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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 23-04-2012, 13.43.21   #11
CVC
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Originalmente inviato da il Seve
Tralascio il tema generale del rapporto tra essere e divenire dato che c’è gia un thread apposito e perché se n’è discusso ampiamente in vari luoghi del forum, coinvolgendo talvolta anche la prospettiva severiniana. Per le stesse ragioni escludo una trattazione del tema della verità ad un livello fondamentale, cercando di attenermi strettamente alla richiesta enunciata nel titolo della discussione, in riferimento alla filosofia di Emanuele Severino.

In un contesto di ricostruzione storica, per Severino la filosofia nasce come ricerca di un sapere più rigoroso del mito, per salvare l’uomo dalla morte, dal dolore, dalle malattie, ecc. Tra verità filosofica e salvezza si configura dunque un rapporto che vede la verità come strumento (farmaco, rimedio) e la salvezza come scopo. Ma come nel mito accade che l’uomo voglia salvarsi servendosi del divino e finisca invece per servirlo, così nella filosofia accade che per potersi servire di una verità efficace, l’uomo subordini la propria vita alla ricerca di una verità che invece a sua volta non sia subordinata a nulla. Per i Greci non era un’idea balzana che il fine della vita fosse la contemplazione della verità, perché, lungi dal credere che la contemplazione fosse una sorta di perenne stato di maniacale fissazione mentale su qualcosa, per i Greci era il compimento di quel lungo e laborioso percorso di salvezza, conseguito il quale all’uomo non rimane altro da fare perché appunto il lavoro è compiuto e lo scopo della vita è stato raggiunto. Una specie di nirvana, con tutte le precauzioni del caso. La nascita dell’etica non è altro che l’esito di questa subordinazione del divenire dell’uomo alla verità dell’eterno, perché è con questa subordinazione che si esplicita concretamente un’euprassia, una buona condotta, un “lavoro” che porti l’uomo a “compimento”. Se il divenire dell’uomo non fosse subordinato alla verità dell’eterno, non ci sarebbe nessuna etica, perché sarebbe l’uomo lo scopo, e di conseguenza sarebbe la verità a “lavorare” per lui.

Attraverso le epoche, ma più decisivamente negli ultimi due secoli, l’uomo si rende conto che credere ad una verità eterna porti a rendere apparente la verità del divenire, e quindi vanifichi il dato fondamentale della mutevolezza della vita che è il fondamento sul quale nasce la stessa ricerca della verità. A livello pratico, ci si rende conto allo stesso modo che la società che ha eretto delle strutture immutabili per organizzarsi meglio in vista della soluzione dei suoi problemi, è destinata a rendere immutabili i problemi che ha per non risolverli mai. Da queste aporie si fanno avanti i complessi e dolorosi ripensamenti che portano ad una conoscenza di tipo ipotetico che sia perennemente revisionabile ed adattabile alle esigenze del momento, e ad una gestione sociale di tipo democratico per limitare il più possibile le ragioni di disparità conflittuale derivanti da ideologie aprioristiche.

L’uomo cerca di “rimediare” al divenire, ma il rimedio si rivela peggiore del male, come diceva Nietzsche. Da qui l’idea innanzitutto appunto nietzscheana dell’accettazione del divenire, dell’imprevedibile, del possibile, dell’ipotetico, del revisionabile, come la dimensione umana più propria. Il superuomo non è l’uomo nuovo dei totalitarismi perché quest’ultimo non è altro che l’apoteosi dell’uomo vecchio che crede alle proprie virtù in quanto le vede inscritte in un ordine immutabile della razza, del popolo, della tradizione, ecc. Il superuomo invece non è altro che l’uomo del divenire, del possibile, ecc. ecc.

Per Severino era necessario che sulla base del dato fondamentale del divenire si edificasse la ricerca della verità eterna, e che, sempre per rimanere fedeli a quel dato fondamentale, venisse portata alla luce l’incompatibilità tra il divenire e la verità eterna, conducendo al tramonto quest’ultima. Ma per Severino non è affatto scontato che quel dato fondamentale dell’esistenza del divenire sia così evidente e indiscutibile, così come non è affatto pacifico che la libertà esista e sia poi l’essenza dell’uomo. Ma questa è un’altra storia…



La filosofia che crede all’esistenza del divenire e che su questa premessa affonda il valore assoluto di ogni verità eterna, non è scettica perché l’unica verità che non affonda è proprio l’esistenza del divenire. La filosofia di Giovanni Gentile, ad esempio, è tutta costruita intorno al senso da assegnare all’assolutezza del divenire in un contesto in cui tramontano le verità eterne. Infatti l’eterno per Gentile è qualcosa che per definizione ci si sottrae perché siamo un divenire, e quindi, come perenne altrove, si configura come astrazione, proiezione, insensatezza da un punto di vista reale. Solo il divenire è assoluto perché non è condizionato da nulla, ed è eterno, ma nel senso di un eternità sempre prodotta da sé.



