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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

La parola e la critica

di Marco Calzoli - Ottobre 2021



ahám rā́ṣṭṛī … prathamā́ yajñíyānām
“Io sono la regina … la prima tra coloro a cui si deve offrire”

Ṛg-Veda X, 125, 3a.

 

           Questo verso vedico mostra quanto la Parola, definita regina, sia importante nella cultura indiana, ma giocoforza anche nella civiltà umana. La Parola è ciò che tutto penetra e a cui nulla può sottrarsi, così viene celebrata nel Ṛg-Veda. Ma di più, gli inni vedici sono la formulazione stessa dell’Assoluto, del Brahman, ovvero il primo manifestarsi dell’Assoluto, cioè come Parola Potente. 
           I poeti vedici dimostrano una attenzione finissima per la Parola creando continui giochi sonori e semantici, collegandola così al mondo divino. In Ṛg-Veda I.2.8 abbiamo una strofa di tre versi oggetto dell’interesse degli studiosi:

 

ṛtena mitrāvaruṇāv
ṛtāvṛdhāv ṛtaspṛsa
kratum bhantam āsāthe.


          Questa, come abbiamo indicato, è la strofa 8. Il complesso delle strofe 7, 8, 9 sono dedicate agli dei Mitra e Varuṇa, i quali sono preposti all’ordine cosmico, in vedico ṛta. I nomi delle due divinità ricorrono nel secondo elemento del primo verso della strofa 8 (mitrā-varuṇāv): essi sono circondati da quattro ricorrenze del termine vedico ṛta (che abbiamo messo in grassetto). Il poeta vedico vuole esaltare la magnifica potenza delle due divinità circondandole con la parola del loro potere.
          Ma c’è di più. Il vedico ha un accento musicale di tre tipi: udātta (tono ascendente), anudātta (tono discendente), svarita (una combinazione dei due toni). L’accento è fondamentale nei 4 Veda in quanto sono opere in versi e quindi in metrica, ma, come studiato da Lubotsky, anche perché il poeta vedico usa l’accento per creare effetti poetici. Il poeta vedico usa probabilmente l’accento per uno scopo poetico altresì in questo passo. Ci riferiamo al vocativo ṛtāvṛdhāv, che non ha l’accento udātta. In vedico di solito il vocativo, che è atono, acquisisce l’accento sulla prima sillaba se è ad inizio di verso. Questo è l’unico caso in tutto il Ṛg-Veda in cui c’è eccezione a tale regola. Perché? Errore di trasmissione del testo (Haskell, Bollensen). Oppure altri studiosi hanno portato argomenti per ipotizzare un superamento di questa regola grammaticale del vedico (Macdonell). Altri ancora hanno pensato a questo: i primi due versi della strofa sono uniti dal sandhi, quindi il poeta deve averli intesi come una sola unità, pertanto il vocativo del secondo verso non è sentito come iniziale (Oldenberg, Bloomfield). Invece Balasubrahmanyam nel 1963 ha portato due argomenti molto dotti: una unità semantica tra i due vocativi mitrāvaruṇāv e ṛtāvṛdhāv, pertanto il secondo non viene avvertito come iniziale; il tipo di strofa in questione aveva storicamente all’inizio i primi due versi formanti un solo emistichio, pertanto il vocativo del secondo verso non viene avvertito dal poeta vedico come iniziale. Ma un giovane studioso, Duccio Lelli, ha recentemente ipotizzato che il poeta vedico, per onorare queste due divinità, giochi a non mettere l’accento sul vocativo. È significativo che i primi due versi formano 14 sillabe non accentate: non c’è in vedico una regola in questo senso, ma è comunque insolito che compaiano tutte queste sillabe non accentate (senza udātta).
          Un altro passo vedico molto studiato dai filologi è Ṛg-Veda I. 164, un indovinello nel quale compare la Bufala primordiale, che con il suo muggito separa i flutti e li scandisce in una serie di onde. L’immagine è resa misteriosa perché, mentre lo fa, i suoi piedi si moltiplicano passando da uno a un numero indefinito. Questo passo viene interpretato già nella letteratura vedica così: la Bufala è la Parola primordiale che separa in sillabe il fluire di sé stessa; il numero progressivo dei piedi allude al numero progressivo dei versi, quindi si tratta del passaggio dalla voce indistinta alla voce metrica.si tratta di un mito della nascita della parola metrica. Nei Veda compare altrove anche Indra che con il suo muggito “spacca” i suoi avversari, cioè “le mura” dei nemici. C’è un collegamento con la Bufala primordiale che muggisce e con l’idea che la parola sia qualche cosa di talmente potente che distrugge, un motivo ricorrente indoeuropeo, pensiamo solo alla “parole alate” di Omero, formula interpretata dagli studiosi come frecce. Si tratta di una formula molto usata da Omero: in greco è epea pteroenta. La Parola vedica (e indoeuropea) distrugge perché è potente, ed è potente perché la Parola crea il mondo.
           Nella cultura vedica la Parola poetica nasce per ispirazione divina. La funzione poetica è una funzione sacrale. Il mondo vedico è stato oggetto di numerosissimi studi, e lo è tuttora. Gli studiosi ritengono che, prima di esso, vi fossero alcune tribù semi-nomadiche di ascendenza indo-iranica, i discendenti degli indoeuropei. Ad un certo punto avviene una vera e propria rivoluzione sociale e culturale: queste tribù diventano sedentarie, e lo fanno in un periodo lungo, cioè durante gli ultimi secoli del II millennio a. C. Ciò comporta una trasformazione nelle relazioni inter-tribali, cioè nei valori di quella società, costituendosi in questa maniera la società vedica. Nello stesso periodo avviene una rivoluzione anche politica, cioè quella società inizia ad essere guidata dai Kuru, il grande clan in ascesa, che portò alla trasformazione della società, cioè al passaggio a una sovranità estesa a tutte le tribù, che i Kuru unificarono. Allora si rese necessario un processo di revisione di quel patrimonio culturale pre-Kuru, che faceva capo direttamente alle singole tribù. Esso fu rivisto in un’ottica ecumenica, affinché potesse costituire una entità valevole per ogni tribù. Per realizzare questa operazione così complessa venne creata una categoria di specialisti che si presero cura del patrimonio testuale precedente per ricrearlo in maniera pan-tribale. Questa categoria sono i brahmana, cioè i sacerdoti. In un’epoca pre-Kuru, il ruolo sacerdotale era affidata al ruolo regale: lo stesso capo-tribù a seconda delle situazioni svolgeva il ruolo militare o il ruolo di sacerdote. Invece nella cultura vedica, cioè quella Kuru, il ruolo politico venne scisso da quello sacrale.
           I filologi hanno studiato talmente i 4 Veda che sono riusciti a scoprire tracce del materiale pre-vedico, cioè pre-Kuru, ad esempio nei cosiddetti “libri familiari”, dedicati alla storia di una singola tribù. Nel materiale pre-vedico c’è traccia di celebrazioni sacrali creative, cioè fatte sul momento, create istantaneamente dalla viva voce del poeta. Invece, dopo la unificazione del materiale ad opera dei Kuru, la dimensione sacrale si trasforma in dimensione rituale: nella prima la celebrazione era improvvisata per celebrare qualcuno, invece nella seconda la celebrazione nell’hic et nunc lascia il posto al rito, cioè alla ripetizione di formule fisse.
         Il criterio compilativo che ha guidato il lavoro di uniformazione del materiale pre-vedico è stato molteplice, tra cui il chandas, cioè la struttura ritmico-metrica. Il Ṛg-Veda non ha parti in prosa, quindi si pensa che in esso sia stato inserito solo quel materiale pre-vedico in poesia. Inoltre, tutti gli inni ṛg-vedici sono in metrica. I filologi vedici ritengono con dovizia di prove che il Ṛg-Veda testimoni il passaggio tra la Composizione creativa della celebrazione pre-vedica e la Esecuzione rituale vedica. La prima era tesa a celebrare qualcuno afferente a una singola tribù, la seconda era tesa a fare un rito unificato mediante del materiale precedente.
          Facciamo qualche esempio, portato da Paola Maria Rossi. Gli studiosi mediante vari accorgimenti rintracciano vari poeti vedici antichissimi. Mahdu-chandas  è autore degli inni dei primi dieci libri del Ṛg-Veda. Il nome Mahdu-chandas è il calco di un composto più antico, madhuvacas, presente per esempio in Ṛg-Veda IV.6.5. L’appellativo madhuvacas è stato studiato molto in chiave indoeuropea e vedica, significa “colui le cui parole sono pari al miele” e sembra alludere al fatto che la parola pronunciata dal vivo sia dilettevole in quanto detta sull’istante.
          Un altro poeta vedico molto antico è Viśvāmitra, autore degli inni del terzo libro. Il repertorio di immagini di composizione poetica di quest’ultimo è ricco di espressioni interessanti. Ṛg-Veda (III, 39, 3 a b): la visione poetica “prese posizione sulla punta della lingua”. È una immagine che testimonia dell’atto celebrativo della creazione poetica: cioè dal vivo. Se questo poeta vedico è uno dei più antichi e usa un formulario in cui si allude a una composizione non stereotipata ma che nasce dal vivo, allora questa allusione è considerata dagli studiosi  quale segnale di materiale pre-vedico.  Non solo, ma nel lessico di Viśvāmitra, il poeta è definito spesso kavi, che stando alla etimologia recente, indicava all’inizio un rappresentante del potere regale. Quindi la funzione poetica degli inizi si ricollega alla funzione regale: pertanto si adombra un quadro in cui il re è anche detentore della funzione sacrale, quella di avere le visioni poetiche ad opera degli dei.
          Sempre relativamente a Viśvāmitra, ci sono dei passi in cui si allude all’ideazione poetica come ad un atto non stereotipato ma che nasce sull’istante. Infatti, l’ideazione poetica è pari all’opera del carpentiere – taṣṭṛ (Ṛg-Veda III.38.1 a): il pensiero poetico (mati), sprigionandosi dal cuore (hṛd), è intagliato nella foggia di un inno di lode (stomataṣṭa) e proclamato solennemente (sas) in occasione della seduta di distribuzione dei donativi (vidatha), presieduta dal generoso patrono (III.39.1).
