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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 29-11-2013, 11.08.54   #131
Aggressor
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

Ma devo aggiungere che non credo al potere infiniuto dell'Io Ficthiano. Ciò che non conosco, bene o male, lo chiamo ex-sistente da me; ed anche si chiamano "altro da me" le cose su cui si ha meno potere o che giacciono distanti dal centro della percezione "individuale". Poi non si sa se l'unghia sia da considerarsi parte dell'io, se la tristezza altrui colta per empatia sia la mia tristezza, ma il punto del discorso è che si può avere un potere limitato sul proprio Io ed essere comuque quell'ente. Non si può conoscere tutto, altrimenti non si conoscerebbe affatto, percui qualcuno che guardasse la realtà e volesse modificarla in ogni caso avrebbe dei limiti; inoltre si può essere artefici senza rendersene troppo conto, posso essere la causa motrice di un evento senza saperlo.
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Vecchio 29-11-2013, 14.39.41   #132
0xdeadbeef
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

@ Aggressor
Se la "cosa in sè" che il nostro particolare segno linguistico (italiano) chiama "Luna" non esistesse, cioè
non fosse stabilmente (sistere) fuori (ex) da questo segno, al cessare di questo segno (potremmo dire: alla
morte dell'ultimo italiano) cesserebbe anch'essa. Cesserebbe, ovvero, in modo che più neanche gli Inglesi
potrebbero, indicandola, continuare a chiamarla "Moon". Semplicemente: non sarebbe più.
Allo stesso modo, se tu smettessi di pensarla la Luna non ex-sisterebbe più "per te" (per la tua pratica
discorsiva, direbbero i semiologi), ma continuerebbe ad ex-sistere per gli altri (che continuano a pensarla).
Francamente, mi riesce davvero difficile comprendere come non si riesca a distinguere fra il "segno" e
l'oggetto che quel segno indica (naturalmente la questione è di una evidenza macroscopica, visto che quella
cosa che chiamiamo "Luna" continuerebbe ad esserci anche dopo la scomparsa dell'ultimo interprete, cioè dell'
ultimo essente che la "significa" in un modo o in un altro).
Tutto questo mi riporta alla mente una battuta che sentii tempo addietro: "il giorno che muoio io finisce il
mondo". Da un certo punto di vista (che è quello idealistico), quella persona non è che avesse tutti i torti.
Eppure sappiamo bene, e lo sapeva pure lui, che così non è.
ciao
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Vecchio 30-11-2013, 11.44.55   #133
maral
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

Oxdeadbeef, quello che intendo dire è che l'io e l'oggetto sono aspetti parziali del medesimo intero per cui in termini ontologici concreti non ha senso chiedersi quale parte pone l'altra parte (se l'io o le cose esterne all'io), in quanto entrambe (io e mondo) sono posti come momenti infinitamente diversi e contrapposti, ma non isolabili, dall'intero dell'essente.
La realtà di un segno su un foglio di carta (di una figura su uno sfondo) non è il foglio di carta o viceversa, ma è la realtà propria di quel segno che non è il foglio di carta, ma che emerge in relazione a quel foglio di carta che non è il segno in esso tracciato e pur tuttavia non è da esso separabile affinché quel segno sia proprio quel segno e quel foglio segnato sia proprio quel foglio segnato.
Dunque la cosa (res extensa) non è creata dall'io (res cogitans) o viceversa, ma l'io e la cosa sono parti diverse, sono tra loro irriducibilmente altri, del medesimo intero essente.
Questo intero essente è originaria sintesi a priori dei diversi momenti antitetici attraverso i quali appare, ove questo apparire è un continuo inesauribile rimando a nuovi apparire, è cioè un continuo e inesauribile passare oltre della sua parziale forma astratta. La sintesi a priori originaria è l'intero essente stesso che si riconosce nelle sue parti (si riconosce ad esempio nei momenti antitetici di io che guardo la luna senza per questo essere la luna e luna come cosa guardata senza che essa sia io), si intuisce cioè come punto di partenenza e punto di arrivo di un percorso circolare che all'infinito definisce ogni essente per quello che è nell'orizzonte alla luce del quale via via viene a sopraggiungere.
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Vecchio 30-11-2013, 12.11.28   #134
maral
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Riferimento: Riflessione su: "Intorno al senso del nulla" (E.Severino)