Ma quest’idea di incremento della verità non è l’idea della tradizione, ed è quest’ultima ad essere peggiore del male.
Per Severino è centrale il concetto del senso greco del divenire, usato come pietra di paragone del pensiero filosofico. In tale ottica la saggezza idealizzata degli antichi, ponendosi al di sopra del divenire renderebbe irreale il reale. Se ho capito bene però, dice questo nell'interpretazione della storia del pensiero filosofico. Nel suo proprio pensiero invece, Severino mi pare rigetti il concetto greco del divenire ed affermi invece l'eternità degli essenti.
Chiedo conferma di questo o se ho frainteso in questo tentativo di comprendere.
Grazie
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Vecchio 23-04-2012, 20.16.50   #12
Aggressor
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Hai capito benissimo CVC, secondo Severino l'Essere si realizza nella totalità degli esseri, quelli passati presenti e futuri. La condizione di essere inglobati in questa totalità e di doverla conoscere conduce il nostro campo visivo ad una comprensione parziale di quest'essere e così a noi appare nel divenire.

Di qui la grande riflessione che scardina il nichilismo (io credo sia una delle più importanti proposte di Severino) secondo cui la percezione del divenire ci fa credere di poter davvero morire, di cadere nel nulla, perché il divenire è di solito accostato ad una discesa degli esseri nel nulla e a un loro apparire dal nulla, cosa impensabile a rigor di logica.


L'unica cosa che non condivido della sua metafisica è credere che questa totalità sia per sé esistente, mentre io credo che qualcosa possa esistere solo nella relazione con l'altro, cosa che l'unicità dell'essere non permetterebbe. Di qui per me si necessita la nostre condizione, per il fatto che l'essere stesso per realizzarsi ha bisogno del divenire (che non intendo certo come una salita e discesa dal/nel nulla...). Altrimenti mi sembrerebbe del tutto contingente la notra presenza, l'essere potrebbe rimanere come stà e fine dei giochi.

Cosa me ne faccio della conoscenza se per averla devo vivere male?
Quello che ci interessa dovrebbe essere ciò che vi è di utile nella conoscenza, ossia la saggezza.


Quoto

La grande insesatezza della corsa alla tecnica senza etica, quello che sta distruggendo l'uomo.
Aggressor is offline  
Vecchio 23-04-2012, 21.49.46   #13
paul11
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CVC
Nel suo proprio pensiero invece, Severino mi pare rigetti il concetto greco del divenire ed affermi invece l'eternità degli essenti.
Chiedo conferma di questo o se ho frainteso in questo tentativo di comprendere


Come ha anche scritto Aggressor,
sì, perchè se il divenire entra ed esce nel nulla non ha senso con l'essere.
O esiste il divenire o esiste l'eternità.
Se il divenire non è dato da attimi eterni dove l'ente diventa essenti, significa che il divenire porta con sè sofferenza, perchè si sceglie attimi che spariranno anche dal nostro essere per lasciar posto al rimpianto: per la giovinezza ,per volti mai più rivisti, per l'amore perduto,ecc. Per questo la scelta, negli infiniti crocicchi che la vita ci riserva, porta con sè sofferenza. "Come saremmo ora se avessimo fatto altre scelte a suo tempo"? Domande come queste portano inquietudine.

CVC dice una cosa giusta, a mio parere, nel post iniziale implicitamente.
Come fare ad essere "felici" nella precarietà della vita e senza rimpianti. In fondo la saggezza è serenità; il sapere i nostri limiti del fino a quale punto possiamo fare e il dover accettare quello che non possiamo "forzare".
La via della conoscenza alza questo limite del poter fare aprendo nuovi scenari. Quindi la ritengo positiva comunque.
Ma rimane la domanda fondamentale: porta tutto questo alla felicità?
Anche le teorie di Severino che ha il grande pregio di far riflettere sui paradigmi della nostra società se non entrano davvero nell'essere , diventano puro intellatualismo che non consolano l'inquietudine del vivere.
Davvero il cordone ombelicale del divenire costituito da attimi eterni, dall'esistere, sono nell'essere? Se questo concetto non è "dentro di me" e non mi consola, non è utile, non placa la mia sofferenza nel divenire della finitezza, non diventa rimedio all'esistenza.
Quì per me sta il vero problema.
paul11 is offline  
Vecchio 24-04-2012, 11.40.47   #14
CVC
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Originalmente inviato da paul11
CVC
Nel suo proprio pensiero invece, Severino mi pare rigetti il concetto greco del divenire ed affermi invece l'eternità degli essenti.
Chiedo conferma di questo o se ho frainteso in questo tentativo di comprendere