          Nella cultura vedica non c’è Parola poetica senza che essa abbia qualche relazione con il mondo divino. L’ispirazione del poeta vedico dipende sempre dagli dei. Nei Veda c’è un prototipo divino del sacerdote ed è Bṛhaspati, cioè il Signore (pati) della Parola (bṛh). Questo dio è il sacerdote degli dei ed “ha puntellato con forza le estremità della terra affinché rimanessero separate” (Ṛg-Veda VI.50), immagine che allude all’ordine cosmico (ṛta) stabilito dalla Parola delle divinità maggiori. Anche il poeta vedico riveste una funzione sacerdotale essendo collegato con gli dei.
          Passiamo ad un’epoca più recente. Valmiki è l’autore del Rāmāyaṇa (composto probabilmente nei primi secoli dell’era volgare), noto poema epico indiano in sanscrito e testo sacro dell’induismo, assieme ai Veda, alla successiva letteratura vedica, e quant’altro. L’autore, per esaltare l’importanza della Parola, si pone come l’intermediario tra Cielo e Terra. Alcune analisi lessicali pongo in rilievo come questo poeta intenda la sua opera come un corpo vero e proprio, nato dall’accoppiamento del Cielo e della Terra, intesi come principi divini.
            Il teatro classico indiano, cioè quello in sanscrito, si realizza nelle corti dell’India settentrionale tra I-II secolo d. C. e VIII d. C. Esso, come tutta l’arte maggiore della tradizione indiana, ha un “succo”, in sanscrito rasa, che può addirittura portare alla liberazione. Il teatro ha sempre avuto attenzione alla parola, ma è solo dal X secolo che in India si unisce saldamente il teatro con la poesia. Dalla fine dell’Ottocento si inizia a parlare di un rasa tipico del teatro, che deve essere suscitato dall’attore, il bhārata, l’attore come “danzatore”. Stando alla tradizione indiana antica, bhārata ha sì questo significato, “danzatore”, però con sfumature divine. Infatti è definito bhārata anche l’ātman, l’essenza spirituale dell’uomo, che coincide con l’Assoluto, il Brahman: nelle reincarnazioni, l’essenza spirituale dell’uomo cambia colore (diremmo oggi, cambia pelle) come il danzatore cambia colore sulla scena.
           Nell’India meridionale vi sono tuttora molte forme di teatro e di rappresentazione, come il Tholu Bommalata, tipico delle aree in lingua telugu. Si tratta della danza delle sagome di pelle, è un tipo di teatro delle ombre. Esso fonde diverse arti: teatro, danza, pittura, musica e narrativa. È una forma di intrattenimento ma con forte connotati ritualistici, per esempio nella apposizione di simboli sacri sulle sagome (alte circa un metro e mezzo, ma anche due metri), cosa che conferisce loro vita divina. Certamente anche la dimensione della Parola, sebbene non sanscrita,  serve a collegare il mondo degli uomini con quello degli dei. L’apertura degli occhi delle sagome permette, inoltre, la presentizzazione delle divinità sulla scena. La lavorazione della pelle, di cui sono fatte le sagome, è considerata un’attività impura: questo problema si supera usando la pelle di animali non morti violentemente, oltre alla presenza di procedure di purificazione dell’animale. Un elemento stabile è un intermezzo di intrattenimento che scimmiotta la vicenda del poema di Valmiki: è la riproposizione della vicenda epica in chiave buffonesca.
           Il rito indiano del mahāvrata, che evocava la dimensione della fertilità e della sessualità, vedeva alla fine alcune fanciulle (25 di numero) che danzavano attorno al focolare e ripetevano freneticamente la parola madhu, “miele” portando fra le braccia una brocca piena d’acqua. Il mahāvrata era un rito che si faceva nel solstizio d’inverno, il penultimo giorno del calendario religioso vedico, come tappa finale di un lungo ciclo rituale. Il culmine del rito era il miele e la ripetizione della parola madhu, in quanto, secondo il mito, il miele era quella essenza purissima che gli dei hanno succhiato per impedire che gli uomini giungessero fino a loro. Ma gli uomini hanno trovato un sostituto del miele, cioè la parola madhu. È veramente significativo che una parola serva da ponte per il congiungimento con gli dei. In questa performance finale emerge una triplice corrispondenza tra il miele (che per alcuni autori era l’essenza del rito), la parola madhu e le fanciulle. Probabilmente già all’epoca degli indoeuropei vi erano riti legati al miele che coinvolgevano delle fanciulle. Secondo gli antropologi il miele simboleggia lo sperma, la brocca l’utero: in molti villaggi dell’India meridionale le dee sono rappresentate da un vaso. In questo modo nel mahāvrata si realizza simbolicamente la celebrazione della fertilità. Si pensa che il rito sia in realtà il retaggio di celebrazioni per la dea Durga, identificata con la dea Vāc, Parola, figlia di Prajāpati, equivalente dell’Aurora. In questo modo la parola, entro il rito, acquisisce un significato ben più profondo.
           In sanscrito Parola è Vāc, di genere femminile, perché è madre di tutte le cose. Il dio indiano Prajāpati crea con la Parola, quindi i testi vedici possono affermare che “Prajāpati è il pensiero”. Nella letteratura vedica vi è un chiaro collegamento tra pensiero e Parola. Ricordiamo che nel Ṛg-Veda il termine manasā, “mentalmente”, “con la mente”, “con il pensiero”, ricorre 116 volte, mai così tante in altri testi fondativi di una civiltà. Come a dire che i poeti vedici prestavano attenzione smisurata al pensiero e alla sua emanazione, la Parola.
         Ma per noi occidentali è incomprensibile l’espressione “Prajāpati è il pensiero”. Già è difficile per noi capire esattamente cosa significhi che un dio sia simile al pensiero, ma quando nei testi vedici si incontrano espressioni analoghe non si tratta di metafore, ma di identificazioni vere e proprie. Pensiamo anche a “l’erba muñja è la forza” o a “l’albero udumbara è la forza”. Queste identificazioni hanno in vedico di solito stilemi ben precisi. “X è Y” è espresso da “X vai Y” oppure “X eva Y”, dove vai e eva sono particelle che corrispondono vagamente a “invero”, “di fatto”.
          Abbiamo a che fare con un altro modo di pensare, simile a quello rabbinico che procede per paradossi. Nei vangeli Gesù dice che “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”. Oppure Cristo identifica sé stesso con un pezzo di pane. E, curiosamente, benché secondo altri presupposti rispetto a quelli indiani, lo stesso Cristo viene definito nel Vangelo di Giovanni quale Parola o Pensiero.
           Il culto della Parola è presente pressoché in ogni popolazione della terra. Per la fede cattolica, Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è “il pane di vita”, in greco o artos tēs zōēs (Giovanni 6), cioè l’Eucaristia, ove è presente il suo corpo, sangue, anima e divinità. Dato che per l’evangelista Giovanni (1, 1), Gesù è anche Parola (o Pensiero), in greco logos, i cristiani venerano Dio nell’Eucarestia come venerano Dio nella sua Parola, cioè la Bibbia, formata da Antico e Nuovo Testamento. Girolamo (Isaia, prologo, CCSL 63, 1), il grande traduttore medioevale della Bibbia in latino, così affermava: “Quanto a me, io ritengo che il Vangelo è il corpo del Cristo e che le sacre Scritture sono la dottrina. Quando il Signore dice di mangiare la sua carne e di bere il suo sangue, questo può certamente intendersi a proposito del mistero dell'Eucaristia. Nondimeno il suo vero corpo e il suo vero sangue sono anche la Parola delle Scritture e la sua dottrina”. Gesù viene rappresentato come un pellicano, animale che si squarcia il petto per nutrire i suoi piccoli. Gesù nutre il popolo fedele sia con l’Eucarestia, fonte e culmine della vita cristiana, sia con la Parola.
           Il Dio che si manifesta nell’Antico Testamento crea mediante la Parola. Egli disse e la luce fu. Giuditta 16, 14: “Ti sia sottomessa ogni tua creatura: perché tu dicesti e tutte le cose furono fatte; mandasti il tuo spirito e furono costruite e nessuno può resistere alla tua voce, kai ouk estin os antistēsetai tēi phōnēi sou”.
          La potenza della Parola, che appartiene a Dio creatore, certamente è collegata anche alla verità assoluta, che appartiene solo a Dio. Gesù Cristo (Giovanni 14, 6) dice di sé stesso: “Io sono Via, Verità e Vita, egō eimi ē odos kai ē alētheia kai ē zōē”. Nel mondo indiano la Parola primordiale degli dei risuona in ogni sacrificio offerto dai sacerdoti alle divinità nel quale viene garantito l’ordine cosmico (ṛta: parola che significa anche la verità appannaggio solo degli dei): solo adeguandosi a questa verità assoluta, gli uomini possono accedere alla satya, cioè alla verità della loro esistenza.
            L’uomo, senza la illuminazione che proviene dagli dei, si trova nell’errore, sia secondo la tradizione indiana sia secondo la tradizione ebraico-cristiana. Salmo 19, 8: “La legge del Signore è integra, rinfranca l’anima; la testimonianza di Dio è vera, chedut YHWH ne’emanah, rende saggio il semplice”. Invece in sé “ogni uomo è menzognero”, kol ha’adam kozeb (Salmo 115, 11). Anche la sapienza indiana lo riconosce. Infatti, Śatapatha-Brāhmaṇa 1.1.1.1: “L’uomo è impuro a causa del suo dire la non-verità”, amedhto vai puruṣo yad anṛtaṃ vadati.
          La comunicazione umana è verbale e non verbale. Quella verbale è la parola (che esprime il contenuto razionale e cosciente del messaggio), quella non verbale esprime il contenuto emotivo e incosciente del messaggio, e può essere di due tipi:

