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Spunti di Riflessione

di Marco Biagioli


La persona è nel mondo attraverso il corpo: perno della vita


“Il corpo è lo sfondo di tutti gli eventi psichici” Galimberti. Averne cura significa dare importanza alle facoltà della persona, alla qualità dell'intersoggettività e alla ricchezza del mondo della vita.

Per capire chi è l'uomo conviene focalizzarsi sul singolo oppure è necessario presupporne almeno due? Le neuroscienze dimostrano che siamo “wired to be social” cablati per la socialità; neurosciences è un neologismo coniato da Francis O. Schmitt negli anni 60, al plurale perché il cervello ha vari livelli di descrizione. Si pongono, in prima istanza, le tipiche domande delle scienze umane. Scrive Alberto Oliverio: “in attività come vedere...provare dolore, memorizzare...contare, una parte specifica del cervello funziona più di quelle circostanti...un dolore...viene descritto...rispetto alla sede cerebrale in cui esso si verifica...”. Quello delle neuroscienze è un approccio di riduzionismo metodologico, non ontologico, cioè tentano di ridurre la complessità dell'umano in elementi più semplici studiando le causalità e le correlazioni. Anche se il giorno segue sempre la notte nessuno direbbe che la notte causa il giorno. Le neuroscienze esaminano con cura l'attività del sistema dinamico cervello-corpo considerando i due elementi sempre interfacciati ed analizzano in diretta anche gli aspetti più inconsapevoli dell'uomo. Stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante dalla politica alla pubblicità; il neuromarketing ad esempio studia le vere reazioni del pubblico durante l'esecuzione di processi decisionali.


Il sistema cervello corpo


Per capire il cervello occorrono: un sistema cervello corpo, un mondo fisico e altri sistemi cervello corpo con cui si relaziona. L'uomo è una creatura linguistica e quando si riferisce ad aspetti preverbali, a ciò che lo rende vivo, si trova davanti ad un'esperienza del mondo che è in eccesso rispetto alle parole utilizzate per descriverla. L' “emozione” ad esempio è una parola che si riferisce ad un aspetto multidimensionale della nostra vita. Viverla significa esperire soggettivamente degli stati corporei che possono esitare, o non, in comportamenti manifesti. Dire “ti voglio bene” non specifica in modo univoco una modalità di stare in relazione con una persona. Simili frasi, nella loro ristrettezza, non mappano uno a uno le configurazioni del sistema cervello corpo, non ne esprimono appieno la complessità. Altresì non si può ridurre l'amore al funzionamento di alcuni neuroni o configurare l'ipotetica isola cerebrale dell'empatia. Occorrono concetti ponte, da cercare nel corpo, in grado di superare il baratro tra due livelli di descrizione: quello olistico dell'individuo che ama e quello sub-personale e infinitesimo del neurone. Cercare - il corpo nel cervello - come dice Vittorio Gallese.
Il corpo è il grande sconosciuto, prodotto della rete dei simboli e della cultura di ogni epoca sul quale si sono stratificati sensi e significati tali da renderlo oggetto privilegiato di riflessione e di indagine. L'uomo primitivo, ad esempio, aveva cura di seppellire il defunto insieme agli attrezzi usati in vita perché ritenuti un tutto uno.
Nel mondo occidentale, diversamente da quello orientale dove non è mai esistito un vero distacco mente corpo, la grecità e la tradizione giudaico-cristiana hanno affrontato il tema. La nozione di anima, quindi il primato dell'individuo, è stata introdotta da Agostino laddove la tradizione giudaico-cristiana ne era sprovvista. È la traduzione latina dal greco psychè che deriva dall'aramaico nefesh; quest'ultima frequente nell'antico testamento con vari significati. Grazie ai costrutti della mente Platone ha introdotto il sapere universale: l'oggettività al posto della soggettività. Lo scienziato ha bisogno di pensare per idee non per sensazioni, per numeri non per impressioni. Così è iniziata la svalutazione del corpo, non perché spregevole, ma solo in quanto inaffidabile.