Come ha anche scritto Aggressor,
sì, perchè se il divenire entra ed esce nel nulla non ha senso con l'essere.
O esiste il divenire o esiste l'eternità.
Se il divenire non è dato da attimi eterni dove l'ente diventa essenti, significa che il divenire porta con sè sofferenza, perchè si sceglie attimi che spariranno anche dal nostro essere per lasciar posto al rimpianto: per la giovinezza ,per volti mai più rivisti, per l'amore perduto,ecc. Per questo la scelta, negli infiniti crocicchi che la vita ci riserva, porta con sè sofferenza. "Come saremmo ora se avessimo fatto altre scelte a suo tempo"? Domande come queste portano inquietudine.

CVC dice una cosa giusta, a mio parere, nel post iniziale implicitamente.
Come fare ad essere "felici" nella precarietà della vita e senza rimpianti. In fondo la saggezza è serenità; il sapere i nostri limiti del fino a quale punto possiamo fare e il dover accettare quello che non possiamo "forzare".
La via della conoscenza alza questo limite del poter fare aprendo nuovi scenari. Quindi la ritengo positiva comunque.
Ma rimane la domanda fondamentale: porta tutto questo alla felicità?
Anche le teorie di Severino che ha il grande pregio di far riflettere sui paradigmi della nostra società se non entrano davvero nell'essere , diventano puro intellatualismo che non consolano l'inquietudine del vivere.
Davvero il cordone ombelicale del divenire costituito da attimi eterni, dall'esistere, sono nell'essere? Se questo concetto non è "dentro di me" e non mi consola, non è utile, non placa la mia sofferenza nel divenire della finitezza, non diventa rimedio all'esistenza.
Quì per me sta il vero problema.
Il problema potrebbe essere nella pretesa dell'uomo di conoscere la realtà incomprensibile all'uomo, ossia l'ignoto. Ma cos'è l'ignoto? Non è forse un concetto creato dall'uomo per descrivere qualcosa che esce dai limiti umani? In una realtà esterna all'uomo non esiste l'ignoto, esiste solo nella concezione umana di ciò che è assieme angosciante e attraente, il senso del nulla, l'attrazione del vuoto. Questo senso di angoscia e desiderio per l'inconoscibilità del divenire è un vero mistero, perchè è un qualcosa di puramente umano, che non esiste cioè al di fuori della realtà-uomo, ma che al contempo è incomprensibile dall'uomo.
E' come se l'uomo avesse in seno un buco nero, un abisso in cui non può guardare senza sentire l'attrazione per quel vuoto ed il rischio di esserne risucchiato, e al contempo non può liberarsi da esso.
Si potrà tenere l'angoscia del divenire al di fuori dell'essere relegandola a puro intellettualismo che non rientra nell'ambito razionale, eppure non possiamo mai liberarci definitivamente di essa che rimane, anche se nell'ombra del non razionale, come chimera a guardia dei limiti dell'ambito del sapere umano.
Ci sarebbe forse da chiedersi se il "conosci te stesso" scritto sul tempio dell'oracolo di Delfi sia un invito alla conoscenza o piuttosto un monito. Nel secondo caso lo si potrebbe interpretare come un mettere in guardia l'uomo dall'avventurarsi oltre i propri limiti. Ciò che ha spinto Socrate a vivere la propria vita come una missione potrebbe rappresentare il rimedio al divenire
CVC is offline  
Vecchio 24-04-2012, 19.26.03   #15
il Seve
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Citazione:
Per Severino è centrale il concetto del senso greco del divenire, usato come pietra di paragone del pensiero filosofico. In tale ottica la saggezza idealizzata degli antichi, ponendosi al di sopra del divenire renderebbe irreale il reale. Se ho capito bene però, dice questo nell'interpretazione della storia del pensiero filosofico. Nel suo proprio pensiero invece, Severino mi pare rigetti il concetto greco del divenire ed affermi invece l'eternità degli essenti.
Chiedo conferma di questo o se ho frainteso in questo tentativo di comprendere.
Grazie