  • Paraverbale: quella che accompagna direttamente la parola, come il tono della voce, il ritmo;

  • Corporea: espressione del viso, degli occhi, postura, distanza, e così via.

          Nella comunicazione umana, per esempio quando parliamo con un amico, quella verbale rappresenta circa il 30%, mentre quella non verbale circa il 70%. Quest’ultima, essendo incosciente, non viene sempre rilevata coscientemente ma costituisce l’impalcatura essenziale attraverso la quale veicoliamo il messaggio. Se un amico ci dice “Ti voglio bene”, avrà anche la comunicazione non verbale adeguata: occhi dolci e viso sorridente. Questo ci sprona a instaurare con lui un buon rapporto. Invece un nemico finge di dirci “Ti voglio bene”, e noi lo percepiamo (o lo possiamo percepire) dagli occhi stretti, dal tono della voce infido, dall’espressione del viso cagnesca. Questo ci sprona “d’istinto”, più o meno consapevolmente, a non fidarci di lui.
         Secondo gli studiosi, le espressioni facciali che esprimono emozioni sembrano avere un significato universale, che si ritrova in tutte le popolazioni della terra. Anche se la muscolatura facciale cambia da persona a persona, i muscoli necessari per produrre tali emozioni universalmente riconosciute sembrano essere costanti tra le persone, suggerendo che il volto umano si è evoluto per trasmettere segnali emotivi e il cervello umano si è evoluto per codificare tali segnali. Ciò confermerebbe la tesi tradizionale, quella di Darwin, per la quale le emozioni sono innate: molti modi in cui esprimiamo un’emozione sono modelli ereditati che in origine avevano un qualche valore per la sopravvivenza. Per esempio, l’espressione del disgusto si basa sul tentativo dell’organismo di rigettare qualcosa di nocivo, velenoso.
          Nel nostro cervello esistono circuiti di risonanza che si attivano quando percepiamo una emozione negli altri producendo in noi la stessa emozione. Un esempio di questo fenomeno si ha quando guardiamo le immagini di facce emotivamente espressive: i nostri muscoli facciali vengono attivati a imitazione delle espressioni percepite. Dato che le reazioni di risonanza si verificano prima che ne siamo consapevoli, la nostra consapevolezza degli altri arriva alla nostra coscienza già prodotta da questi circuiti senza che ce ne accorgiamo.
          La comunicazione non verbale corporea presenta tre tipi di gesti:

  • Gesti di gradimento (la comunicazione sta andando a buon fine: come passarsi le mani sui capelli);

  • Gesti di non gradimento (la comunicazione non è accettata: come tenere le braccia conserte);

  • Gesti di sfogo tensionale (la comunicazione è carica di tensione emotiva, come battere con il piede per terra o grattarsi il viso).

          Nell’uomo la ricchezza della comunicazione è garantita dall’uso simultaneo di quella verbale e di quella non verbale. Il messaggio, che riguarda l’atto comunicativo, serve alle persone per conoscere noi stessi e il mondo esterno. Tutto ciò che siamo è mediato dalla cultura, cioè dalla comunicazione dei nostri predecessori e da quella attuale dei nostri simili.
          Se noi siamo in grado di usare gli oggetti del mondo fino ad andare sulla Luna, è perché la cultura comunica a noi qualcosa di essenziale ogni volta che partecipiamo della società, mediante una continua comunicazione verbale (orale e scritta) e non verbale. Norman e Ortony si interessano delle emozioni viscerali (che si basano sull’a percezione e insorgono in maniera immediata), di quelle comportamentali (sull’apprendimento e le aspettative) e di quelle riflessive (sulla memoria e sulla riflessione). Nell’uso che noi facciamo del mondo esterno (ma anche di quello interno) il piano viscerale è quello dell’apprezzamento immediato, il piano comportamentale quello delle abitudini, delle attese e dei modi mentali che la persona adotta nell’azione, il piano riflessivo è quello della valutazione critica di un sistema attraverso l’accesso alle conoscenze esterne. Ma ogni piano è mediato nell’uomo dalla cultura: come diceva Fromm, se riconosciamo un tavolo come tale e non come una oscillazione energetica, è perché la cultura ci ha insegnato sin da piccoli a percepirlo come un tavolo.
          Secondo Grice la comunicazione è efficace se poggia sul principio di cooperazione, cioè se entrambi i partecipanti sono consapevoli dell’intenzione comunicativa del parlante. Grice ha declinato questo principio in quattro regole o massime conversazionali:

  • Massima di quantità: entrambi i partecipanti alla conversazione forniscono un contributo comunicativo tale da dare le informazioni solo necessarie, cioè che siano utili per esprimere correttamente il messaggio senza essere eccedenti;

  • Massima di qualità: i partecipanti danno informazioni che non sono false o per cui non hanno prove adeguate;

  • Massima di relazione: gli interlocutori forniscono contributi pertinenti;

  • Massima di modo: gli interlocutori si esprimono in forma chiara, non ambigua, sintetica e ordinata.

   Una lingua (per esempio l’italiano) è composta da:

  • Fonemi: le lettere dell’alfabeto italiano, le sillabe della scrittura del sanscrito, e così via;

  • Morfemi: elementi costituiti da più fonemi che indicano aspetti di significato (o semantici) come GATT/o, mediante il quale riconosciamo l’animale peloso a quattro zampe; e aspetti grammaticali come gatt/O, mediante il quale il parlante ci dice che l’animale peloso a quattro zampe è di sesso maschile;

  • Parole: quando si uniscono morfemi semantici e morfemi grammaticali;

  • Frasi: un insieme di parole dotato di senso compiuto con un soggetto (chi fa l’azione), un verbo (l’azione stessa) e complementi;

  • Periodi: l’insieme di più frasi.

          Da tutto questo è possibile estrapolare i cosiddetti universali linguistici:

  • Primo universale linguistico: ciascuna lingua ha un numero fisso di fonemi;

  • Secondo universale linguistico: da un numero finito di fonemi è possibile costruire un numero infinito di parole;

  • Terzo universale linguistico: il rapporto tra ciascuna parola e il suo significato è arbitrario, per cui uno stesso oggetto della realtà può essere espresso nelle lingue con diverse parole: cane, dog, chien, e così via;

  • Quarto universale linguistico: in ciascuna lingua è possibile costruire un numero infinito di frasi.

          Una struttura sintattica ha il predicato (verbo, che esprime l’azione) e gli argomenti (soggetto, complementi). Secondo Dik, la struttura sintattica si costruisce su più livelli:

  • Predicazione nucleare: è il livello 0, cioè il nocciolo duro, formato solo da predicato e argomenti. Il predicato puà indicare sia una proprietà dell’argomento (Mario è alto) sia una relazione tra gli argomenti (se diciamo Mario rompe il vaso, indichiamo una relazione tra Mario e il vaso). La predicazione nucleare dà le informazioni basilari sullo “stato di cose”, cioè su ciò che può accadere in un mondo, anche possibile (quindi il significato della frase non è necessariamente collegato alla realtà).

  • Predicazione core: qualifica lo stato di cose, cioè dà un elemento in più sullo stato di cose. La informazione in più, che qualifica lo stato di cose, è detta Satellite. Giovanni sta scrivendo una lettera: è la predicazione nucleare. Ma se noi diciamo: Giovanni sta scrivendo una lettera attentamente, qualifichiamo la predicazione nucleare. L’avverbio “attentamente” è un Satellite che ci dà più informazioni.

  • Predicazione estesa: ci dà una informazione ulteriore, in questo caso il Satellite è di natura spaziale o temporale. Giovanni sta scrivendo una lettera attentamente in libreria. Il sintagma “in libreria” è un satellite di questo livello.

  • Proposizione: il satellite esprime l’atteggiamento del parlante. Secondo me, Giovanni sta scrivendo attentamente una lettera in libreria. Il sintagma “secondo me” è il satellite della soggettività di chi parla, cioè esprime il suo atteggiamento nei confronti dell’enunciato.

