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di Paolo Bancale   indice articoli

 

Il relativismo e il nichilismo

Di Carlo Tamagnone

Marzo 2014

 

I due termini sono nati in ambito filosofico e il primo concerne l’atteggiamento di chi considera relative la conoscenza, l’etica o la cultura, mentre il secondo indica quello di chi considera nullo un “valore” (concettuale, etico, religioso) tradizionalmente riconosciuto. Ora, siccome ciò che viene relativizzato o nullificato è considerato un “assoluto”, rispetto ad esso col primo c’é relativizzazione, col secondo negazione.

 

Propongo un sintetico excursus su storia, genesi e sviluppo dei due concetti, prima di occuparcene in riferimento alla noncredenza e al laicismo. Essi sono nati in ambito filosofico, ma trovando in seguito utilizzi in sociologia, in politica e in altre discipline, con il primo che concerne la relativizzazione di conoscenza, etica e cultura, il secondo che nullifica un “valore” (concettuale, etico, religioso) riconosciuto e condiviso. Va però notato che nella storia del pensiero sono pochi coloro che hanno accettato l’aggettivo di relativisti o nichilisti, né per i loro atteggiamenti né per le loro idee, essendo i due concetti perlopiù usati per colpire un avversario, un po’ come nell’antichità si definiva con disprezzo ateo il credente appartenente a un’altra religione.

Con i due termini viene messo in discussione specialmente il concetto di verità, inducendo riflessioni e polemiche circa concetti come il conoscere e il credere, il bene e il male. Da ciò l’estensione extrafilosofica a sociologia e politica, pur restando la religione la più coinvolta e colpita dalla relativizzazione o dalla negazione dei suoi dogmi. D’altra parte, corrente opinione teologica è che il relativismo sia il piano inclinato che porta irrimediabilmente al nichilismo ateo materialista, con l’assunto che discutere le verità di fede conduce a negarle. Ma passiamo ora alla storia.

 

Antichità e Medioevo

Il relativismo era tipico del sofismo di Protagora, ma Platone lo aveva osteggiato aspramente e il cristianesimo, con le sue dogmatizzazioni conciliari, aveva poi soffocato ogni istanza relativistica o scettica che mettesse in discussione l’assoluto di fede. Nel IV secolo sant’Agostino teorizzava l’anti-relativismo in nome di un idealismo cristiano-platonico, ma già san Paolo, il vero creatore del cristianesimo, poneva dicotomie (intrinsecamente relativizzabili o negabili) come verità/falsità, virtù/peccato, spirituale/materiale, tipiche già di Platone. Per almeno dieci secoli il relativismo si eclissa, poi riappare timidamente nel Trecento con i teologi di scuola britannica, e più nettamente nel Quattro-Cinquecento col Rinascimento.

 

Il Seicento

Con Shakespeare vengono alla luce nichilisti autentici, attivi, veri “genî del male” (Riccardo III, Cassio, Jago, Lady Macbeth), ma per almeno due secoli questi restano figure drammaturgiche prive di interesse filosofico. La cultura è infatti ancora dominata dalle grandi teologie filosofali di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz, incentrate sulla definizione del pensiero-spirito in rapporto alla materia e assolutizzatrici di Dio in senso dualista, panteista o provvidenzialista.

 

L’Illuminismo

Il Settecento vede le critiche filosofiche di pensatori protestanti come Pierre Bayle e di atei come La Mettrie, Helvétius e d’Holbach, anche se in quest’ultimo l’intento “sistemico” tradisce qualche residuo metafisico. Solo Diderot è da considerarsi il vero grande innovatore anti-metafisico in senso critico-relativista: in lui tutto è problema e nessun assoluto ha più legittimità teorica o etica. In ciò sta l’essenza dell’Illuminismo: la critica “sistematica” contro ogni dogmatizzazione “sistemica”.  Ma c’è per contro David Hume che dà inizio a un fortunato corso di pensiero in cui le basi della scienza sono ritenute dubbie, ma quelle della fede assolutamente certe. Egli nega il concetto di causa fisica per fissare come indiscutibile la Causa Divina, ribadendo nei Dialoghi sulla religione naturale: «Il potere della divinità è infinito e tutto ciò che essa vuole viene fatto». Un relativismo del conoscere e un assolutismo del credere molto equivoci che, purtroppo, affascinano ancora oggi.