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Originalmente inviato da Aggressor
A Maral rispondo brevemente che con quel "più o meno" intendevo proprio dire che la Luna non esisterebbe più nel modo in cui esisteva quando la pensavo (ma sarebbe simile a prima, nonostante tutto) se smettessi di pensarla, cioè, in termini più esatti e generali: se Io cambiassi forma (chessò, mi trasformassi in polvere) anche la Luna cambierebbe, seppure poco (più o meno), la sua forma. In quanto Io sono parte del contesto che la delimita, faccio parte della definizione della sua forma, cioè faccio parte di essa.
Allora potremmo dire che la luna esisterebbe nella sua forma astratta e non nella concretezza che le compete per intero, ossia continuerebbe ad esistere come luna-concetto a cui è stato sottratto l'aspetto di essere da te guardata e ciò che ti permette di dire che tale luna-concetto sarebbe simile alla luna-luna è il voler pensare che questa sottrazione sia del tutto trascurabile. E questo potrà essere vero in termini solo quantitativi (il fatto che sia o meno guardata da te è una sola attribuzione delle innumerevoli che competono alla luna-luna), ma in termini qualitativi come possiamo sostenerlo?
Qualsiasi cosa è o non è la cosa che si dice essere (non può esserlo più o meno), ma se non lo è quell'altra cosa che è, per quanto ci assomigli, non può comunque essere la stessa cosa né più o meno esserlo. Non trovi?
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Vecchio 30-11-2013, 15.27.18   #135
mariodic
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Citazione:
Originalmente inviato da maral
Oxdeadbeef, quello che intendo dire è che l'io e l'oggetto sono aspetti parziali del medesimo intero per cui in termini ontologici concreti non ha senso chiedersi quale parte pone l'altra parte (se l'io o le cose esterne all'io), in quanto entrambe (io e mondo) sono posti come momenti infinitamente diversi e contrapposti, ma non isolabili, dall'intero dell'essente.
La realtà di un segno su un foglio di carta (di una figura su uno sfondo) non è il foglio di carta o viceversa, ma è la realtà propria di quel segno che non è il foglio di carta, ma che emerge in relazione a quel foglio di carta che non è il segno in esso tracciato e pur tuttavia non è da esso separabile affinché quel segno sia proprio quel segno e quel foglio segnato sia proprio quel foglio segnato.
Dunque la cosa (res extensa) non è creata dall'io (res cogitans) o viceversa, ma l'io e la cosa sono parti diverse, sono tra loro irriducibilmente altri, del medesimo intero essente.
Questo intero essente è originaria sintesi a priori dei diversi momenti antitetici attraverso i quali appare, ove questo apparire è un continuo inesauribile rimando a nuovi apparire, è cioè un continuo e inesauribile passare oltre della sua parziale forma astratta. La sintesi a priori originaria è l'intero essente stesso che si riconosce nelle sue parti (si riconosce ad esempio nei momenti antitetici di io che guardo la luna senza per questo essere la luna e luna come cosa guardata senza che essa sia io), si intuisce cioè come punto di partenenza e punto di arrivo di un percorso circolare che all'infinito definisce ogni essente per quello che è nell'orizzonte alla luce del quale via via viene a sopraggiungere.
Tra Res cogitans e Res extensa non c'è differenza qualitativa né discontinuità (essendo entrambi i campi fatti di Conoscenza), semmai è la densità di questa "Conoscenza" che cambia in quanto aumenta con continuità ed asintoticamente passando dalla Rex extensa alla Cogitansa cioè appressandosi alla Singolarità universale che è l'IO (non l'io comunemente inteso). L'Universo. indipendentemente dai significati che si è usi dare a questo temine comunissimo, è interamente contenuto nel sistema logico dell'IO universale, sistema interamente generato dalla singolarità IO medesima. La comune percezione che le cose che il senso ed il linguaggio ordinario pongono "fuori" dall'io ordinariamente inteso (non dall'IO),è causata dalla caduta della densità conoscitiva nel graduale distanziarsi dalla singolarità origine I'IO, appunto. D'altro canto, infatti, tutto ciò su cui si riflette poco o tanto appartiene all'area (dello spazio della Conoscenza) dove più debole è quella "densità conoscitiva" in contrapposizione con le cose che interessano scarsissimamente l'IO Osservatore proprio in quanto iper-conosciute che quasi si confondono con l'IO stesso. Possiamo dire che, in questa configurazione dell'universo dell'IO e dello spazio della Conoscenza, ci sia una fascia di confine che separerebbe il mondo delle cose comunemente intese come "reali" dalle altre "intime"? Si, lo possiamo dire tranquillamente: in questa fascia, che era una linea netta ai tempi di Cartesio, oggi vi troviamo molte cose in bilico tra così detto "reale" e il così detto "pensato", come, per esempio, tutti gli oggetti individuati dalla fisica quantistica, che hanno notoriamente perso almeno parte delle caratteristiche della "realtà oggettiva", ne cito una una per tutte, la località.
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Vecchio 30-11-2013, 22.34.11   #136
0xdeadbeef
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@ Maral
Penso, appunto, che quella persona (quella che disse: "il giorno che muoio io finisce il mondo") non avesse
tutti i torti. Non li aveva proprio perchè, come giustamente dici: "l'io e l'oggetto sono aspetti parziali
del medesimo intero".
Però, dicevo, sappiamo bene che così non è; che vi è un "altro" rispetto all'"io" (che il mondo non finisce
con la morte di un suo interprete). In sostanza quello che io sostengo è semplicemente questo: questo "altro"
non è conoscibile nel suo proprio modo d'essere, appunto perchè si può conoscere solo l'intero (cioè il
prodotto dell'interpretazione che l'"io" dà di questo "altro"). Eppure questo "altro" esiste indipendentemente
dall'"io" che, necessariamente, lo interpreta.
Levinas interpreta in termini esistenziali questo rapporto fra l'"io" e l'"altro". L'angoscia, secondo lui,
è causata dalla condizione in cui l'"io" si trova davanti all'"assolutamente-altro". Levinas individua questo
"assolutamente-altro" proprio nella morte, cioè nel momento in cui l'"io" non è più interprete di nulla.
La morte è, dunque, l'assoluta im-potenza; l'assoluta presa di coscienza della propria finitezza. L'angoscia,
potremmo dire riferendoci al nostro aneddoto, è la consapevolezza che il mondo continuerà anche senza la
nostra interpretazione di esso. E' la consapevolezza che il giorno che muoio io, muoio io e basta.
Certamente non dobbiamo pensare, come Cartesio, che la "res cogitans" sia qualitativamente superiore alla
"res extensa". D'altronde non dobbiamo neanche pensare il contrario, come fa il materialismo.
L'Idealismo, c'è da dire, tenta una ardita e profonda operazione, cercando di farle coincidere nella "sintesi".
La cosa è, ritengo, lodevole. Senonchè l'Idealismo, riproducendo nell'"io" l'infinità divina, dimentica appunto
la finitezza umana, e dunque non può che pensare a quella sintesi in termini universalistici, cioè assoluti.
Ciò che ne risulta è un qualcosa di "mostruoso": ogni cosa che effettivamente si realizza rappresenta ciò
che necessariamente doveva realizzarsi. La "possibilità" viene annullata, e l'"io" diventa elemento
"creatore" (di ciò che è reale) IN QUANTO elemento creatore è l'intero composto da realtà e razionalità.
La sintesi di "res cogitans" e "res extensa" è invece solo e sempre NELL'uomo, cioè nell'"io" limitato dal
suo stesso modo d'essere. Mai lo trascende per diventare qualcosa di "infinito".
ciao
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Vecchio 01-12-2013, 12.01.06   #137
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Citazione:
Originalmente inviato da 0xdeadbeef
@ Maral
Penso, appunto, che quella persona (quella che disse: "il giorno che muoio io finisce il mondo") non avesse
tutti i torti. Non li aveva proprio perchè, come giustamente dici: "l'io e l'oggetto sono aspetti parziali
del medesimo intero".
Però, dicevo, sappiamo bene che così non è; che vi è un "altro" rispetto all'"io" (che il mondo non finisce
con la morte di un suo interprete). In sostanza quello che io sostengo è semplicemente questo: questo "altro"
non è conoscibile nel suo proprio modo d'essere, appunto perchè si può conoscere solo l'intero (cioè il
prodotto dell'interpretazione che l'"io" dà di questo "altro"). Eppure questo "altro" esiste indipendentemente