  • Frase: questo livello si serve di Satelliti che indicano quale tipo di comunicazione vuole portare a termine il parlante. Francamente penso che Giovanni stia scrivendo una lettera. L’avverbio “francamente” indica il tipo di comunicazione: chi sta parlando vuole essere netto e sincero. Probabilmente posso pensare, ma non ne sono sicuro, che Giovanni stia scrivendo una lettera. In questo caso il satellite vuole esprimere che il parlante stqa portando avanti una comunicazione dubbiosa. 

          Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, pubblicato nel 1921, espose con estrema lucidità una tesi filosofica sul linguaggio verbale: quella denotativa, per il quale le parole rispecchiano il mondo, cioè la realtà. Il significato delle parole è il riferimento alla realtà.
         Ma, con una svolta quasi totale, nell’opera successiva, intitolata Ricerche filosofiche, Wittgenstein disse che le parole possono anche avere una funzione denotativa, ma ne hanno anche molte altre. Quando diciamo la parola “gatto”, c’è un riferimento alla realtà. Ma non sempre avviene. Dicendo “Ahi”, la parola svolge un’altra funzione. Wittgenstein chiama queste funzioni “giochi linguistici”, che sono infiniti. A questo punto il significato di una parola non è legato all’indicazione delle realtà, ma all’uso.
           Wittgenstein vuole dire che le parole non sono accumunate dal referente che hanno nella realtà concreta, ma dall’uso che svolgono nella frase. “Che cosa, se non il modo del loro uso, dovrebbe rivelare ciò che le parole designano?”, scriveva il filosofo nelle Ricerche I, 10. Sintagmi nominali, che sono accomunati dall’avere un referente concreto, hanno poi un uso diversissimo all’interno delle frasi. La lettera D usata come un numerale (indicando il numero 4), la parola “lastra” e il deittico “là” hanno tutti un riferimento concreto: il numero 4, la classe delle lastre e una certa porzione di spazio. Ma questi riferimenti non rendono i tre sintagmi più simili tra loro! Perché? Perché sono diversi gli usi che di essi si fanno nella frase. Il sostantivo “lastra” ha un uso diverso dall’avverbio “là”.
            La dottrina del significato che Wittgenstein sviluppò nelle Ricerche è molto interessante. Se il significato dipende dall’uso e non dal referente nella realtà esterna, esso dipende dalle regole grammaticali della parola e non dalla realtà esterna. Ma un ipotetico interlocutore muove una obiezione. Se il significato di un termine fosse il suo uso, come potrebbe uno comprendere quel termine? L’uso è diacronico, si sviluppa nel tempo, ma il comprendere è sincronico: si afferra di colpo il significato di una parola. Allora, continua l’ipotetico interlocutore, il significato non potrà essere l’uso del termine; se le parole si comprendono di colpo, tale significato sarà piuttosto qualcosa di mentale associato al termine, tipicamente una immagine che compare dinanzi alla mente.
          La posizione espressa dall’ipotetico interlocutore nelle Ricerche si chiama “mentalismo semantico” ed è stata condivisa da Locke, Hume e persino da Agostino. Pure Wittgenstein la condivideva nel Tractatus. Ma ora nelle Ricerche la rifiuta. Come mai?  Come vorrebbe il mentalismo semantico, quando pronuncio la parola “cubo”, mi si darebbe davanti alla mente l’immagine di un cubo. Ma Wittgenstein osserva acutamente che nemmeno questa immagine è originariamente solo l’immagine di cubo e null’altro. solo l’applicazione che una persona fa di questa immagine la rende immagine di un cubo. Di per sé una immagine mentale, per quanto somigliante a un cubo, può anche essere trattata come immagine di qualcosa di altro, come un prisma triangolare.
         Scriveva Wittgenstein: “Supponi che quando odi la parola Cubo si presenti alla tua mente un’immagine, poniamo il disegno di un cubo. In che senso questa immagine può convenire o non convenire all’impiego della parola “cubo”?” (Ricerche I, 139). Solo l’applicazione della parola può differenziare l’immagine del cubo da quella del prisma triangolare. Nessuna immagine mentale, per quanto somigliante alla cosa rappresentata, può assegnare alla parola corrispondente un determinato significato, poiché l’immagine più somigliante possibile a una determinata cosa può sempre essere usata, applicata, diversamente. Quest’uso, o applicazione, è dato dalla frase. Wittgenstein non fa questo esempio, ma lo facciamo noi: quando diciamo “In discoteca la ragazza balla sopra il cubo”, solo allora la parola cubo assume l’esatto significato perché è uno stereotipo linguistico assunto dalla frase che in discoteca si balli sopra il cubo. È solo questa applicazione linguistica che ci fa pensare al cubo della realtà e non a immagini simili che abbiamo nella mente.
           Wittgenstein sviluppava un discorso molto profondo. In linguistica è nota la capitale distinzione in francese tra langue, “lingua”, e parole, “parola” (de Saussure). La prima indica la grammatica, la struttura di una lingua, invece la seconda indica la messa in atto della grammatica nel linguaggio verbale usato concretamente.
          Wittgenstein parlando dell’uso come generatore del significato si riferiva a entrambe: sia la grammatica sia l’uso concreto determinano il significato di un termine, all’interno della catena linguistica.
             La distinzione tra langue e parole è la distinzione tra linguistica e filologia. La linguistica si occupa di una parola entro il sistema della lingua, entro la grammatica, entro le categorie astratte. Invece la filologia si occupa della parola nell’uso concreto di un popolo o di un autore. Un discorso grammaticale è che il sostantivo Silvia è un nome proprio di genere femminile; un discorso filologico è: A chi o a cosa Leopardi si riferiva nella celebre poesia?
          Stilare una grammatica rientra in una operazione della langue, invece redigere un commento o una interpretazione di un’opera di un grande autore rientra nelle parole.
           Il commento è una interpretazione fatta da un critico. Ma ogni lettore è un interprete perché le parole di solito hanno diversi significati, quindi le opere trovano la loro compiutezza solo quando un lettore le comprende. Da ciò deriva anche che ogni testo scritto è suscettibile di più interpretazioni, soprattutto il testo artistico (poesie, romanzi, opere teatrali), per il quale Eco parlava di “opera aperta”, cioè dai possibili infiniti significati.
          Il sanscrito è una lingua talmente difficile che non si può comprendere l’opera di un grande poeta senza il commento, spesso senza il commento del commento. È significativo che spesso i commenti indiani alle grandi opere sanscrite si chiamino “specchi”. Le opere classiche greche e latine sono molto complesse linguisticamente e letterariamente, quindi sin dall’antichità sono fioriti molti commenti e lavori filologici.
           La migliore interpretazione critica è quella che cerca di dire cose che sfuggono alla prima lettura. Heidegger diceva che interpretare è dire il non detto. Per Platone (Sofista 218 e 2 sg), eugnōston men kai smikron, “ben noto e di poca importanza”: il filosofo greco quindi poneva un parallelo tra ciò che tutti vedono e la banalità. Solo se il dubbio ci indica la via verso l’ignoto, è possibile afferrare l’essenza o, meglio, cercare di farlo sempre meglio.
           C’è anche una certa critica che cerca di scoprire addirittura la vita, i luoghi e altri dati extratestuali presenti nelle grandi opere letterarie, ma, almeno nell’antichità, rifacendoci a un celebre detto, “assai mentono i poeti” (Aristotele, Metafisica I, 2: pollà pseudontai aoidoi).
            Il latino è una lingua già di per sé molto pregnante, ma quando è usata dal grande artista quasi ogni parola ha tutto un mondo che deve essere sviscerato dal critico. Come succede per l’Eneide, il noto poema epico latino scritto da Virgilio tra il 29 e il 19 a. C., rimasto incompleto per la morte del poeta, poi ampliato e finito da altri e infine pubblicato dall’imperatore Ottaviano Augusto. Enea è un eroe troiano che scampato dalla distruzione della sua città vaga per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio dove dà inizio al popolo romano.
            Il più importante commentatore di Virgilio è stato Servio Mario Onorato, IV secolo, che per secoli ha accompagnato la lettura di Virgilio. Nel 1438 è stato scoperto il commento di Tiberio Claudio Donato, V secolo, assai meno importante storicamente ma prezioso per molte osservazioni sul testo e la lingua virgiliane. Il commento di Donato era noto in epoca carolingia e rimane nelle abbazie francesi fino all’umanesimo, ma a volte anche dopo. Comunque avrà importanza molto minore rispetto a Servio che si accompagna sempre alla lettura e interpretazione di Virgilio.
         Servio è rappresentante dell’esegesi di tipo grammaticale del testo virgiliano, mentre Donato ci propone un’interpretazione di tipo retorico. Servio ha commentato Eneide, Bucoliche e Georgiche, mentre Donato ha commentato solo l’Eneide.
        Tutto ciò che precede Servio è in massima parte andato perduto, per cui gli esegeti virgiliani precedenti sono poco più che nomi. Pensiamo a Quinto Cecilio Epirota, primo grammatico a introdurre l’insegnamento di Virgilio presso le scuole; poi Marco Valerio Probo, personaggio difficile da valutare ma che avrebbe curato l’edizione di Virgilio su modello alessandrino; poi altri nomi: Igino, Floro, Cornuto sono personaggi di cui abbiamo pochi frammenti.