Kant in qualche misura si riconnette a Hume, ma dà del relativismo della conoscenza una visione assai più complessa, in vista del primato di una morale assoluta: l’imperativo categorico. La relativizzazione della conoscenza, ristretta ai fenomeni, e l’ignoranza dei noumeni (le cose in sé note solo a dio) si accompagnano all’assolutizzazione della morale e di una fede innata, però razionale e svincolata dall’ortodossia cristiana.

 

L’Ottocento

Il dibattito sul relativismo si incentra nell’Ottocento sulle dicotomie laicismo/religione o conoscere/credere, e molti pensatori cattolici (come Franz von Baader) vedono il protestantesimo favorire il nichilismo in quanto troppo accondiscendente con la scienza e la tecnologia, pervertitrici della società cristiana. Altri esecrano il razionalismo materialista come negatore di dio e perciò nichilista in quanto, fuori di dio, c’è solo “il nulla”.

Ma in quegli anni c’è anche chi, come Max Stirner, proclama, al contrario, che solo l’abbandono della religione nobilita l’individuo, affermandolo nella sua unicità e indipendenza da ogni laccio metafisico. Dichiarando in senso materialistico-ateo e autenticamente nichilista: «io ho fondato la mia causa sul nulla» (L’unico e la sua proprietà, 1845) Stirner sarà criticato, non a torto, da Marx ed Engels (Ideologia tedesca, 1846) per il suo individualismo e per l’assenza di proposte socio-politiche positive.

Nichilista a suo modo è in fondo anche l’ateo illuminista Leopardi: in lui emerge un poetico che nullifica la banalità quotidiana verso l’evocazione dell’infinità cosmica, e con ciò lo spirito si solleva dalla contingenza corporea e dalla piattezza sociale cercando una sua sede privilegiata nel “nulla di credenza”, il solo che apra la nuova esistenzialità dell’“erramento dell’anima”.

Nel 1865 il positivista Herbert Spencer tenta un nuovo relativismo, adottando darwinianamente il primato della scienza e l’agnosticismo religioso. Al contrario il pragmatista William James legittima il credere come utile portatore di pace interiore e ottimismo, per cui il suo relativismo ha un fondamento psico-esistenziale che relativizza i “valori”, nel senso che “vanno tutti bene” purché risultino utili a chi ci crede.

Turgenev, in Padri e figli, delinea un nichilista-tipo: attivo, ribelle, spregiudicato, non crede in nulla. È un “nuovo epocale” che trova teorici (Dobroljubov, Pisarev e Nečaev) che affascineranno anche Dostoevskij. Coinvolto in un gruppo sovversivo, egli finisce in Siberia e da tale esperienza nasce il rigetto dell’anarchismo e il ritorno alla fede, stigmatizzando nei romanzi del periodo 1863-1890 alcuni nichilisti del crimine, “puri” come Stavrogin o “problematici” come Ivan Karamazov.

Nietzsche, dopo il ««Dio è morto!» de La Gaia Scienza(1882), incarna a suo modo lo  spirito nichilista in un aggregato di frammenti noto come Volontà di potenza (1888). Il nichilismo è svalutazione di valori e da ciò un’esistenza umana “senza senso e scopo”, condannata a un eterno ritorno (VIII, I). Segue una graduazione del nichilismo in incompleto, completo, estremo, estatico; con quest’ultimo quale via al “profondo” oltre la quale si profila il superuomo (VIII, II).

 

Il Novecento

Il relativismo nel Novecento è distinto in gnoseologico ed etico e il nichilismo in esistenzialistico e politico. Gli uni e gli altri svalutano concetti come dio, verità, patria. I nichilisti negano però un assoluto in nome di un contro-assoluto, mentre i relativisti negano ogni assoluto, rischiando in politica, da Robespierre fino a Stalin, la condanna come revisionisti-relativisti, nemici della patria rivoluzionaria o borghesi filo-capitalisti.