Le percezioni della persona


“L’unità della persona esige una costituzione essenzialmente diversa da quella delle cose naturali” Husserl. I neuroni non sono agenti epistemici, “conoscono” solo il passaggio degli ioni attraverso le loro membrane. Il mentalizzare ha bisogno di una persona che è un sistema di interconnessione tra cervello e corpo situata in un ambiente che interagisce con altri sistemi cervello corpo. Si è scoperto che imitazione, empatia e mentalismo condividono, di base, una comune caratteristica. Ovvero la nostra capacità di concepire i corpi agenti degli altri, come “Sé, come noi”, dipende dalla costituzione di uno spazio interpersonale significativo e condiviso, noi-centrico. Questa “molteplicità condivisa” può essere caratterizzata a livello funzionale come uno specifico meccanismo: la simulazione incarnata.
La comprensione delle altrui intenzioni non ha nulla di teorico bensì poggia sull'automatica selezione delle strategie d'azione; non appena vediamo compiere un atto, quei movimenti, lo si voglia o no, acquistano un significato immediato grazie al meccanismo della simulazione incarnata. Percepire un'azione per noi equivale a simularla, ad attivare il suo programma motorio pur in assenza dell'esecuzione fattuale dell'azione. “La simulazione incarnata è il mio “immaginare di muovermi”, “immaginare di sentire”, ovvero immaginare per il cervello equivale a simulare” Vittorio Gallese. Consente di mappare comportamenti, sensazioni dell'altro direttamente sulle proprie rappresentazioni in formato corporeo ovvero non linguistico. Chiarisce che il sistema motorio svolge quelle funzioni cognitive ritenute appannaggio di processi psicologici associativi. “L'immaginazione...utilizza molti degli stessi neuroni che utilizziamo quando effettivamente agiamo o percepiamo. La nostra mente esiste solo nel mondo corporeo” Vittorio Gallese.
Le neuroscienze hanno ridefinito la triade percezione, azione, cognizione abolendo la netta distinzione fra un cervello che ci fa fare delle cose e uno che ce le fa conoscere; “ogni atto percettivo è di per sé stesso un atto creativo” Gaetano Kanizsa. La simulazione incarnata non consente di comprendere tutto, anche il gabbiano che vola sopra di noi, ma si attiva di più tanto più quello che vediamo è congruente con quello che sappiamo fare noi. Ciò che innesca non è il conoscere per aver visto ma il conoscere per aver fatto, così la rappresentazione della realtà non è una copia oggettiva della stessa, ma il risultato della relazione dinamica con il soggetto fruitore di questa relazione. “I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia” Vilayanur S. Ramachandran.
La lettura silenziosa o l'ascolto di parole che descrivono azioni della mano, attiva, con la simulazione incarnata, differenti settori della corteccia motoria atti a controllare le stesse azioni. Michael Charles Corballissostiene che il linguaggio si sia sviluppato circa 50000 anni fa, progredendo dalle gesticolazioni dei primati fino a un vero e proprio linguaggio dei gesti dotato di una grammatica e di una sintassi. La scoperta di neuroni che rappresentano scopi motori, es “neuroni specchio-afferrare”, consente di sintetizzare che lo scopo, il pensiero, concetto di afferrare, in prima istanza sta lì. Al posto di complicate elaborazioni la simulazione incarnata si attiva in pochi millisecondi. Una tale specializzazione, lungi dallo sprecare, consente al cervello la fluidità dei movimenti.
L'afferrare non è più semplicemente tale ma è “per portare alla bocca” o “per spostare”: l'intenzione in azione trascende il singolo atto e ne modifica il significato nell'uno o nell'altro verso. La vista di una tazzina di caffè non è che una forma preliminare d'azione, una sorta di appello ad agire che, la si esegua o no, la caratterizza come qualcosa da prendere per il manico, con due dita: un vedere con la mano. Si può affermare che il sistema motorio è più originario di quello sensoriale, rappresenta la nostra conoscenza in “prima persona”; contiene un vocabolario di atti motori, una memoria, un magazzino di conoscenze che consente la comprensione dello spazio e degli oggetti.
Vedere il mondo non è più solo attivazione della parte visiva del cervello ma qualcosa di multimodale, che risponde sempre e comunque ad una molteplicità di stimoli sensoriali di tipo motorio, somatosensoriale, emotivo. “Si può distinguere tra percezione e azione solo sul piano dell'analisi teorica; nel comportamento ordinario, esse sono definitivamente fuse...” Alva Noë.
Affordances è una parola coniata da Gibson per riferirsi sia all'ambiente che all'animale. Quando vediamo il mondo percepiamo delle affordances; ovvero prendiamo consapevolezza del nostro corpo come molteplicità di possibilità motorie: un terreno comune per la consapevolezza di sé e degli altri. Dice Valentina Lusini: “in un ambiente vengono colti con preferenza stimoli necessari per il raggiungimento di un fine...Non è…una qualità “soggettiva” di una cosa...o una proprietà “oggettiva”...una affordance elimina la dicotomia tra soggettivo e oggettivo”...È di vedere affordances che gli animali hanno bisogno: ecco una preda che potrei mangiare, un predatore che potrebbe mangiare me...” Ulrich Neisser. Un oggetto può essere afferrabile, gettabile, non è in sé che un'ipotesi d'azione; una superficie può essere per-starvi-in-piedi o per-sedervisi a seconda dell'organismo.
Allora abitare non è solo conoscere, ma sentirsi ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto; sapere dove deporre l'abito, incontrare l'altro, u-dire, rispondere e co-rispondere: è trasfigurare le cose e caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività.
Lo spazio non è l'ambito in cui le cose si dispongono... anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse le cose...dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni” Merleau-Ponty. È un certo possesso del mondo, una certa presa del mio corpo sul mondo.
Il tempo non è un fiume che scorre, una sostanza fluente, ma la vita del corpo, che infatti nasce e muore, quindi la temporalità gli compete per una necessità interiore; il nostro tempo è la nostra vita.