          Marrou ha scritto: Il semble que les habitudes de l’école antique aient détourné le lecteur des vues synthétiques, dès problèmes d’ensemble que pose une œuvre de vaste envergure […]. On lisait Virgile non comme on contemple de haut un vaste paysage, mais comme on admire un collier de perles tenu entre les doigts, examinant chaque grain l’un après l’autre pour sa beauté propre”, “Sembra che le abitudini della scuola antica abbiano allontanato il lettore dalla visione sintetica e dai problemi d’insieme che pone un opera di vasta portata: si legge Virgilio non come si potrebbe ammirar e un vasto paesaggio ma come una collana di perla tra le dita, analizzando ogni singola perla per la sua bellezza individuale”.
         Si tratta di un’immagine che offre una sintesi calzante. Henri Irené Marrou ha scritto un manuale di storia dell’educazione del mondo antico, per molti anni opera di riferimento, e ha studiato anche Agostino e il periodo tardoantico. Sostiene che l’atteggiamento del grammatico non era sistematico, non dava una lettura d’insieme ma si concentrava sui dettagli, sulle perle della collana: ogni perla viene esaminata e apprezzata nella sua individualità di per sé stessa, l’occhio cade su ogni singola perla, non sulla collana. Questo si vede quando si legge il commento di Servio, infatti il testo poetico è spezzettato in tantissimi lemmi, singole parole che vengono descritte e spiegate. La bellezza del testo poetico viene colta nei dettagli, ma manca la visione d’insieme.
      L’approccio del retore invece comprende dall’alto il vasto paesaggio. Naturalmente sono due estremi teorici, ma non esistono commenti puramente grammaticali o puramente teorici, anche Servio si sforza di abbandonare la visione della perla per introdurre elementi di vasto respiro; e Donato parte spesso da considerazioni grammaticali per tendere all’obbiettivo del vasto paesaggio.
          Gioseffi: “Come in una corsa a staffetta c’è un elemento comune, il testimone appunto, che passa di mano in mano, ma non necessariamente per via diretta, così nei nostri commenti c’è un materiale che tutti sembrerebbero scambiarsi e che in tutti in certa misura riaffiora; ma c’è poi l’andatura specifica dei singoli corridori, ossia quanto ciascun testo afferma di suo, la sua individualità, quella consequenzialità interna che giustifica la singola nota che vorremmo estrapolare e che dovrebbe essere fatta risaltare prima di sentirci autorizzati all’estrapolazione … Il nostro compito dovrà essere quindi, prima di utilizzare tali note e di giudicarle giuste o sbagliate in assoluto (o dipendenti le une dalle altre), quello di ricostruire quanto più possibile il mondo di riferimenti e di limitazioni che sta alle loro spalle. È invece più discutibile l’idea di utilizzare queste note estrapolandole dal contesto, per metterle a frutto poi, così estrapolate, nei nostri commenti. Il rischio di far dire al testo antico quello che di fatto non diceva e non intendeva dire, o anche solo di non cogliere tutte le sfumature e le conseguenze delle sue intenzioni, mi pare infatti decisamente alto. Meglio allora, molto meglio, indagare le affermazioni dei nostri commentatori nel loro insieme e vedere in essi dei corridori che tendono tutti a una stessa meta e si passano la staffetta di mano in mano, procedendo ciascuno con un proprio passo, dei propri tempi: passo e tempi dai quali, alle volte, sarà lecito diffidare”.
       L’immagine successiva che dobbiamo avere in mente nella lettura dei commenti virgiliani è quella delle “staffette” esegetiche, studiate da Massimo Gioseffi, che in uno dei suoi articoli di esegesi virgiliana antica, propone questa immagine icastica sull’atteggiamento che ogni commentatore antico intrattiene rispetto alla tradizione.
        Quando si leggono con certa continuità questi commenti antichi si capisce che gli autori attingono da un patrimonio di conoscenze comuni (Servio dal patrimonio dell’insegnamento grammaticale, Donato da quello retorico). Spesso si estrapolano dei passaggi da Servio o da Donato facendo perdere il significato perché si assume un’informazione e la si toglie dal contesto, piegandola a interpretazioni che invece all’interno del contesto non avevano. Questo approccio ai commenti antichi è sbagliato perché significa non comprenderli. L’idea di fondo è che occorre ricondurre le informazioni che Servio e Donato e gli esegesi antichi ci offrono al patrimonio comune cui queste informazioni sono state attinte. Quando si leggono commentatori antichi, occorre ricostruire il mondo di conoscenze che sta alle spalle di ogni singola annotazione e quindi vedere che cosa è tradizionale e cosa è personale nel commentatore.
           Quello di Tiberio Claudio Donato è il commento di cui abbiamo minore complessità di dati da gestire: Interpretationes Virgilianae. Si tratta di un personaggio totalmente sconosciuto, non abbiamo testimonianza antica che ci parli di lui; le poche informazioni sono quelle che ci dà lui stesso nel proemio iniziale e nell’epistola conclusiva. Si descrive come una persona avanti negli anni, che scrive questo commento a beneficio del figlio Tiberio Massimo Donaziano perché l’insegnamento del presente si è deteriorato rispetto al tempo passato e quindi vuole colmare la lacuna con il commentario dedicato al figlio. Non va confuso con Elio Donato, autore di un commento a Virgilio che però è andato perduto tranne l’epistola iniziale. Elio Donato è un personaggio ben più famoso, maestro di Girolamo, punto di riferimento dell’esegesi di Servio che lo cita per criticarlo ma è evidente il debito che Servio ha nei suoi confronti. Collochiamo il commentario di Donato nel IV-V secolo anche se non ci sono argomenti per andare più nel preciso e del pari non abbiamo argomenti solidi per una cronologia relativa tra Servio, Elio e Tiberio Donato. Il titolo dell’opera lo dà lui stesso nella prefazione. Si tratta di un commento alla sola Eneide suddiviso in 12 libri come 12 sono i libri dell’Eneide. L’opera ci è giunta nella sua interezza con qualche lacuna materiale dovuta alle vicissitudini dei codici.
        L’approccio è di carattere retorico, anche se non mancano notazioni grammaticali come punto di partenza. Il testo di Virgilio viene spiegato attraverso una sorta di parafrasi che negli intenti è formalmente artistica e si sforza idealmente di competere col modello. Il commento è davvero prolisso. L’ultimo editore, Georgii, dice che si tratta di un autore tedi plenissimus, “molto noioso”. Dal commento emergono pochi dati di carattere storico-mitologico-antiquario, bene presenti nel commento di Servio. Donato dice che avrebbe raccolto dell’informazioni in un tredicesimo libro, che però non è stato scritto o non ci è giunto. Donato, tuttavia, ignora delle cose fondamentali per l’esegesi e ciò lo induce spesso all’errore. Si tratta dunque di un testo inferiore a quello di Servio. L’impressione è che non fosse un professionista ma un lettore amatoriale. Fino al periodo umanistico il suo commento non poteva essere letto; quando fu scoperto, e poi stampato nel 1525, pur essendo noto, mantiene un ruolo marginale (spesso a causa di un pregiudizio).
          Nel corso del Novecento compaiono delle edizioni di Donato: dopo l’edizione in due volumi della Teubner, abbiamo quella di Georgii (1905-6) e poi direttamente, negli anni 80, un saggio di Marisa Squillante e qualche hanno dopo un volume. Il manoscritto contenente il commentario di Donato, ignoto fino all’umanesimo, viene portato in Italia col Concilo di Ferrara del 1438 da Jan Jouffray. L’opera viene stampata dal Landino nel 1487 che ne ricava degli excerpta e non un’edizione integrale. La vera editio princeps venne pubblicata nel 1535 a Napoli. Un’altra edizione del Cinquecento è quella del Fabricius, stampata a Basilea nel 1551, che diventa l’edizione di riferimento fino a quella di Georgii. Mentre le edizioni precedenti si fondano sui codici umanistici, Georgii risale ai piani alti della tradizione carolingia.
          Servio è il primo grande esegeta tardo antico. I manoscritti lo chiamano Serviu ma a volte Sergius, c’è talvolta la specificazione grammaticus, oppure a volte ci sono i tria nomina: Servius Maurus Honoratus ma sembrerebbe che in realtà questi nomi siano stati applicati dopo la morte di Servio e che non siano quindi affidabili. Egli ha scritto varie opere.
            Servio scrisse quattro opere di manualistica grammaticale, di cui 3 di carattere metrico, mentre la quarta è il commento all’Ars di Donato. Poi abbiamo il commento di Servio all’Eneide, che segue un ordine particolare: Eneide, Bucoliche, Georgiche. Forse inserisce prima l’Eneide per il suo programma scolastico. Donato segue l’ordine più naturale: Bucoliche, Georgiche, Eneide.
            Non abbiamo un titolo vero e proprio tramandatoci; Servio usa il termine expositio per la sua opera e i manoscritti lo chiamano commentarius.
          C’è un’introduzione iniziale, riferita a Virgilio nel complesso, in cui Servio dice che l’opera va analizzata tenendo presenti la vita del poeta ed altri elementi. Il commento è effettuato libro per libro, verso per verso e il testo è spezzettato in vari lemmi. Le Bucoliche hanno uno schema iniziale introduttivo, mentre le Georgiche no. Il commento dell’Eneide è molto denso per i primi libri, poi diminuiscono le informazioni di commento. Le nozioni di commento riguardano la lingua, la metrica, la storiografia e l’antiquaria.