dall'"io" che, necessariamente, lo interpreta.
Levinas interpreta in termini esistenziali questo rapporto fra l'"io" e l'"altro". L'angoscia, secondo lui,
è causata dalla condizione in cui l'"io" si trova davanti all'"assolutamente-altro". Levinas individua questo
"assolutamente-altro" proprio nella morte, cioè nel momento in cui l'"io" non è più interprete di nulla.
La morte è, dunque, l'assoluta im-potenza; l'assoluta presa di coscienza della propria finitezza. L'angoscia,
potremmo dire riferendoci al nostro aneddoto, è la consapevolezza che il mondo continuerà anche senza la
nostra interpretazione di esso. E' la consapevolezza che il giorno che muoio io, muoio io e basta.
Certamente non dobbiamo pensare, come Cartesio, che la "res cogitans" sia qualitativamente superiore alla
"res extensa". D'altronde non dobbiamo neanche pensare il contrario, come fa il materialismo.
L'Idealismo, c'è da dire, tenta una ardita e profonda operazione, cercando di farle coincidere nella "sintesi".
La cosa è, ritengo, lodevole. Senonchè l'Idealismo, riproducendo nell'"io" l'infinità divina, dimentica appunto
la finitezza umana, e dunque non può che pensare a quella sintesi in termini universalistici, cioè assoluti.
Ciò che ne risulta è un qualcosa di "mostruoso": ogni cosa che effettivamente si realizza rappresenta ciò
che necessariamente doveva realizzarsi. La "possibilità" viene annullata, e l'"io" diventa elemento
"creatore" (di ciò che è reale) IN QUANTO elemento creatore è l'intero composto da realtà e razionalità.
La sintesi di "res cogitans" e "res extensa" è invece solo e sempre NELL'uomo, cioè nell'"io" limitato dal
suo stesso modo d'essere. Mai lo trascende per diventare qualcosa di "infinito".
ciao
La lettura del post di 0xdeadbeef, testé interamente quotato, posso dire che mi conforta -almeno in parte- circa la fiducia che ripongo nella mia visione del rapporto IO-Universo su cui, in varie parti di questa discussione (e di altre a questa vicine), ho insistito. Certo, mi rimangono dubbi non proprio trascurabili riguardanti alcuni punti del post di 0xdeadbeef, dubbi che riconosco non di facile soluzioni, per esempio, quello della morte in qualche modo riferita all'IO, che mal potrebbe essere accolto da chi non fosse disposto ad accettare il principio della immortalità dell'IO (che non è l'io comunemente inteso.
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Vecchio 02-12-2013, 09.57.19   #138
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Maral:
Oxdeadbeef, quello che intendo dire è che l'io e l'oggetto sono aspetti parziali del medesimo intero per cui in termini ontologici concreti non ha senso chiedersi quale parte pone l'altra parte (se l'io o le cose esterne all'io), in quanto entrambe (io e mondo) sono posti come momenti infinitamente diversi e contrapposti, ma non isolabili, dall'intero dell'essente.
La realtà di un segno su un foglio di carta (di una figura su uno sfondo) non è il foglio di carta o viceversa, ma è la realtà propria di quel segno che non è il foglio di carta, ma che emerge in relazione a quel foglio di carta che non è il segno in esso tracciato e pur tuttavia non è da esso separabile affinché quel segno sia proprio quel segno e quel foglio segnato sia proprio quel foglio segnato.
Dunque la cosa (res extensa) non è creata dall'io (res cogitans) o viceversa, ma l'io e la cosa sono parti diverse, sono tra loro irriducibilmente altri, del medesimo intero essente.
Questo intero essente è originaria sintesi a priori dei diversi momenti antitetici attraverso i quali appare, ove questo apparire è un continuo inesauribile rimando a nuovi apparire, è cioè un continuo e inesauribile passare oltre della sua parziale forma astratta. La sintesi a priori originaria è l'intero essente stesso che si riconosce nelle sue parti (si riconosce ad esempio nei momenti antitetici di io che guardo la luna senza per questo essere la luna e luna come cosa guardata senza che essa sia io), si intuisce cioè come punto di partenenza e punto di arrivo di un percorso circolare che all'infinito definisce ogni essente per quello che è nell'orizzonte alla luce del quale via via viene a sopraggiungere.