L'intersoggettività


È dimostrato chele relazioni interpersonali sono rese possibili, a livello di base, da meccanismi di risonanza grazie ai quali la relazione Io -Tu può essere stabilita. “Per fare una mente ce ne vogliono almeno due” dice ironizzando Vittorio GalleseL'intersoggettività diviene così ontologicamente il fondamento della condizione umana, in cui la reciprocità definisce in modo fondativo l'esistenza e l'intercorporeità ne è alla base. Termini come sé, io, altro sono correlativi: non c'è -sé- senza -altro da sé- e viceversa. “La nostra vita mentale è frutto di co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri che costituisce la matrice intersoggettiva” Daniel Stern. Nell'interazione le due menti creano intersoggettività e l'intersoggettività modella le due menti. Ricordiamoci che il mammifero nasce nell'altro e con l'altro, in particolare nel neonato esistono le memorie acustiche degli ascolti in gestazione; vale a dire che la relazione umana si stabilisce fin dal concepimento con la modifica del sistema cerebrale materno.
La relazione tra passato e presente della nostra vita influenza la formazione della personalità. John Bowlby ha dimostrato che la motivazione centrale del neonato, derivante dall'antico bisogno di nutrizione e di protezione dai predatori, è la ricerca di sicurezza e l'attaccamento che deriva è radicato nel cervello. In base alla cura dimostrata dai genitori il bambino costruisce un'immagine di sé positiva o negativa che condizionerà lo sviluppo della propria vita: come un baricentro che organizza la vita personale e relazionale.


Persona, vita, corpo esistono in un mondo fisico


Il mondo fa riferimento alla totalità delle cose esistenti, in psicologia ricorre in tre accezioni: visione del mondo, mondo-della vita, essere-nel mondo. Invece dell'io, prodotto della grammatica secondo Nietzsche, si dovrebbe parlare di presenza, dove non c'è una soggettività (Io) che si relaziona a un'oggettività (mondo), ma una relazione originaria che fa dell'uomo un essere-nel-mondo al di là della scissione soggetto-oggetto, utile alla scienza, ma incapace di descrivere il modo in cui l'uomo è al mondo. La presenza è l'automanifestarsi di tutto ciò che c'è per il solo fatto di esserci; è “già lì” offerta alla nostra esperienza prima di ogni interpretazione.
L'uomo è la persona che dice “io” ma è anche un “funzionario della specie”. La natura utilizza l'individuo, lo dota di sessualità per la procreazione e di aggressività per la difesa della prole, poi lo sacrifica per generarne altri. L'economia della specie non è l'economia dell'io e la femmina avverte questa doppia soggettività sul proprio corpo. L'uomo fa una rappresentazione della vita come se avesse un significato, forse perché altrimenti non riuscirebbe a vivere. Scrive Galimberti: “gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo”.
Non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non chiariamo la nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare, agire, gioire e soffrire. Ad esempio il mondo greco ha ereditato dalle civiltà più antiche una concezione ciclica del tempo, indotta dalla regolarità dei moti degli astri e delle stagioni. Uniformità e periodicità della natura che ripete la propria vitalità si ripercuotono sul pensiero indirizzandolo verso un approccio razionale alla vita. Il mito di Kronos poi l'ebraismo ed infine il cristianesimo avviano una concezione rettilinea e progressiva del tempo: una freccia scagliata nel futuro. L'idea di un momento in cui tutto ha inizio, la creazione e uno in cui tutto avrà fine, l'apocalisse ha introdotto la nozione di storia e di progresso.
Oggi ciascuno vive il breve tempo progettuale degli scopi da raggiungere, del recente passato e dell'immediato futuro: un'apparente sanità in cui visualizziamo noi stessi e le fasi della vita con idee malate che dovrebbero essere oggetto di cura della psicologia. “A differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi gli uomini non muoiono più sazi della loro vita, ma semplicemente stanchi” Max Weber. Ecco la vecchiaia non è più considerata deposito di sapere, ha perso il nesso con lo svelamento del carattere. La lunga durata della vita concede finalmente quegli anni in più, preclusi alle vecchie generazioni, che consentono al carattere di apparire nella sua unicità, facendoci conoscere chi siamo in realtà e disconoscere il nesso vecchiaia-morte. Vecchi non più inadeguati “ruderi in attesa della morte” ma depositari di quel carattere unico delle cose che ammiriamo nella loro non riproducibilità come le vecchie case.
La morte non è un oggetto cui la nostra psiche possa applicarsi perché non ha una psicologia. La logica e la metafisica possono parlarne ma non può farlo la psiche che, nel momento in cui prende a prestito una nozione che non riesce a sperimentare, è costretta a contorcersi, pensare, vivere il Nulla di cui è assolutamente incapace. Spetta alla filosofia il tentativo di correggere quelle idee stantie divenute egemoni per forza di abitudine, eccesso di condivisione o pigrizia del pensiero.