          Servio enuclea la norma linguistica distinguendola da ciò che Virgilio non fa per licenza poetica. Il suo atteggiamento è opposto a quello dei detrattori, che svilivano Virgilio. A volte riporta le critiche ma cancella i nomi degli autori (quidam, alii ait). Un elemento che accomuna Servio e Donato è l’onniscienza di Virgilio. Dal punto di vista delle fonti è chiaro che il commento di Servio si basi su quello di Elio Donato, rielaborato o abbreviato. Donato, spesso citato da Servio (48 volte) per metterne in evidenza gli errori, viene citato implicitamente molte più volte. Il commento di Donato non è stato tramandato, ma secondo alcuni sarebbe possibile individuarlo in una versione allargata del commento di Servio che prende il nome di Servio Danielino.
          Donato è un celebre grammatico, probabilmente di origine africana, attivò a Roma come insegnante intorno alla metà del IV secolo (una generazione prima di Servio). Fu maestro di Girolamo e Rufino che frequentarono la sua scuola da pueri (363 d.C.). Girolamo dice che a scuola di usavano i commenti di Donato sia a Virgilio che a Terenzio. Il periodo è quello di Giuliano l’Apostata, prima degli scontri veementi con i cristiani, prima della querelle tra Ambrogio e Simmaco. Donato si riferisce a riti pagani col tempo presente, Servio col passato.
        Donato ha scritto un’Ars Grammatica, opera di grande successo anche nel Medioevo, divisa in ars minor e ars maior. Come testimonia Girolamo scrisse anche due commenti. Il commento a Terenzio ci è giunto, quello a Virgilio è andato perduto e ci è rimasta solo la lettera prefatoria indirizzata a Lucio Munazio e la vita di Virgilio. La vita di Virgilio faceva riferimento al de poetis di Svetonio.
         Per quanto riguarda la questione di Danielino, molti ritengono che quella versione restituisca in parte il commento di Elio Donato. Il commento di Elio Donato era variorum, cioè metteva insieme commenti ed estratti da autori precedenti. Per ogni passaggio offriva le diverse interpretazioni degli autori e poi dava la sua verità: era una sorta di puzzle formato da interpretazioni provenienti dalla tradizione precedente (elemento che rende difficile l’operazione di chi vuole confrontare Elio Donato e Servio perché Donato riportava opinioni altrui contrarie tra loro).
          L’ordine di esposizione di Elio Donato è il seguente: epistola a Munazio, vita di Virgilio, prefazione al commento delle Bucoliche, commento alle Bucoliche, Georgiche ed Eneide. È certo che il commento di Donato fosse più ampio e corposo rispetto al già ampio commento di Servio.
         Il commento di Servio è tramandato da molti manoscritti. Nel 1600, Pier Daniel, editore umanista francese, ha pubblicato una versione espansa. Questo testo era stato individuato in manoscritti del IX-X secolo a Flory. Si aprì così la questione del Servio espanso (detto anche auctus). Daniel sosteneva che il Servio auctus fosse quello autentico. La questione serviana (zur servisfrage) ancora è aperta. Il problema viene discusso dalla fine dell’800, quando due studiosi, indipendentemente tra di loro, Emile Thomàs e Gheorg Thilo, arrivarono alla stessa conclusione: il Servius aucuts è una compilazione successiva che univa il Servio tradizionale ad un commentus variorum. Thilo localizza anche il luogo in cui avvenne l’assemblamento, cioè la Francia del Nord o la Gran Bretagna.
         Gli studiosi dell’inizio del 900 si focalizzano sulle fonti servite per questa compilazione. Gli studiosi pensano che il materiale aggiuntivo provenga da un’unica fonte e che la fonte comune fosse anteriore a Servio (cioè più antica), da cui proveniva almeno il grosso del materiale aggiuntivo. Doveva provenire dal commento di Elio Donato. Chi postulò quest’idea fu Rand (1916): è davvero perduto il commento di Elio Donato? Rand diede vita al progetto della nuova edizione di Servio, Editio Harvardiana, che ad oggi non è completa, ma si fondava sull’idea che il Servius auctus si basasse sul perduto commento di Elio Donato. L’ipotesi è stata supportata da Savage (1931). David Daintree si riferisce al commento di Donato con due etichette: black hole o eminence grise.
       Per quanto riguarda la compilazione, è un dato condiviso che il lavoro sia stato effettuato in ambiente insulare da un monaco irlandese tra VII e VIII secolo. Quest’ipotesi è di Thilo ed è normalmente condivisa. Ci sono comunque pareri discordanti. Si deve ricordare che molti monaci irlandesi si trovavano a operare nel continente. In questo caso si è pensato che il Servius auctus sia un prodotto medievale. Dalla scrittura anglosassone a quella carolingia, infatti, potevano verificarsi determinati errori.
       Il nucleo di partenza della compilazione era ovviamente il commento di Servio. Quindi abbiamo tre testi: Servio, aggiunte, Servio ampliato. A questo punto o il compilatore trovò un commento completo, oppure aveva delle note marginali di un manoscritto e le ha integrate. Le aggiunte danieline contengono rimandi interni che presuppongono un ordine B-G-E, mentre il commento segue l’ordine E-B-G. Poi l’idea che le aggiunte danieline provengono da Elio Donato nella sua semplicità non può essere accettata, ma l’idea che nelle aggiunte danieline almeno in parte si ritrova l’insegnamento di Elio Donato è plausibile anche se non pienamente dimostrabile.
         Proviamo a passare dalla letteratura, rappresentata dall’Eneide, alla filosofia, che in Occidente nasce nella Grecia antica. I più influenti filosofi greci nella storia del pensiero successivo sono stati Platone e Aristotele, le cui opere sono state tramandate per giungere fino ad oggi da molti manoscritti medioevali: Platone ne ha 260, un quarto di quelli di Aristotele. In realtà ciò che si studia ai licei di questi due grandi filosofi non è quello che hanno scritto o detto ma quanto i critici hanno ricostruito. Le opere dei filosofi antichi hanno notevoli problemi linguistici, testuali e di interpretazione. Non sappiamo con esattezza cosa per Platone significasse il termine Idea, i critici danno interpretazioni diversissime. Non sappiamo con esattezza cosa per Aristotele significasse la parola greca ousia: sostanza? O cosa per Platone significasse il termine Idea, i critici danno interpretazioni diversissime.
           C’è poi tutta la questione relativa a perché Platone esponesse la filosofia mediante dei dialoghi. Per imitare Socrate, che dialogava con i suoi interlocutori,  quindi il dialogo è la forma scelta da Platone per esprimere le proprie tesi senza troppa attenzione allo stile (Shorey, Cherniss, Brisson, Pradeau). Perché il dialogo si presta a mostrare bene le argomentazioni volte alla dimostrazione della tesi (Owen, Vlastos). Per stimolare il lettore a porsi domande in prima persona (Gill). Per la Scuola di Tubinga Platone non ha messo per iscritto le sue dottrine fondamentali, in greco ta meghista, “le cose somme” (come diceva lo stesso Platone nella Lettera VII, sulla quale c’è un dibattito relativo all’autenticità, che sembra essersi risolto però a suo favore per Pasquali, Isnardi Parente, e altri). Platone in un famoso brano (Fedro 276 b – 277 a) faceva dire a Socrate che la scrittura si fa per gioco, mentre le cose serie avvengono oralmente, con la dialettica.
        Secondo il filologo classico inglese Havelock, la civiltà della scrittura è nata in Occidente con Platone. Questo filologo scriveva che per capire la critica di Platone nei confronti della poesia bisogna pensare al ruolo della poesia nel mondo greco arcaico. Se oggi diciamo che la poesia non contiene la verità, lo possiamo capire; ma se oggi diciamo che la poesia è un danno per la società, non ci risulta chiaro. Per il mondo greco arcaico la poesia non era solo una forma di performance, ma costituiva tutto il sapere. Ogni nozione sociale, tecnica, geografica e altro veniva trasmessa tramite la poesia: mancando di un sistema di comunicazione scritta, i greci antichi si affidavano al metro e al ritmo del verso greco, unica modalità per trasmettere durevolmente quelle informazioni in quanto le risorse metriche facilitavano il ricordo. La poesia inoltre forniva quel sapere imitando le gesta degli eroi e non in maniera astratta e sistematica: era così più facile apprendere per quel pubblico che non mediante lezioni astratte, però quel sapere così “pratico” era irto di contraddizioni. A questo punto, per Havelock, la poesia greca, mancando di coerenza discorsiva e di sapere concettuale, non era più adatta ai tempi che correvano, quindi Platone, scrivendo le sue opere, si fece portavoce di un nuovo atteggiamento culturale, tanto che esso vinse, ponendo Platone agli inizi della civiltà della scrittura. Sempre secondo Havelock, mentre la poesia delle gesta eroiche si basava su azioni, su una sintassi narrativa (su forme verbali dell’agire, del fare, del divenire, legate al tempo passato, presente, futuro), invece Platone aveva una sintassi logica, basata sulla riflessione, imperniata sul verbo essere come presente metastorico. La poesia richiamava il divenire e il molteplice, invece Platone l’essere. Quindi, almeno all’origine, l’opposizione filosofica tra divenire e essere non nasce da esigenze metafisiche, ma dalla opposizione tra sintassi narrativa e sintassi logica.
