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Vecchio 09-10-2013, 14.05.19   #101
0xdeadbeef
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

@ Aggressor
Il punto di vista che illustri è certamente degno di una riflessione più approfondita.
In questo, ritengo che la semiotica ci possa aiutare non poco. Dunque: ogni significato (e quindi anche il
significato che il principio etico assume presso le varie culture) è il risultato di una catena (infinita,
dice la semiotica, ma io non sono d'accordo) di significanti e di significati che si originano da quello che
viene definito "evento" (ecco perchè non sono d'accordo).
L'"evento" è, per la semiotica, definibile solo come "assenza". Ed esattamente come l'assenza presentifica
il suo opposto, che è la presenza, così l'"evento" può solo presentificare un "qualcosa", ma non definirlo
nella sua specificità (un caro amico, ammiratore della filosofia di Peirce, un giorno mi disse che l'"evento"
è da intendersi un pò come la traccia di un animale nel fango: l'animale è assente seppur presentificato - ma
è da non dimenticare che la traccia potrebbe essere opera di qualcuno che cerca di "sviare" l'indagine - così
mi disse).
Ora, cerchiamo di tradurre questo concetto e di re-interpretarlo in relazione all'oggetto della nostra
discussione. Una certa, attuale, prospettiva etica, abbiamo detto, è il risultato di una certa catena di
significanti e di significati (una prospettiva etica differente sarà il risultato di un'altra catena).
Ambedue, però, saranno originate (necessariamente) dal medesimo "evento". E questo è palese, dal momento che
l'"evento" è un non-ancora-interpretato (cioè è un qualcosa di non-ancora inscritto in nessuna catena di
significanti e di significati).
Prendiamo l'esempio di un fondamentalista islamico che si fa esplodere. L'"evento" consiste in un uomo che
si imbottisce di tritolo e si fa esplodere (perchè già il dire "fondamentalista" inscrive quell'uomo all'interno
di una catena segnica). C'è da dire che, secondo la semiotica, già il solo pensare qualcosa è "segno", ma ai
fini della nostra discussione l'esempio può essere congruo così com'è.
Il problema consiste allora nel risalire la catena segnica fino all'"evento" che la origina, e che è lo stesso
per ogni altra catena. Questo non significherà necessariamente trovare un punto d'intesa (sarebbe troppo bello,
non trovi?), ma potrebbe significare porsi in una prospettiva diversa, nuova e, forse, pregna di sviluppi
interessanti.
A mio avviso la "strada semiotica" potrebbe essere ben più fruttuosa di quella di Habermas (o di Apel), che
secondo me si pone ad un livello troppo definito (l'agire comunicativo in antitesi all'agire strumentale).
Ma, prima di continuare, gradirei sapere che ne pensi di questa mia "proposta".
ciao
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 10-10-2013, 12.49.42   #102
Aggressor
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

0xdeadbeef:
Il punto di vista che illustri è certamente degno di una riflessione più approfondita.
In questo, ritengo che la semiotica ci possa aiutare non poco. Dunque: ogni significato (e quindi anche il
significato che il principio etico assume presso le varie culture) è il risultato di una catena (infinita,
dice la semiotica, ma io non sono d'accordo) di significanti e di significati che si originano da quello che
viene definito "evento" (ecco perchè non sono d'accordo).
L'"evento" è, per la semiotica, definibile solo come "assenza". Ed esattamente come l'assenza presentifica
il suo opposto, che è la presenza, così l'"evento" può solo presentificare un "qualcosa", ma non definirlo
nella sua specificità (un caro amico, ammiratore della filosofia di Peirce, un giorno mi disse che l'"evento"
è da intendersi un pò come la traccia di un animale nel fango: l'animale è assente seppur presentificato - ma
è da non dimenticare che la traccia potrebbe essere opera di qualcuno che cerca di "sviare" l'indagine - così
mi disse).
Ora, cerchiamo di tradurre questo concetto e di re-interpretarlo in relazione all'oggetto della nostra
discussione. Una certa, attuale, prospettiva etica, abbiamo detto, è il risultato di una certa catena di
significanti e di significati (una prospettiva etica differente sarà il risultato di un'altra catena).
Ambedue, però, saranno originate (necessariamente) dal medesimo "evento". E questo è palese, dal momento che
l'"evento" è un non-ancora-interpretato (cioè è un qualcosa di non-ancora inscritto in nessuna catena di
significanti e di significati).
Prendiamo l'esempio di un fondamentalista islamico che si fa esplodere. L'"evento" consiste in un uomo che
si imbottisce di tritolo e si fa esplodere (perchè già il dire "fondamentalista" inscrive quell'uomo all'interno
di una catena segnica). C'è da dire che, secondo la semiotica, già il solo pensare qualcosa è "segno", ma ai
fini della nostra discussione l'esempio può essere congruo così com'è.
Il problema consiste allora nel risalire la catena segnica fino all'"evento" che la origina, e che è lo stesso
per ogni altra catena. Questo non significherà necessariamente trovare un punto d'intesa (sarebbe troppo bello,
non trovi?), ma potrebbe significare porsi in una prospettiva diversa, nuova e, forse, pregna di sviluppi
interessanti.
A mio avviso la "strada semiotica" potrebbe essere ben più fruttuosa di quella di Habermas (o di Apel), che
secondo me si pone ad un livello troppo definito (l'agire comunicativo in antitesi all'agire strumentale).
Ma, prima di continuare, gradirei sapere che ne pensi di questa mia "proposta".