Sì, ma è necessario capire brevemente perché. Il senso greco del divenire è l’uscire e il ritornare nel nulla da parte delle cose. Secondo Severino, alla base di questo senso del tempo c’è l’idea che l’essere sia nulla, perché prima di essere e dopo aver cessato di essere, una cosa non è, è nulla. Il pensiero greco aveva ben presente il problema e vi ha rimediato mediante il principio (alla base del concetto di causa) che dal nulla non può venire nulla (ex nihilo nihil), altrimenti il nulla diverrebbe essere. Ma a sua volta questo principio è un travisamento non meno grave del senso della verità, cioè del valore dell’opposizione tra essere e nulla, perché ritiene che il problema sia la generazione dell’essere dal nulla e non si rende conto che il problema ben più grave del divenire è invece l’identificazione tra essere e nulla (identificazione che non a caso è alla base anche della generazione dell’essere dal nulla). Infatti, il principio dell’ex nihilo nihil, mirando a rimediare il problema della generazione dell’essere dal nulla dicendo che qualcosa (B) si genera sempre da qualcosaltro (A) e mai dal nulla, non si rende conto che prima di generarsi da A, il qualcosa B è nulla. Cioè si riproduce ancora la contraddizione alla base del senso greco del divenire. Attraverso l’ex nihilo nihil, il senso greco del divenire si è potuto conservare come fondamento occulto del modo in cui l’occidente pensa la verità, cioè una verità che pur intendendo risolvere le contraddizioni del senso greco del divenire, ne lascia in realtà sussistere il cuore più intimo, l’autentico cuore di tenebra dell’Occidente. Se è in realtà il senso greco del divenire a risultare il fondamento della verità dell’Occidente, allora è necessario che qualora entri in conflitto con la verità dell’Occidente, sia quest’ultima a dover cedere il passo. Infatti, quando è emerso il senso di una verità eterna che cancella l’imprevedibilità del divenire facendo già preesistere e provenire tutte le cose dall’interno della verità e non dal nulla, l’Occidente ha preferito salvare il divenire ritenendolo più evidente. Cosa che per Severino non è, e mi sembra che se ne sia discusso spesso in altri thread, peraltro equivocando parecchio, ad esempio credendo che per Severino “tutto sia eterno” significhi “tutto sia immobile”…

Citazione:
Originalmente inviato da CVC
Di sicuro l'ignoto fa paura, ma tentare in qualche modo di correre ai ripari di fronte all'ignoto penso faccia parte della natura dell'uomo. Non vedo un grande senso nel rinunciare al proprio bisogno di sicurezza per mantenere l'integrità del reale che poi non è nemmeno sicuro che sia del tutto conoscibile.
Forse l'uomo dovrebbe stare attento a non diventare schiavo della ricerca della realtà, quando alla fine la conoscenza è un mezzo per la vita e non un fine in se stesso.
Cosa me ne faccio della conoscenza se per averla devo vivere male?
Quello che ci interessa dovrebbe essere ciò che vi è di utile nella conoscenza, ossia la saggezza.

Citazione:
Originalmente inviato da paul11
CVC dice una cosa giusta, a mio parere, nel post iniziale implicitamente.
Come fare ad essere "felici" nella precarietà della vita e senza rimpianti. In fondo la saggezza è serenità; il sapere i nostri limiti del fino a quale punto possiamo fare e il dover accettare quello che non possiamo "forzare".
La via della conoscenza alza questo limite del poter fare aprendo nuovi scenari. Quindi la ritengo positiva comunque.
Ma rimane la domanda fondamentale: porta tutto questo alla felicità?
Anche le teorie di Severino che ha il grande pregio di far riflettere sui paradigmi della nostra società se non entrano davvero nell'essere , diventano puro intellatualismo che non consolano l'inquietudine del vivere.
Davvero il cordone ombelicale del divenire costituito da attimi eterni, dall'esistere, sono nell'essere? Se questo concetto non è "dentro di me" e non mi consola, non è utile, non placa la mia sofferenza nel divenire della finitezza, non diventa rimedio all'esistenza.
Quì per me sta il vero problema.

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Originalmente inviato da Aggressor
Il Seve, se dobbiamo sottostare a una filosofia del divenire e se dunque non vi sono verità per l'uomo, non vedo un rimedio dell'uomo all'angoscia del divenire.

In vario modo chiedete quello che era naturale chiedersi:

1. Qual è la condizione dell’uomo dopo il tramonto della verità dell’Occidente? E’ ancora possibile conoscere ed essere felici se l’unico punto fermo è il divenire, un perenne ed imprevedibile cambiamento di scenario fino ai contesti più radicali?

2. Come si rapporta all’uomo l’eternità di tutte le cose affermata da Severino?

Rispondo nella maniera più stringata. Per il primo punto ripeto che la conoscenza non aspira più a certezze ultime diventando un sapere ipotetico in modo che sia sempre disposto al cambiamento, e pragmatico cioè guidato dai bisogni dell’uomo e non dalla verità per la verità. La felicità non è più il raggiungimento di una condizione di compiutezza (qualunque sia questa condizione), ma diventa l’incremento all’infinito delle possibilità di realizzare qualunque condizione da raggiungere. La tecnica (la potenza dell’uomo) non perseguendo più determinati scopi, diventa essa stessa lo scopo supremo di tutti gli scopi. Sia perché di fatto non c’è più alcuno scopo che si imponga per verità e in esclusiva, sia perchè di diritto alla tecnica sono indifferenti gli scopi, e quanto più si emancipa dalla costrizione di servire alcuni scopi per escluderne altri, tanto più diventa potente. E’ per questo che i limiti imposti ad esempio dalla morale e non solo, sono quella forte limitazione della sua potenza che rappresenta il vero pericolo per la sopravvivenza dell’uomo. Fermo rimanendo che l’oltrepassamento della morale va per definizione nella direzione opposta alla regressione della barbarie, degli egoismi, della violenza cieca, ecc.