         Si tratta di una tesi, quella di Havelock, poi rivista e ampliata, quando non rifiutata categoricamente. Per Cambiano nella società greca di Platone c’era tutt’altra concezione dell’arte rispetto a noi. Nel mondo moderno si esaltano le arti belle e le belle poesie, ma per Platone queste sono illusorie, invece ciò che veramente era degno di considerazione, era la tecnica produttiva.
          In ogni modo i Dialoghi platonici sono scritti in ottimo attico. Invece le opere aristoteliche sono scritte in koiné e in una forma essenziale, icastica, povera lessicalmente, non sfarzosa (forse perché quasi tutte le opere di Aristotele a noi giunte sono dispense interne alla sua scuola non destinate alla pubblicazione). Scrive Ferrari: “Gli scritti aristotelici e in particolare quelli scientifici sono tutti percorsi da una riluttanza di stile, da una mal dissimulata avversione che ha per oggetto le immagini, le metafore, le personificazioni”. Al contrario di Platone, dove le immagini rivestono un ruolo chiave, e questo accosta i dialoghi platonici alle Upaniṣad vediche, che non sono trattati di filosofia ma la trasposizione in immagini di una esperienza vissuta.
           Il celebre dialogo platonico Simposio condensa il teatro greco, comico e tragico. Per Wilamowitz il Simposio è la commedia che completa la tragedia del Fedone. Sheffield accosta il Simposio al dramma satiresco, mentre già Aristotele accosta i dialoghi platonici ai mimi di Sofrone e Senarco. Per Platone, si pensa addirittura che l’insegnamento più importante da lui impartito fosse orale: e la Scuola di Tubinga cerca di ricostruirlo. I filologi inoltre si interessano in qualche modo anche alle opere perdute dei grandi filosofi dell’antichità. Per esempio, i critici trattano spesso i versi che Aristotele scrisse in onore del suo amico e protettore Ermia, tiranno di Atarneo. Questi versi sono tramandati da tre fonti diverse e gli studiosi li hanno analizzati sotto tutti gli aspetti. E che dire poi del dibattito sulla esistenza o meno di Socrate, che nulla ha lasciato di scritto di suo pugno?
           Per comprendere pienamente un testo della filosofia greca antica occorre capire compiutamente il greco antico, ma noi lo conosciamo non direttamente bensì mediante le ricostruzioni fatte dai filologi. Questo ingenera ulteriori dubbi nella interpretazione e nella comprensione dei testi antichi. Per esempio, l’aspetto verbale è solo una ipotesi, ci sono dati che la contraddicono. Per capire pienamente un testo in prosa scritto in greco antico occorre conoscere le particelle, ma i grandi lavori di Denniston e di Duhoux sull’uso delle particelle in greco classico non danno conclusioni perfette. Parrebbe che Aristotele usi più particelle di Platone e del dramma antico. Platone usa le particelle in maniera molto varia, così come Aristofane e i tragici.
           Non bisogna dimenticare, inoltre, che la società è diversa da quella degli antichi o dei pensatori medioevali, e così via. Bisogna sempre collocare un testo, per ben interpretarlo, nel contesto biografico, storico, culturale. Non basta la lingua, ma è necessario anche l’aspetto extratestuale. Non possiamo comprendere la sfarzosità artistica, letteraria e filosofica del Seicento barocco senza capire quell’epoca dal punto di vista storico. Quelle metafore e quei pensieri arditi (per esempio uno scrittore barocco arrivava a lodare i pidocchi sulla testa della sua amata), nascono da una profonda crisi dei fondamenti ante litteram. Il mondo stava cambiando, le certezze di prima erano sul punto di cedere, era stata scoperta l’America, stava crollando per opera delle osservazioni il sistema copernicano, e così via. Allora il barocco esprimeva l’esigenza di esorcizzare quella crisi mediante immagini sfarzose e pensieri arditi. La forma esasperata come compensazione del vuoto dei valori. Allo stesso modo una immagine di Platone può risultare incomprensibile senza alcuni dati contestuali. Ad esempio, nell’Eutidemo (294 e 2-3) Platone parla di una danzatrice che balla su una ruota: si era creduto che fosse una comune ruota, poi si è scoperto che è la ruota di un vasaio. Certamente, per capire bene questa immagine usata da Platone, Gifford ha fatto ricorso nel 1905 a Senofonte (Simposio 7, 3), ma è importante anche una evidenza ceramografica, cioè uno skyphos del IV secolo trovato a Paestum in cui è raffigurata una danzatrice sul tornio.
           I critici si scontrano anche sullo statuto della filosofia greca. Secondo Colli i presocratici non erano filosofi, ma sapienti greci: la filosofia greca nasce con Socrate. Secondo Vernant la filosofia greca nasce grazie a quella forma particolare di logos permessa dalla democrazia: “Il sistema della polis implica innanzitutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti di potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza (nelle assemblee democratiche) … il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l’argomentazione …”. Così il logos prende coscienza di sé stesso e, dalla discussione politica, si trasforma in discussione e argomentazione filosofica.
           Fino a poco tempo fa era invalsa l’idea che la filosofia greca si sia emancipata dal pensiero mitico tramite il ragionamento. Certamente c’è del vero in questa tesi ma non è completamente accettabile. Se, infatti, diamo per buono che i presocratici siano filosofi, da Eraclito “per la prima volta vengono intuite le verità ultime del misticismo” (Colli), quindi ha poco di razionale nel senso moderno; se, invece, parliamo di ciò che viene dopo, né Platone né Aristotele si sono evoluti del tutto dal mito.
           Si fa ricondurre la filosofia discorsiva a Parmenide, ma Parmenide inizia un discorso filosofico intriso di mito. Infatti nel proemio del suo poema, si trova scritto: “O giovane, guidato da fanciulle immortali, che sei venuto alla nostra casa portato dalle cavalle, benvenuto! Non è stato un cattivo destino ad averti mandato per questo cammino (perché in verità è al di fuori del sentiero degli uomini), ma la legge divina e la giustizia”. I riferimenti sono chiaramente iniziatici. Parmenide apre il suo discorso secondo l’orizzonte dei Misteri, quindi del patrimonio mitico, e non della nuda ragione discorsiva dell’uomo, pur presente nella sua opera. È significativo anche: “giacché in verità è al di fuori del sentiero degli uomini”, in greco ē gar ap’anthrōpōn ektos patou estin. Ai Misteri greci si accedeva da giovani, quale è detto essere Parmenide. Il termine sunaoros, “guidato da”, non significa solo questo, ma “associato”, “compagno”, quindi allude alla fratellanza iniziatica.
           Tutti abbiamo sentito del mito della caverna di Platone. La caverna allude al mondo terreno, è una immagine presente altresì in una dottrina simile di Empedocle. Si tratterebbe di idee orfiche, quindi mitiche: l’orfismo è stato fondamentale per tutta la filosofia greca. Almeno fino all’ellenismo e al periodo tardo-antico il mondo greco conosceva il rito dell’Aion: il 6 gennaio si praticava uno strano rituale nel quale si celebrava la nascita di Aion da una vergine Kore. Ci informa di questo rituale celebrato ad Alessandria d’Egitto l’apologeta cristiano Epifanio (IV secolo) ma anche Cosma di Gerusalemme (VIII secolo). Epifanio aggiunge che un rito identico veniva praticato anche a Petra e a Elousa, quindi era molto diffuso. Un particolare presente sia in Epifanio sia in Cosma è che Aion nasce in un “luogo impenetrabile” (temenos, aduton), che corrisponde in maniera impressionante alla simbologia della caverna cosmica nei racconti natalizi sul dio Mithra.
           Forse il dialogo platonico in cui il pensiero mitico e simbolico-tradizionale è più evidente è il Timeo, che poi occupa un posto di rilievo nel platonismo. Si tratta di un testo molto difficile e quindi oggetto di molteplici interpretazioni, combattuto da Aristotele, ripreso e rivissuto dagli stoici, e che dal tardo ellenismo dovette esercitare un’influenza notevole, anche presso i non platonici. Si pensava che il Timeo fosse la porta d’accesso al vero platonismo. Fronterotta rileva come nel Timeo ci sia un bilancio rigoroso e un quadro esemplare dell’ontologia platonica e delle sue difficoltà. Per Fronterotta, nel Timeo Platone sembra ritenere che i paradossi suscitati dalla sua dottrina possano essere risolti esclusivamente attraverso il ricorso al mito.
        Tra i commenti al Timeo spetta un posto particolare quello di Calcidio, filosofo romano del IV secolo d. C., neoplatonico e cristiano. Il suo commento è la porta fondamentale per la conoscenza di Platone per tutto il Medioevo. Calcidio si era rifatto alle interpretazioni del peripatetico Adrasto di Afrodisia, del II secolo d. C.