Non piace neanche a me questa distinzione tra agire comunicativo ed a gire strumentale; ritengo piuttosto che tale distinzione sia, come tante altre delimitazioni esistenti tra vari concetti, una sorta di approssimazione del reale che concede di dividere, ad un punto, ciò che è originariamente unito.

Premetto che non ho capito bene la tua proposta, quindi chiedo innanzitutto un chiarimento. Ma posso commentare dicendo, a livello molto generico e astratto (tanto per cominciare), che non credo all'esistenza di eventi sciolti da significati. Ciò vuol dire semplicemente che ogni evento è per me originariamente significante; nel senso che, attenzione, esso è tale (=> "un evento è effetivamente un evento distinto", anche prima di essere pensato da un portatore di significati) solo in quanto contrapposto ad un alterità la quale, deformando con la sua forma l'evento stesso, ne definirà davvero il contenuto (quale non può essere posseduto per sé, prima dello "scontro" con l'alterità). Se dunque ogni evento è originariamente deformato da un'alterità, esso è di per sé un significato (in quanto, appunto, per significato indichiamo primariamente una idea mentale, cioè qualcosa che, più in generale, risente "dell'IO" e "dell'esterno" e non solo del suo essere). In altre parole un evento, per esser qualcosa di distinto, dovrebbe già essere una sintesi della "sua" forma e della forma di una "alterità" delimitante; perciò, che questa forma risultante sia esperita o meno da una mente umana, essa soggiace già alla necessità (che si ascrive di solito ai soli concetti e alle rappresentazioni umane) di essere un rapporto e non una qualcosa di per sé.

Fammi essere più chiaro.. diciamo alla kant che possiamo percepire la realtà solo in quanto fenomenica; il fenomeno è il risultato della sintesi tra me e l'altro (lasciamo stare che il "me" sarebbe una serie specifica di categorie mentali, che possono essere semplicemente sostituite dallidea di una forma, più in generale). Se prendiamo questa definizione del fenomeno e la lasciamo così generica, allora vediamo che ogni realtà avente contenuto (in quanto il contenuto emerge dalla relazione di un elemento di un sistema con gli altri elementi dello stesso sistema -e tutti gli elementi insieme formano il sistema-) è fenomenica. Se allora vogliamo parlare di precisi fenomeni, quali, ad esempio, le idee mentali circa il senso etico, non possiamo ipotizzare che esse derivino da qualcosa che non sia pure fenomenico (nel senso di cui sopra).


Concludo qui per problemi di tempo e perché ho paura di saltare fuori come i cavoli a merenda; spiegami meglio ciò che volevi dire, intanto ho precisato alcune parti della mia prospettiva.