Per il secondo punto rispondo che se, come accde, perlopiù l’uomo non si pensa in rapporto all’eternità di tutte le cose e al senso severiniano del divenire, gli atteggiamenti che perlopiù l’uomo adotta nei loro confronti, essendo figli del suo modo di pensarsi, non sono appunto in rapporto ad essi. Essenzialmente, l'atteggiamento erroneo fondamentale pensa all’eternità di tutte le cose come a qualcosa che si può volere, ad esempio desiderandola come consolazione, o respingendola come contraria allo spirito vitale. Ma la volontà (ogni volontà e ogni spirito vitale) vuole l’impossibile ed è dunque inesistente, perché tutto esiste già da sempre e nulla si può modificare. Se si pensasse daccapo che un pensiero del genere risulti frustrante, si penserebbe ancora erroneamente, perché la frustrazione è imputabile alla volontà che non ottiene ciò che è impossibile che ottenga, non al pensiero dell'eternità di tutte le cose.

Perlopiù siamo un volume di credenze senza fondamento. Crediamo di essere appunto delle volontà e di poter ottenere talvolta ciò che la volontà vuole. Il contenuto di queste credenze in quanto credenze, è nulla, e dunque una credenza non può mai essere giustificata (anche perché lo iustum facere, la giustificazione, significherebbe l’impossibile di qualcosa che diventa qualcosaltro e quindi si identifica a ciò che non è, secondo appunto quanto vuole il senso greco del divenire). Ma le credenze come credenze non sono nulla, ma esseri (a prescindere che siano mentali, esperienziali, di un terzo regno ideale, o altro). E con questi esseri abbiamo perlopiù a che fare, cercando di risolverne le contraddizioni e preparare il loro tramonto. Nemmeno tutto questo è qualcosa che può volere, anche se perlopiù si crede di poterlo ottenere. Se tutto è eterno, ogni credenza si manifesta per necessità e per necessità (la cui specificità qui sorvolo) è destinata a tramontare.

Concludo precisando che ogni approfondimento del senso della verità e del divenire secondo Severino, qui sarebbe fuori tema, e lo si potrà fare più agevolmente in uno dei numerosi thread aperti che trattano già argomenti cui più si accosta la filosofia del professore bresciano.
il Seve is offline  
Vecchio 24-04-2012, 22.52.18   #16
paul11
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Allora se per arrivare alla verità è necessaria la conoscenza, ciò che genera dolore è l’ignoranza , l’ignoto, il non conosciuto che deve essere svelato .Sono le nostre domande che non trovano soluzioni a generare inquietudine.
Oppure la conoscenza genera essa stessa dolore, perché ci potrebbe svelare una verità sul nostro essere che in realtà è “miserabile”? E allora”beata ignoranza”?
Il nostro percorso storico ,come umanità, ha portato progressi attraverso le scienze , con le scoperte e le invenzioni.; forse la scienza naturale è verità, la tecnica?
Ma il nostro essere è cambiato da Talete di Mileto ad oggi? Oppure viviamo ancora nelle eterne ambiguità, nelle stesse contraddizioni storiche che la determinano e i nostri cicli storici ripongono le stesse domande di sempre: dov’è la verità? Qual è la strada per arrivarvi? Ma c’è davvero una verità?
Di che cosa possiamo in fondo essere assolutamente certi se non che la nostra finitezza ci porta alla morte fisica? O il semplice fatto che esistiamo.Quale altre verità possono essere fondate ed essere eterne ,scevre dalla schiavitù del tempo , del divenire?
Se non c’è risposta non c’è rimedio.
paul11 is offline  
Vecchio 25-04-2012, 15.30.49   #17
il Seve
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Citazione:
Per capire Emanuele Severino bisogna ricordare che egli è un credente.
Mi spiego: egli ha sofferto i limiti di una teologia dogmatica cattolica che non gli “consentiva” di esprimere il suo estro filosofico creativo. Allontanato dalla chiesa cattolica ha manifestato la sua fede in termini puramente razionali, senza riferimenti alle categorie religiose se non in modo critico. Basta leggere Oltrepassare e Gloria per rendersene conto.