L’esistenzialismo spiritualista è fortemente critico e Karl Jaspers (Psicologia delle visioni del mondo) vede il nichilismo come rinuncia allo spirito per la materialità del “vissuto contingente”. Per Martin Heidegger il nichilismo è l’“oblio dell’essere”, appioppando l’aggettivo “nichilista” alla scienza e alla tecnica moderne. Con Ernst Jünger (narratore e saggista pre-nazista) egli ha un confronto sul tema in Oltre la linea (1950).

A livello storico, Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente (1922) relativizza la storia in epoche  “chiuse”, deducendo da ciò la non-universalità di verità e morali, avendo ogni Kultur le proprie. Inoltre, le esangui culture occidentali saranno sostituite da quelle orientali. Sono le avvisaglie di un anti-occidentalismo che sul piano etico-politico continuerà a rafforzarsi nella seconda metà del ‘900.

In Francia Jean-Paul Sartre scopre il “senso del nulla” nel frustrato protagonista del romanzo La nausea (1938), smarrito di fronte a una natura ostile, mentre in L’essere e il nulla (1943) ne dà un’analisi filosofica ed esistenzialista. Dal 1946, con L’esistenzialismo è un umanismo, pone la solidarietà umana al vertice dei valori e i suoi ultimi lavori sono improntati a questo principio.

Ancora un francese, Albert Camus, affronta il tema del nichilismo passivo nel Mito di Sisifo (1942) evocando il senso dell’assurdo, col gigante che spinge il masso in una ripetitività ineluttabile. Nel protagonista del romanzo Lo straniero (1942) tocca il fondo nichilista dell’ignavia e dell’indifferenza al crimine, per poi superarla nella nobile generosità attiva del tormentato protagonista de La peste (1947).

In ambito logico Ludwig Wittgenstein (1889-1951) proclama la nullità delle proposizioni metafisiche ed etiche e l’arbitrarietà del linguaggio. Ma anti-relativisti come Karl Raimund Popper vedono il relativismo «malattia del nostro tempo» e altri come il logico-metafisico Willard Quine e l’epistemologo Imre Lakatos vogliono il primato della verità logica contro il relativismo scientifico empirico-sperimentale.

In vario modo tutti questi anti-relativisti, legati alla tradizione idealistica, sono immersi in quel riflusso metafisico e religioso che caratterizza gli anni ‘60-‘80. Un atteggiamento ostile al conoscere della scienza “di ricerca”, sempre relativo e “in divenire”, giudicato incapace di produrre verità logico-teoriche, le sole, a loro dire, portatrici di “vera” scienza.

La coppia terminologica è centrale nel dibattito etico-religioso e sede del confronto dialettico laicismo/fede, tra il “tentare di conoscere” laico e il “credere per sapere” fideista. Incredulità e dubbi laicisti che però sono oppositivi sia a Cartesio, che dubita della res extensa ma crede alla divina res cogitans, sia al falso scetticismo di Hume, che dubita delle cause seconde, ma assolutizza la biblica causa prima.

 

Carlo Tamagnone
Dalla rivista NonCredo

 


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Carlo Tamagnone è probabilmente il più originale teorico contemporaneo della filosofia atea ed il più attento e analitico cultore e conoscitore dell'ateismo filosofico dalle origini ai nostri giorni. Con alle spalle molti anni di studio e di riflessione in vari campi della cultura è pensatore dotato di un solido background sia umanistico che scientifico. La coniugazione della conoscenza scientifica con quelle antropologica e filosofica dà luogo a una speculazione di tipo nuovo con orizzonti vasti, il cui risultato è una sintesi cognitiva complessa e profonda. Una singolarità che lo rende quasi unico nello stantio panorama culturale italiano, ripetitivo e autoreferenziale.

Pagina web personale: digilander.libero.it/CarloTamagnone/

 

 

 

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