Aggressor is offline  
Vecchio 10-10-2013, 21.33.39   #103
mariodic
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Originalmente inviato da Aggressor
0xdeadbeef:
[i]Ci fai notare un punto estremamente interessante ("a seconda del sistema di riferimento, una semplice somma
di numeri può dare risultati diversi; tuttavia uno e un solo risultato è quello giusto all'interno del singolo
sistema preso a riferimento").
Condivido assolutamente, e d'altronde questo è ciò che dice, in sostanza, la relatività (spesso, e a torto,
assolutizzata).
Tuttavia, io credo, quando si passa ad argomenti che non considerano "numeri", o quantomeno tesi scientifiche,
ma considerano l'"uomo", in tutte le sue sfumature, le cose si complicano notevolmente.
Ad esempio: come considerare l'etica in riferimento a quanto la relatività afferma? Tu dici che deve valere
lo stesso discorso; e quindi, presumo, assumeresti una certa prospettiva etica, non un'altra, come quella
prospettiva all'interno della quale (e solo all'interno della quale) un certo principio assume la veste di
"vero".
Fino a questo punto posso condividere. Ma non senza una annotazione che ritengo importante: una certa prospettiva
etica nasce e si sviluppa in senso ad una certa cultura, ad una certa "weltanschauung". La cultura, ad esempio,
emersa all'interno della civiltà occidentale è, sempre più, una cultura volta alla auto-nomia dell'individuo.
Il relativismo, evidenziato nella nota di Aggressor, come altri consimili relativismi, cessa di valere non appena si accetta la unicità dell'Osservatore universale, cioè dell'IO. Dovremmo qui sforzarci di far memoria del fatto che i grandi padri della fisica quantistica scoprirono e riconobbero il ruolo dell'osservatore quale attore, al pari dell'osservabile; sulla allora nascente nuova fisica questa fonamentale e cruciale scoperta fu ben presto considerata sempre meno rilevante man mano che passava il tempo e ci si allontanava da quei famosi anni 20 riscivolando nella comune e tradizionale visione oggettivistica del mondo, cioè in quella visione che dice che il mondo è indipendente dall'Osservatore (con la O maiuscola) ed esiste indipendenteente da quest'ultimo. Oggi, anche il migliore dei fisici attivi, ritiene, per esempio, l'elettrone o il quark né più né meno di un qalsiasi oggetto materiale, seppure, bontà loro, con particolarissme e complesse proprietà, diciamo così, fisiche!
mariodic is offline  
Vecchio 11-10-2013, 01.51.09   #104
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Mariodic:
Il relativismo, evidenziato nella nota di Aggressor, come altri consimili relativismi, cessa di valere non appena si accetta la unicità dell'Osservatore universale, cioè dell'IO. Dovremmo qui sforzarci di far memoria del fatto che i grandi padri della fisica quantistica scoprirono e riconobbero il ruolo dell'osservatore quale attore, al pari dell'osservabile; sulla allora nascente nuova fisica questa fonamentale e cruciale scoperta fu ben presto considerata sempre meno rilevante man mano che passava il tempo e ci si allontanava da quei famosi anni 20 riscivolando nella comune e tradizionale visione oggettivistica del mondo, cioè in quella visione che dice che il mondo è indipendente dall'Osservatore (con la O maiuscola) ed esiste indipendenteente da quest'ultimo. Oggi, anche il migliore dei fisici attivi, ritiene, per esempio, l'elettrone o il quark né più né meno di un qalsiasi oggetto materiale, seppure, bontà loro, con particolarissme e complesse proprietà, diciamo così, fisiche!