Direi che è un estremista della fede: la morte non esiste e siamo destinati alla felicità.
Si sente in filigrana il pensiero di Origene e la sua apocatastasi.
Gloria è anche una categoria biblica pregnante e non ha voluto rinunciarvi, pur ”trasfigurandola “
(In un impeto di ottimismo acquistai quasi tutti i suoi libri ma devo dire che la lettura è stata ardua)
Credo che se non si tiene conto di questa cifra il pensiero di Severino diviene ancora più difficile.

In relazione a questo 3d è importante fare riferimento ad Heidegger (Essere e tempo) e alla sua “cura” ma questo forse è una notazione inutile perché l’avevate già considerato …. comunque se qualcuno non l'ha fatto …

No, queste cantonate clamorose non mi sembra che possano semplicemente essere ascritte alle interpretazioni personali, e che si possa soprassedervi. Mi dispiace contraddirti così radicalmente perché leggo con piacere frequente i tuoi post, ma non puoi aver letto proprio il Severino che conosce così diverso anche chi lo ha solo orecchiato.

Severino ha spessissimo chiarito perché ognuno di noi è sempre nella fede nonostante sia ad un livello più profondo la verità e l’eternità di tutte le cose. Quindi anche Severino è un fedele secondo appunto quel senso che qui però lasciamo da parte. Ma non si potrà mai affermare che Severino appartiene nello specifico a quella fede religiosa nella quale pure è cresciuto, dicendo che ha preso la religione (cattolica) e ne ha fatto una versione razionale. Una versione razionale della fede è semplicemente una contraddizione in termini. Nemmeno Hegel si è mai sognato una stupidaggine del genere, nonostante ci sia chi possa credere all’anima protestante della sua filosofia. Sono letture fuorvianti anche quelle molto diffuse che accostano Severino a Heidegger (due filosofie che non possono essere più agli antipodi), o peggio ancora a Origène perché entrambi affermerebbero un’apocatastasi finale (cosa che in Severino assolutamente non c’è e invito a segnalarmi i passi precisi dove se ne parli). In tutti questi casi si prende qualcosa che assomiglia a qualcosaltro e si dice che è la stessa cosa, trascurando completamente i rispettivi contesti e i fondamenti per i quali si affermano. Ad esempio, Severino parla di “Gloria”, “Venerdì Santo”, “Pasqua”, o anche di “terra degli dèi”, ma dal contesto della sua filosofia è chiaro che hanno tutti un significato diverso da quello consueto, e quindi non possono essere spiegati conoscendo un senso diverso da quello che è loro proprio ed è spiegato chiaramente nei libri in cui se ne parla. E questo sia detto nonostante Severino abbia in genere formulato un proprio vocabolario filosofico per ovviare appunto alla confusione. Oppure ancora, Severino parla della storia dell’Occidente come della storia del nichilismo, e per questo bisognerebbe leggere Heidegger per capirlo? A parte il fatto che nessuno si sognerebbe di dire che per capire la storia del nichilismo di Heidegger bisogna studiare la storia del nichilismo secondo Nietzsche, il modo di concepire il nichilismo e l’Occidente da parte di Severino è opposto a quello di Heidegger.

Questa storia mi ricorda ad esempio quelli che pretendono di spiegare tutto il complesso della mitologia cristiana pretendendo di mostrare come ricalchi miti precedenti e ne faccia un collage. E’ chiaro che uno storico serio ha un minimo di competenza di cosa siano e comportino dei contesti storici differenti. E figuriamoci se un filosofo serio non debba sapere quanto valga maggiormente per i contesti filosofici che costituiscono dimensioni ancora più radicali dei contesti storici.
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Vecchio 27-04-2012, 08.46.52   #18
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Ci sarebbe forse da chiedersi se il "conosci te stesso" scritto sul tempio dell'oracolo di Delfi sia un invito alla conoscenza o piuttosto un monito. Nel secondo caso lo si potrebbe interpretare come un mettere in guardia l'uomo dall'avventurarsi oltre i propri limiti. Ciò che ha spinto Socrate a vivere la propria vita come una missione potrebbe rappresentare il rimedio al divenire.

Socrate è un uomo del “rimedio” che invita a conoscere se stessi perché vede innanzitutto nell’uomo il principio della potenza. Come volevano i sofisti, l’uomo è il denominatore comune di ogni indagine e di ogni giudizio, ma in Socrate diventa un riferimento così fisso da fare dell’uomo un essere immortale. Da questo punto di vista, non è qualcuno che sconsiglia di non avventurarsi oltre le colonne d’Ercole, ma chi invita ad oltrepassarle facendo leva sulla dimensione assoluta di eternità costituita dall’anima.