"I neuroni scrittori"


Afferma Gallese che le neuroscienze dimostrano come l’intelli-genza sociale della nostra specie non sia esclusivamente ‘meta-cogni-zione sociale’, cioè capacità di pensare i contenuti della mente altrui per mezzo di simboli o di altre rappresentazioni in formato preposi-zionale, ma sia in larga parte frutto di un accesso diretto al mondo dell’altro. L’intenzionalità umana ha delle radici che devono essere cercate nella natura intrinsecamente relazionale e neutra dell’azione, in questo campo la consapevolezza corporea di sé sembra chiarire le molteplici forme di autocoscienza. La ricerca ha evidenziato quanto sia bizzarro concepire un Io senza un Noi e che la relazione è una delle dimensioni costitutive che definiscono l'umano, fondanti dell'essere, con un ruolo fondamentale nello sviluppo fisiologico del sé. Stiamo passando dallo studio della “mente umana” allo studio delle “menti umane”; più che di essere dovremo parlare di divenire, più che di identità siamo portatori di una “diventità” nel senso che diveniamo umani continuamente.
Dice il nobel Eric Kandel: “...l'ultima frontiera della scienza della mente è capire le basi biologiche della coscienza ed i processi mentali attraverso cui percepiamo, agiamo, impariamo e ricordiamo”. Nel sistema cervello-corpo vi è un unico luogo che sembra custodire con cura il mistero delle multiformi espressioni del linguaggio umano, dal gorgoglio al vocalizzo, dal gesto al movimento, dalla smorfia al suono articolato: la scarica elettrica dei neuroni.
Forse si scopriranno “neuroni-comici” in grado di comprendere al volo battute tipo: "sai, mi hanno detto che è intelligro" dice un genitore del proprio figlio, mentre torna dal colloquio con gli insegnanti; l'amico rattristato gli risponde: "Beato te, il mio è pigronzo". Ovvero “neuroni-scrittori” capaci di gradire, alla maniera di Joyce o Artaud, la fusione delle parole persona-vita-corpo-mondo nella forma “pervicomo”, in cui il non senso, non sia assenza di significato ma, al contrario, fornisca un eccesso di senso. Dicono gli aborigeni australiani: “tutto è uno: i nostri antenati, i nostri nipoti...la vita che è ovunque”.
Parole come mente e corpo sono due livelli di descrizione di una stessa realtà che manifesta proprietà diverse a seconda del livello di descrizione e del linguaggio. Il nostro corpo, dice Rossana Beccarelli: “è lo strumento con cui attraversiamo il tempo della vita”. È l'unica cosa di cui siamo certi, nel qui ed ora della nostra esperienza; ha un ruolo fondante, ineliminabile, costitutivo nella cognizione sociale. È un vero apriori, un elemento non ulteriormente riducibile di possibilità dell'esperienza che, per funzionare al meglio, ha bisogno di accorgimenti e stili di vita corretti. “Abbi buona cura del tuo corpo, è l'unico posto in cui devi vivere” Jim Rohn.


Marco Biagioli


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