Sono perfettamente consapevole del ruolo attivo dell'osservatore tanto che, come potrai notare dal mio ultimo intervento (quello prima di questo) -nonché dall'intervento su "l'esistenza"), considero ogni evento/entità reale/oggetto/fatto/ecc. come il risultato di questo rapporto tra un osservatore ed un oggetto/osservatore. Mi piacerebbe veire a capo di una teoria etica "positiva" prendendo per buono questo ma anche, come ho detto, il fatto del relativismo precedentemente evidenziato nonché la possibilità di argomentare (in linea di principio) qualsiasi asserzione.
Vorrei davvero essere tra quelli che non scordano ciò che hai evidenziato, su questo siamo perfettamente in accordo!
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Vecchio 11-10-2013, 15.02.20   #105
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@ Aggressor
Facciamo un esempio per capirci meglio. Se io dico: "un fondamentalista islamico si è fatto esplodere causando
vittime innocenti", una tale affermazione è profondamente calata in un certo contesto etico (quello che distingue
un Islam moderato e un Islam radicale; quello che probabilmente pensa all'Islam come ad una religione foriera
di simili gesti; quello che definisce "innocenti" le vittime come probabilmente pensa al "martirio" in termini
differenti).
Se invece dico: "un uomo si è fatto esplodere causando vittime" mi esprimo, sì, sempre all'interno di una certa
prospettiva etica (ad esempio una prospettiva che non concepisce un simile fanatismo), ma il "fenomeno", ciò
che appare, è molto meno calato nella prospettiva etica che non nell'altra affermazione.
Quel che ho fatto, usando la terminologia semiotica, è stato "risalire" la catena segnica dei significanti e
dei significati.
Ora, fin dove è possibile risalire la catena segnica? La semiotica ci dice che non è possibile risalirla fino
all'"evento" (fino alla "cosa in sè", usando la terminologia kantiana - che molto a proposito riporti).
Peirce, che è un pò il "padre" della moderna semiotica, dice che perfino il pensare inserisce il pensato
all'interno di una catena segnica; e che quindi l'"evento", essendo pensato, è esso stesso segno, cioè fenomeno.
Tuttavia, io trovo che la semiotica affermi un qualcosa di molto interessante; un qualcosa che amplia, se
possibile, la portata della riflessione di Kant, e la riconnette a certe considerazioni sull'"essere" di
Heidegger (o, più precisamente, di Gadamer).
L'"evento" è pensabile come "assenza" (in quanto, pensato, non può essere "presenza" - ché sarebbe presenza
al pensiero della cosa in sè); ma, come ogni "assenza", esso non può che presentificare una presenza.
Ecco allora che la semiotica "s-vela" (nel senso di togliere un ulteriore velo); fa emergere; ci mostra sotto
un diverso punto di vista l'esistenza (come un "venire alla luce") "reale" di quella che Kant chiamava "cosa
in sè".
Si tratta allora di farla finita, una volta e per tutte, con la pretesa idealistica di un "oggetto" che non
esiste fuori dal soggetto che lo interpreta. E questo non può che significare l'esigenza di farla finita, una
volta e per tutte, con la pretesa che nulla sia esprimibile al di fuori di un certo sistema di riferimento (al
di fuori di una certa prospettiva etica, nel nostro caso).
Certo, l'applicazione "pratica", al dialogo, di un simile concetto non è semplice. Però, io trovo, importante
è il rendersi consapevoli della non-impossibilità del, diciamo, "terreno comune" (che nella prospettiva
idealistica è impossibile). Si tratta di rendersi conto di quella che è una "possibilità reale", che necessita,
nel suo "partire" del massimo grado di astrazione e di genericità (contrariamente a quanto afferma Habermas,
il quale, sostanzialmente, sostiene che basta non agire "strumentalmente", ovvero che basta agire senza secondi
fini).
ciao
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Vecchio 11-10-2013, 15.23.10   #106
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@ Mariodic
Concordo assolutamente (in barba al relativismo...) con la tua osservazione. E d'altronde, in materia etica,
ciò che volevo sottolineare era che in una cultura come la nostra, nella quale l'individuo ha parte preponderante,
risulta estremamente difficile parlare di prospettive etiche "comuni" (come di un comune sistema di riferimento).
Notevole, io trovo, la tua riflessione sulla "riscivolata" nella tradizionale visione oggettivistica del mondo.
Era proprio questo ciò che intendevo mettere in luce in precedenti risposte, ove in riferimento a quel che
Severino chiama "flessione dell'inflessibile" riflettevo come, oggi, l'inflessibile sia stato ricreato nelle
proposizioni scientifiche (originando lo "scientismo", che io ritengo vera e propria piaga della contemporaneità).
ciao
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Vecchio 11-10-2013, 20.13.14   #107
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Originalmente inviato da Aggressor
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Il relativismo, evidenziato nella nota di Aggressor, come altri consimili relativismi, cessa di valere non appena si accetta la unicità dell'Osservatore universale, cioè dell'IO. Dovremmo qui sforzarci di far memoria del fatto che i grandi padri della fisica quantistica scoprirono e riconobbero il ruolo dell'osservatore quale attore, al pari dell'osservabile; sulla allora nascente nuova fisica questa fonamentale e cruciale scoperta fu ben presto considerata sempre meno rilevante man mano che passava il tempo e ci si allontanava da quei famosi anni 20 riscivolando nella comune e tradizionale visione oggettivistica del mondo, cioè in quella visione che dice che il mondo è indipendente dall'Osservatore (con la O maiuscola) ed esiste indipendenteente da quest'ultimo. Oggi, anche il migliore dei fisici attivi, ritiene, per esempio, l'elettrone o il quark né più né meno di un qalsiasi oggetto materiale, seppure, bontà loro, con particolarissme e complesse proprietà, diciamo così, fisiche!