La civiltà contemporanea continua a pensarsi come civiltà del “rimedio”, ma a differenza di Socrate, e per i motivi specificati nei post precedenti, ritiene che un rimedio possa ancora esserci se si abbandonano quelle dimensioni assolute di eternità che sono un limite pregiudiziale al dispiegamento della potenza. L’Occidente ritiene che se la premessa è che per ottenere uno scopo qualsiasi ci vogliono dei mezzi, allora il sistema dei mezzi (la tecnica) è il denominatore comune che si pone come condizione di possibilità di qualsiasi scopo. La civiltà odierna si duole della mancanza di senso della vita, ma è proprio per tale mancanza che la potenza non ha limiti e può assicurare la vita ad ogni scopo. Se la vita fosse costretta in uno scopo ultimo, la potenza (che è condizione imprescindibile e non esteriore di qualsiasi scopo) ne verrebbe limitata e consentirebbe a chi non si ponga scopi assoluti di surclassare chi se li pone. I totalitarismi nazi-fascisti e comunisti erano retti da verità assolute (che per definizione calano dall’alto), e nonostante il livello esorbitante di mobilitazione dei loro apparati, hanno perso la partita con i regimi democratico-capitalisti che invece formulano i loro scopi all’interno di una più libera apertura al dibattito e alla concorrenza. Cioè i secondi si sono posti meno limiti pregiudiziali rispetto ai primi perché si sono fatti guidare dai principi di adattabilità e revedibilità.

Se il divenire è la dimensione originaria, il rimedio all’imprevedibilità non è il conseguimento di uno scopo a priori, ma l’adattamento degli scopi ai sempre nuovi e non previsti scenari che scaturiscono dal divenire. Un adattamento che senza i mezzi adeguati non può essere raggiunto. Per questo lo scopo supremo diventa l’incremento all’infinito della potenza del sistema dei mezzi.

Ora, quel che pensa in modo rigoroso l’Occidente, non è però il rigore per eccellenza, e la filosofia di Severino ha innanzitutto come motivo l’esplicitazione del senso del rigore in quanto tale, mostrando come l'Occidente sia solo la fede in quel che crede e non ciò che è evidente.
il Seve is offline  
Vecchio 28-04-2012, 15.03.57   #19
paul11
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Non vedo nel pensiero di Severino un rimedio.
Se tutto è eterno e tutto ciò che appare è necessario, significa che non esiste scelta e quindi libertà e di conseguenza anche il nichilismo secondo il pensiero severiniano è necessario. Non c'è etica, non c'è responsabilità e non c'è cura. Quindi prendiamo il mondo già scritto dalla cerchia delle apparenze da cui preleviamo gli essenti e li manifestiamo da un copione e sceneggiatura già scritta negli eterni....e spegniamo la luce.

Il pensiero di Severino lo accetto come critica al pensiero occidentale.
Ma io invece vedo altre contraddizioni che Severino per mantenere logico il suo pensiero s'"incarta".
Mancanza di responsabilità per noi, i nostri simili, il mondo. Mancanza di una speranza di un'idea di salvezza che ci porti "fuori" da questo tempo.
Incapacità di progettarsi nel mondo.
Manca la volontà di mettersi in gioco e non la passiva contemplazione del mondo e lasciarsi vivere, perchè è inutile fare qualunuqe cosa.
Vedo masse "addormentate" e perse nelle loro chiacchiere e pochi che agiscono per i loro tornaconti, "fregandosene " di vite e di esseri e di prendersi cura dell'altrui.
Se la scienza che abbiamo creato oggi è più potente del creatore ( l'uomo) tanto da esserne asserviti alle logiche, l'altro rischio del pensiero ontologico è di aver costruito modelli logici e di esserne altrettanto prigionieri.
Forse è la necessità umana di ordinare e catalogare, di vedere in termini di contrapposizione come nelle dualità e mai una visione d'insieme.

Siamo i creatori del pensiero e delle scienze e adesso ne siamo asserviti non vedendo vie d'uscita. Siamo prigionieri di sistemi organizzati (cultura, economia,politica) figlie di questi pensieri e tecniche. Il prodotto del creatore si rivela più potente dell'agente creativo.
Il rimedio , per ora, è pensare una via d'uscita...in un eremo.
paul11 is offline  
Vecchio 29-04-2012, 10.52.57   #20
il Seve
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

Citazione:
Non vedo nel pensiero di Severino un rimedio.
Se tutto è eterno e tutto ciò che appare è necessario, significa che non esiste scelta e quindi libertà e di conseguenza anche il nichilismo secondo il pensiero severiniano è necessario. Non c'è etica, non c'è responsabilità e non c'è cura. Quindi prendiamo il mondo già scritto dalla cerchia delle apparenze da cui preleviamo gli essenti e li manifestiamo da un copione e sceneggiatura già scritta negli eterni....e spegniamo la luce.

Oltre ad invitare a rileggere i miei post, la tua incomprensione mi dà anche l’agio di precisare ulteriormente l’argomento di questo thread.

