa incomprensione di principio, che costituisce un pregiudizio, Hesse ci ha costruito un romanzo spacciandolo per il frutto di una conoscenza superiore che non è mai stata alla sua portata di comprensione.
Vorrei sottolineare che un simbolo, per essere compreso nella sua interezza, deve essere considerato non soltanto per ciò che contiene, ma anche per quello che esclude, e un simbolo universale non esclude nulla. Il Tao, per esempio, costituisce la rappresentazione piana, bidimensionale quindi, della spirale che è modulo del movimento ciclico universale, la quale ha un centro fisso che è asse, ed è racchiusa da una circonferenza. Il fatto che sia piana non esclude la vista tridimensionale, né la sua rotazione e neppure il fatto che la circonferenza diviene la distanza infinitesimale che misura e differenzia le spire tra loro. Occorre ricordare che in questo simbolo anche il nulla esterno dal quale esso è contenuto ha il suo senso simbolico.
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Vecchio 28-03-2014, 19.30.35   #78
oroboros
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Riferimento: I non guru del non culto del non metodo

Critica a Johann Wolfgang von Goethe

Quello che è chiamato il “Paradosso di Goethe”, per il fatto che lui è il suo ideatore, cita così: “Il sapere è come una sfera, più è grande, più sarà vasta la superficie di contatto che ha con l’ignoto“.
È mia intenzione, con l’esposizione che segue, chiarire la radice del grave errore di principio che ha indotto Goethe a formulare questa considerazione contraddittoria, che si appoggia al simbolismo spaziale per definire il rapporto tra la conoscenza e la realtà mutevole:
Se il modo di conoscere può essere rappresentato analogicamente dalla sfera, questo modo di sapere ruoterebbe, secondo Goethe, sulla sua superficie ignorandone il centro. Questo centro, privo di dimensione, non è un qualsiasi punto della sfera, presa a immagine della realtà. Esso costituisce l’origine e la sintesi dei molteplici e divergenti punti di vista, suoi lontani riflessi capovolti, dei quali la circonferenza dell’esistenza si orna. Analogamente al punto geometrico esso non si estende in una forma, che è la definizione di un limite, costituendo il muto rappresentante dell’onnipresenza divina, perché è ovunque presente e invisibile ai sensi, ma non al diretto intuire dell’aspetto superiore dell’intelletto, di cui l'uomo è fornito, che è in grado di vedere, per una via non mediata dalla mente, l’universalità. Universalità che è radice di tutta la manifestazione dell’esistente.
Il punto di vista che rappresenta la conseguenza logica di un principio universale, il quale non può ammettere contraddizioni di sorta, non costituisce più un paradosso perché deve citare così: "L'ignorare è come una sfera, più è piccola, più sarà grande la comprensione dei propri limiti".
Goethe considerava la conoscenza come fosse situata sulla superficie della sfera e non nel Centro di essa. Poiché quella sulla superficie costituisce la conoscenza superficiale e quindi mai esaustiva, mancando della concezione del Centro che è sua causa, si deve perciò dire che questa conoscenza, stesa sulla superficie, è in realtà l'ignoranza. Per questo più diventa grande e più ignora. Per questo la “cultura”, quando è di natura superficiale e sincretica, è puro accumulo nozionistico che ostacola la visione del Vero attraverso la configurazione di pregiudizi.
Per inversione analogica, quando è la conoscenza a essere sulla superficie della sfera, più questa sfera si rimpicciolisce e più il conoscere si avvicina al Centro della sfera, e quindi al punto d'origine dove il sapere trova la sua sintesi, che è al contempo origine, attraverso l’abbandono della conoscenza superficiale che sempre moltiplica le questioni che dovrebbe esaurire. È solo nel Centro, simbolo della Causa prima dell’esistenza, che la consapevolezza troverà la sua ragione di essere. Solo questi due ultimi punti di vista sono complementari tra loro nella risoluzione comune e centrale, mentre il paradosso di Goethe, essendo una contraddizione in quanto ogni paradosso deve, per definizione implicita, essere una contraddizione ai principi che vorrebbe rappresentare, non costituisce, in quanto paradosso, che una pura impossibilità.
Ci sarebbe anche il modo di osservare le cose con un’altra chiave interpretativa, quella che vede la sfera ingrandirsi. Questo implicherebbe che se fosse l’ignoranza a essere sulla superficie essa aumenterebbe con l’aumento della stessa, mentre se fosse il sapere… aumenterebbe a propria volta, ma resterebbe sempre privo di consapevolezza della propria, essenziale, centralità. È solo conoscendo la natura del principio che si possono comprendere le successive sue conseguenze. Questi altri due modi, che derivano da altre e diverse chiavi interpretative sono, a loro volta, complementari tra loro rispetto all’ingrandimento che, in questo caso, sostituisce la riduzione della sfera, analogicamente intesa a rappresentare il sapere o l’ignorare. Si deve dire, in definitiva, che tutto ciò che si allontana dal Centro, che è sua causa, compie un ciclo il quale, attraverso la sperimentazione delle proprie possibilità di essere subisce inevitabilmente un degrado, in questo suo allontanamento dalla perfezione del principio che l’ha generato. Esprimendosi, la realtà, attraverso una modalità ciclica, anche questo degrado esaurirà la propria funzione e preparerà le condizioni future di un altro e nuovo ciclo che potrà trovarsi su un livello superiore o inferiore al precedente, in dipendenza della consapevolezza che è riuscito a maturare, e questa legge vale tanto per il conoscere quanto per la vita stessa, sia nei suoi aspetti particolari che in quelli generali, in riferimento sia ai cicli microcosmici che a quelli macrocosmici i quali, inevitabilmente, riflettono le stesse modalità dei cicli minori dai quali sono composti. Lo stesso si deve dire per l'individualità che è compresa nell'universalità e che, per questo, non può comprenderla a propria volta, almeno finché resterà confinata in se stessa.

Il fascino che ha esercitato e che esercita il paradosso di Goethe dipende dalla sensazione che sia vero e applicabile alla realtà, perché vorrebbe spiegare che più sono le cose che si conoscono e maggiori saranno le nuove questioni che si presenteranno all'intelligenza, in un'amplificazione direttamente proporzionale alla conoscenza che, per questo perverso meccanismo, dovrà necessariamente riconoscersi inadatta al compito che le è stato assegnato dalla sua ragione di essere. In effetti è a ragione che si deve dire che per quel modo di conoscere, usuale e mediato dalla mente razionale, non sia possibile chiudere il cerchio delle risposte ai quesiti che continuamente si pongono, e questo è dovuto al fatto che quel modo mediato e interpretativo, proprio alla natura della mente quando quest'ultima non ha un collegamento diretto con la conoscenza immediata, dunque non relativa, dei principi universali e centrali dell’esistenza. Princìpi che sono i soli a costituire la perfetta origine dalla quale, procedono, a cascata, tutti gli altri principi, a gradi maggiori di relatività che sono proporzionali al loro allontanamento dal principio primo. Quando non c'è la consapevolezza dei principi universali, normativi dell'esistenza, si finisce inevitabilmente nella contraddizione alle leggi stabilite da questi principi, e nella conseguente incomprensione che segna l'incapacità di comprendere la realtà relativa e la sua ragione essenziale d'essere la quale, in quanto causa del relativo, relativa non può più essere.
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