Sono perfettamente consapevole del ruolo attivo dell'osservatore tanto che, come potrai notare dal mio ultimo intervento (quello prima di questo) -nonché dall'intervento su "l'esistenza"), considero ogni evento/entità reale/oggetto/fatto/ecc. come il risultato di questo rapporto tra un osservatore ed un oggetto/osservatore. Mi piacerebbe veire a capo di una teoria etica "positiva" prendendo per buono questo ma anche, come ho detto, il fatto del relativismo precedentemente evidenziato nonché la possibilità di argomentare (in linea di principio) qualsiasi asserzione.
Vorrei davvero essere tra quelli che non scordano ciò che hai evidenziato, su questo siamo perfettamente in accordo!
Penso di trovarti d'accordo sul fatto che tra "esistenza" e "verità", sempre che ci si sforzi di liberarci, almeno un po', dalla purtroppo comoda trappola della visione oggettivistica del mondo, non v'è differenza alcuna in quanto un cosa è vera, è se vera esiste, nell'universo logico incentrato sull'Osservatore Universale (l'IO). Va però subito ricordato che questa "verità" o "esistenza" non sono, per l'osservatore assolutamente certe, ma solo molto probabili perchè l'IO è distinto dalla Conoscenza assoluta, cioè da DIO, non perchè manca della lettera iniziale "D", ma per via, appunto, del gap infinito di Conoscenza, che è esattamente quanto manca per bucare il muro del principio di indeterminazione di Heisemberg.
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Vecchio 12-10-2013, 11.42.30   #108
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Originalmente inviato da mariodic
Penso di trovarti d'accordo sul fatto che tra "esistenza" e "verità", sempre che ci si sforzi di liberarci, almeno un po', dalla purtroppo comoda trappola della visione oggettivistica del mondo, non v'è differenza alcuna in quanto un cosa è vera, è se vera esiste, nell'universo logico incentrato sull'Osservatore Universale (l'IO). Va però subito ricordato che questa "verità" o "esistenza" non sono, per l'osservatore assolutamente certe, ma solo molto probabili perchè l'IO è distinto dalla Conoscenza assoluta, cioè da DIO, non perchè manca della lettera iniziale "D", ma per via, appunto, del gap infinito di Conoscenza, che è esattamente quanto manca per bucare il muro del principio di indeterminazione di Heisemberg.
Ribadisco che peraltro questo ipotetico osservatore universale (IO o DIO che dir si voglia) è sempre un osservatore particolare, di cui pertanto si può sempre dubitare. E che lo stesso principio di indeterminazione di Heisemberg non è un principio universale, ma un principio che discende dal considerare la conoscenza come misurazione e la misura come realtà esaustiva di ogni cosa, entrambe pretese assai particolari, dunque dubitabili.

Ultima modifica di maral : 12-10-2013 alle ore 22.48.17.
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Vecchio 13-10-2013, 16.47.49   #109
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Infatti non credo ad un possibile osservatore universale, ma solo alla costante co-definizione degli enti nel mondo.


Non ho capito Ox. dici che gli oggetti in sé esistono ma che essi si rivelano per ciò che sono?
Per me la cosa in sé è una chimera, gli oggetti REALI sono i fenomeni, l'oggetto vero è per me l'idea di esso. Il terreno comune sarebbe il substrato che "contiene" le idee in continua co-definizione. In questo senso l'incomunicabilità sarebbe aggirata, non c'è una mia idea (anche etica) nel senso di una realtà per sé o separata dalle altre, per questo ne possiamo parlare e per questo possiamo convenire.


Non ho capito perché in una visione idealista non ci sarebbe possibilità di parlare slegati da un preciso sistema di riferimento (nel nostro caso etico). Lo dici nel senso che non potrei uscire dalla mia visione? Ma se posso contemplare altri sistemi posso pure confrontarli.


Io credo che il sistema di riferimento, effettivamente, dia contenuto alle cose, non credo che avremmo alcuna proprietà se non in relazione all'altro (cioè in relazione al resto delle entità che formano un sistema).
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Vecchio 13-10-2013, 17.54.40   #110
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Originalmente inviato da maral
Ribadisco che peraltro questo ipotetico osservatore universale (IO o DIO che dir si voglia) è sempre un osservatore particolare, di cui pertanto si può sempre dubitare.
L'IO è l'unica certezza di cui non saprei poprio come dubitare! Per il resto il dubbio è lecito e doveroso, anzi, sembra proprio il peperoncino motivante la vita.
Qualcosa in merito Cartesio lo disse, seppure contornando il tutto di criticità e soprattutti dell'errore del dualismo.
mariodic is offline  

 



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