         Il commento di Calcidio viene definito “insolito” per almeno due motivi: perché Calcidio è un cristiano che nel commentare il Timeo si rivolge ai cristiani e perché la chiave ermeneutica mediante la quale viene spiegato il testo platonico non è quella dell’epoca, cioè il neoplatonismo, bensì il medioplatonismo: anche se il neoplatonismo era posteriore al secondo solo nello sviluppo intellettuale ma non nella storia. Calcidio si rifà moltissimo all’Antico Testamento e non alla letteratura cristiana, ma questo era normale per i cristiani dell’epoca, che non avvertivano una separazione dottrinaria con i testi sacri ebraici. Per alcuni ci sarebbero indizi per parlare però di un cristianesimo “originale” (non sempre ortodosso) di Calcidio: per esempio, la Genesi dice che Dio immette nell’uomo il soffio vitale, ora Calcidio interpreta questo soffio alla maniera di molti scrittori cristiani, da Tertulliano a Gregorio di Nissa, cioè alla stregua dell’anima razionale di cui parlava Platone, però Calcidio afferma che la vita dell’uomo è stata presa da Dio dalla volta del cielo (ex conversis … caelestibus: cap. 55). Si tratterebbe di una dottrina aristotelico-stoica e non cristiana: infatti, la vita non consisterebbe nel soffio ispirato da Dio, come invece vuole la Genesi e come dicono di solito i cristiani, ma sarebbe stata inserita nell’uomo da Dio “mediante il soffio”.
           Le opere filosofiche sono prima di tutto punti di domanda. La vera filosofia non dà risposte ma spinge il lettore a chiedersi qualche cosa. Questo per varie ragioni: inerenti lo statuto della filosofia, la cripticità di certi filosofi, i problemi di trasmissione del testo. Ricordiamo che i testi antichi sono trasmessi da manoscritti, che potevano avere errori, non solo, ma hanno a volte un testo differente: dal loro confronto i filologi cercano di risalire a quello autentico. Nel Menesseno di Platone (245 a7-b2) i manoscritti presentano la lezione Pariōn epolemei, quindi Platone si riferirebbe a un episodio militare compiuto dagli abitanti di Paro ma che non risulta altrove, pertanto i critici, data l’inesistenza di questa campagna militare, presumono che qui si tratti di un errore dei codici. Molti filologi allora hanno cercato di correggere questo testo. Alcuni con altri popoli, come Argeiōn (Hermann), Korinthiōn (Stallbaum). Altri con espressioni generiche, come pantōn (Berndt). Però Wilamowitz era a favore della lezione dei codici in quanto Isocrate nell’Eginetico (18) allude a una spedizione a Paro, episodio marginale nella guerra di Corinto, ma Platone l’avrebbe citata come evento decisivo per ottenere un effetto comico. E così via.
           Eraclito era detto l’Oscuro, con le sue proposizioni ambigue cercava di imitare l’oracolo di Delfi. Egli appartiene ancora alla cultura greca orale e quindi usa giochi di parole (specie assonanze) per esprimere determinati significati. Nel fr. 25 è scritto: “Maggiori morti (moroi) ottengono maggiori sorti (moiras)”: Eraclito sta facendo un gioco finissimo, e ambiguo nel quale due parole sono considerate simili e dissimili allo stesso tempo. A distanza di millenni lo stesso appellativo di Oscuro è stato dato a Hegel, del quale si è detto che nessun lettore ha mai capito del tutto una sola pagina della sua opera. Quindi i critici interpretano in maniera diversissima i filosofi. I frammenti dei presocratici poi, essendo svincolati dal contesto in quanto frammenti, offrono la possibilità a tutti di far dire loro le cose più diverse. Nietzsche scriveva in uno stile aforistico, simile a dei frammenti, e i critici si chiedono ancora oggi cosa abbia voluto realmente dire. Per esempio, come può un filosofo, che in quanto tale si prefigge uno scopo razionale, predicare il naufragio della ragione? Allora cosa sta dicendo?  Inoltre, più il pensiero è complesso e profondo, più è contraddittorio, esattamente come avviene altresì in Foucault e in Cioran.
          Aristotele presenta numerose contraddizioni nella sua opera, che i critici spiegano in diversi modi: certamente una parte dipende dal pensiero sofisticato dello Stagirita, ma anche dalla sua evoluzione nel tempo, dalla trasmissione dei suoi scritti ad opera della sua scuola, oppure da errori nei manoscritti. In Metafisica (XII, 1, 1069 a 22) oltre alla sostanza ci sono solo qualità e movimenti (e non tutte le altre categorie): allà poiotetes kai kineseis. Come mai? Jaeger emenda allà e lo sostituisce con oion, “per esempio”, per eliminare l’evidentissima contraddizione con le Categorie.
            Un altro esempio. Il passo più controverso del Libro X della Metafisica è questo: “Poiché i contrari sono diversi per specie e poiché il corruttibile e l’incorruttibile sono contrari (infatti la privazione è una determinata impotenza), il corruttibile e l’incorruttibile sono necessariamente diversi per specie”, ma nei manoscritti però abbiamo genei, “per genere” (1058 b 26-29). Si pongono per questo passo tre problemi: uno testuale (incertezza che nasce dall’uso del termine genere in questo contesto: date le premesse Aristotele avrebbe dovuto usare “per specie”); uno interpretativo (sembra che nel passo Aristotele faccia un sillogismo, ma è imperfetto); uno relativo all’inserimento di questo capitolo 10 alla fine del Libro X. Elders e Schmitz hanno proposto che questo finale sia un aggiunta posteriore, forse neppure attribuibile a Aristotele. La traduzione che abbiamo riportato è di Reale, che cerca così di risolvere il problema “per genere”.
          Giordano Bruno è stato un pensatore rinascimentale rivoluzionario, fautore di una esperienza intellettuale tra le più inquietanti dell’epoca moderna. Di solito i critici valorizzano un solo aspetto della sua ricerca, come ha fatto Yates, che esaltava il lato di mago “ermetico”, in realtà Bruno contempla molti aspetti. Ciliberto così sintetizza il sogno ultimo di Bruno: “Risalire alle radici alla ‘giovinezza’; restaurare l’infinita pluralità dei linguaggi della vita; ricostituire la comunicazione tra Dio, uomo, natura, dopo la crisi, la separazione, la ‘vecchiaia’ “.
            Anche Kant è stato studiato moltissimo. Cassirer rilevava come il pensiero di Kant non si spiega solamente entro la storia della filosofia ma anche entro la sua biografia. “Qui vige un peculiare rapporto reciproco in cui ciascuno dei due momenti agenti l’uno sull’altro appare ad un tempo come determinante e determinato”. Di Kant sono stati studiati anche i filosofi che lo hanno ispirato e in qualche modo e in quale misura: Leibniz, Wolff, Hume, Rousseau. In un famoso saggio Hohenegger cerca di interpretare il concetto kantiano di “architettonica”. È la scienza del metodo? È l’edificio della filosofia? Per Hohenegger, mentre secondo Leibniz i principi logici che dettano la ricerca non sono distinguibili da quelli meccanicistici di spiegazione, invece per Kant i principi non sono tutti uguali. Insomma, su queste tematiche si è scritto moltissimo.
           Sulla falsariga di Cassirer possiamo dire che la filosofia si pone in equilibrio sia su un contesto storico e biografico sia sulle idee universali espresse nella storia della filosofia. Nelle Leggi (694 a – 695 b) Platone fa un excursus sulla monarchia persiana dove idealizza l’ethos del re persiano Ciro. Questo è un chiaro esempio dal quale si comprende come un tema di un grande filosofo sia stato influenzato direttamente dal contesto storico. Infatti, il logos erodoteo di Ciro e la stessa conclusione delle Storie con il discorso esemplare del re persiano si pongono verosimilmente all’origine della valorizzazione di Ciro nel pensiero politico del IV secolo a. C. e della stessa fortuna del personaggio erodoteo nella tradizione socratica attestata nel Ciro di Antistene, nella Ciropedia di Senofonte e nel brano delle Leggi di Platone che abbiamo richiamato.
          Platone era figlio del suo tempo, quindi oltre ad avere idee innovative si rifaceva alla tradizione precedente, anche letteraria. Nel Protagora (338 e 6-347 b 2) Platone offre il primo esempio completo di esegesi testuale che ci tramanda la letteratura greca: Platone fa una discussione esegetica sull’Encomio a Scopas di Simonide.
           La filosofia occidentale nasce con il dubbio in quanto Socrate non diceva di insegnare verità ma di sapere una sola cosa, cioè di non sapere. Gli scettici portarono alle estreme conseguenze questa visione, che poi coincide con il tipico approccio orientale. Infatti, nei Sei versi del vajra, sintesi del Dzog-chen, è scritto:

“La natura delle diverse cose non è duale
Ma ciascuna, nel suo stato, è al di là dei limiti della mente
Non c’è concetto relativo alla condizione così come è
Ma la visione si manifesta: Tutto è bene
Tutto è già compiuto, perciò, superata la malattia dello sforzo
Ci si trova nello stato autoperfezionato: Questa è la contemplazione”.

          La sapienza cinese insegna che il Tao ha un nome vero che però non è conosciuto dagli uomini. Gli uomini giocano soltanto con le parole e quindi con i concetti da esse prodotti. La vera conoscenza, a detta della sapienza orientale, non è basata sui concetti razionali, ma sulla intuizione, sul simbolo, sull’amore.
          Si corre il rischio di cadere nel pozzo se si filosofeggia sulle stelle, come fece Talete. Aristotele ammetteva però che “Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa (la metafisica), ma nessuna le è superiore” (Metafisica I, 2 982 b). Questo perché, secondo noi, studiando i concetti razionali la ragione da essi si libera spontaneamente e accede alla visione intuitiva del Tutto.  Allora la parola, tanto osteggiata come illusoria, è però la via che apre la porta: una volta introdotti, la parola va alla fine abbandonata.

Marco Calzoli


Altre Riflessioni Filosofiche

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 36 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.


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