Se nel pensiero di Severino non vedi un “rimedio”, forse è perché ho cercato di spiegare che il concetto di “rimedio” è contraddittorio. Quindi per continuare a presupporne la necessità si dovrebbe ribattere alle ragioni per le quali il “rimedio” è contraddittorio. Ci vuole un “rimedio” laddove le cose vanno fuori della norma e si ha la possibilità (cioè la libertà) di farle rientrare. Ma nulla può uscire fuori della norma della verità e quindi tutto è già deciso, già esistente, eterno. Libertà, responsabilità, etica, preoccupazione per le cose, sono tutte cose inesistenti perché presuppongono che si possa fare qualcosa. Invece nulla si può modificare perché tutto è già destinato.

Ma ecco un punto importante. Se è vero che le cose citate sono inesistenti, è vero anche che non è inesistente credere ad esse. Come già detto, perlopiù siamo un insieme di credenze senza fondamento. Cioè, se le credenze sono senza fondamento perché il loro contenuto è inesistente, che si creda a tali contenuti non è a sua volta una credenza, ma un essente. Posso credere a Babbo Natale anche se non esiste, ma non posso smentire di credervi: che ci creda è una verità assoluta. Perlopiù siamo fatti di credenze ed è il loro esser credenze che autenticamente origina i problemi della vita, perché la credenza in quanto tale non è la dimostrazione del suo contenuto e quindi prendere decisioni sulla base di credenze dà luogo a conseguenze diverse da quelle che ci si aspettava.. Ma, ripeto, le credenze sono ciò con cui abbiamo sempre e comunque a che fare perché costituiscono la nostra vita, e non possiamo far finta che non ci siano o che siano solo apparenze, cioè non possono essere un’alternativa gli atteggiamenti di ritiro dal mondo o di incrociamento delle braccia perché il non fare è una forma del fare, così come il silenzio e l’assenza sono forme della voce e della presenza e non puro nulla. (Infatti ad esempio Dio può essere assente solo per chi crede nella sua esistenza.)

Tra le credenze di cui siamo fatti e che per ciò stesso, ripeto, non possiamo eludere, c’è appunto quella che ha come contenuto la possibilità (la libertà) di fare qualcosa e di prendere posizione difronte ai problemi. Tenendo conto che credere di essere spinti a scegliere liberamente non è qualcosa che ci possa accadere liberamente, ma al contrario è qualcosa di destinato, è allora necessario che prendiamo comunque una decisione. Anche se sappiamo che tutto è immodificabile, non per questo tramonta già ogni nostra credenza, perché quel che apprendiamo (in filosofia o da Severino) non è la verità in persona, ma un linguaggio che ce la spiega, ce la indica, ce la testimonia, e che non essendo la personificazione della verità non può ipso facto oltrepassare ogni problema. Quindi, anche se sappiamo che tutto è immodificabile, non per questo tramonta già la credenza di dover prendere decisioni per cambiare dal “problema” alla “soluzione”. Continuare a prendere decisioni (anche quella di ritirarsi in un eremo) è necessario perché è destinato, quindi continuerà ad accadere. Anche se la credenza nel dover prendere decisioni è credenza nell’errore (e quindi è la credenza ad esistere, non l’errore), anch’essa è destinata come tutto il resto. In un certo senso, è continuando a praticare l’”errore” che lo portiamo a compimento e portiamo in luce ciò che lo supera. Fermo restando che una “pratica” del genere accompagnata dalla consapevolezza della verità è comunque diversa dalla stessa “pratica” quando è accompagnata dall’assenza di quella consapevolezza. Cioè, prendere decisioni sapendo che non sono libere come presupporrebbe il contesto di senso di ogni decisione, ha comunque conseguenze diverse dal prendere decisioni non sapendolo. Ed è questo continuare a praticare l’”errore” sapendo che è errore, a portare a termine la sequenza finita del suo accadimento nel tempo.

Ora, tutto questo sia detto perché appunto siamo in prevalenza un viluppo di credenze senza fondamento. Ma, in Severino, questa non è la nostra vera essenza, ed anzi è necessario che anche quella prevalenza sia destinata a compiersi, per permettere che si mostri finalmente, già con la morte e più pienamente dopo la morte, un infinito percorso da parte di ognuno nel volto puro delle cose, liberato da ogni credenza. Cose che non hanno nulla a che fare né con la religione, né con esoterismi, né con altro che non sia l’incontraddittoria, chiara e distinta sapienza a disposizione di tutti (anzi, che tutti sono già da sempre prima di credersi uomini) a cui appartengono tutte le cose, compresi i saperi che oggi perlopiù sono ritenuti il massimo del rigore.

P.S.
Una dimostrazione della contraddittorietà (e quindi inesistenza) della libertà e della contingenza la trovate qui.
il Seve is offline  

 



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