è praticamente un modo diverso per dire esattamente ciò che cercavo di esprimere spiegando l'affermazione "le cose in sé non hanno contenuto". Sono molto felice di vedere qualcuno che condivida questo aspetto dell'interpretazione della realtà con me.
Invece il pensiero di 0xdeadbeef è, dal mio punto di vista, troppo legato a quello della separazione al momento del riconoscimento di vari aspetti del reale.



Maral:
Allora potremmo dire che la luna esisterebbe nella sua forma astratta e non nella concretezza che le compete per intero, ossia continuerebbe ad esistere come luna-concetto a cui è stato sottratto l'aspetto di essere da te guardata e ciò che ti permette di dire che tale luna-concetto sarebbe simile alla luna-luna è il voler pensare che questa sottrazione sia del tutto trascurabile. E questo potrà essere vero in termini solo quantitativi (il fatto che sia o meno guardata da te è una sola attribuzione delle innumerevoli che competono alla luna-luna), ma in termini qualitativi come possiamo sostenerlo?
Qualsiasi cosa è o non è la cosa che si dice essere (non può esserlo più o meno), ma se non lo è quell'altra cosa che è, per quanto ci assomigli, non può comunque essere la stessa cosa né più o meno esserlo. Non trovi?


Diciamo che un oggetto può anche essere descritto approssimativamente, come in realtà succede sempre, percui il mio pigiama può essere nero e di pail, se poi si modifica un pò posso chiamarlo con lo stesso nome; allo stesso modo se la Luna per uno scontro con un meteorite perdesse parte della sua massa potremmo comunque chiamarla Luna, anche se, accettando un certo modo di usare la parola essere, potremmo dire che non è più l'oggetto di prima. Però il mio modo di usare quella parola è diverso e (mi pare) adeguato al discorso che tu stesso hai fatto circa l'essere originario; quando indico un oggetto indico al contempo il contesto in cui è inserito (cioè tutto "il resto" dell'universo), non lo indico di per sé, percui affermazioni circa il suo essere sono affermazioni circa l'essere del tutto. La Luna non smetterà mai di esistere finché l'universo si presenterà ma potrà certamente cambiare forma, il che, devo essere petulante, non vuol dire fargli perdere il proprio essere ma solo modificarne la modalità.

Ditetro queste specifiche e giustificazioni del modo in cui va usata la parola essere riposano anche i contrasti con Oxd. . Tu credi di riferirti ad un Io particolare e separato dagli altri quando, ad esempio, ti nomini. Invece nominandoti stai indicando già tutto ciò che ti sembra essere "fuori di te"; indicando il tuo essere indichi tutto l'essere, perché nel concetto legato al Te è insito il concetto delle altre cose che ti fanno da contesto. <<Oxd. è quello che parla con Aggressor>> (per es.), il tuo essere non prescidere da questo legame. La diversità che si riscontra nell'universo è per me la diversità delle proprietà che si dicono appartenere allo stesso oggetto, così la Luna esisterà sempre anche se cambierà aspetto, come Io esisterò ancora seppur tagliandomi le unghie o diventando brutto (cioè pure quando cambieranno delle proprietà che si dice appartenermi).

Quando penserai gli oggetti come proprietà dell'Essere ti penserai anche come immortale nell'essere ma passibile di cambiamento nel modo di essere.
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Vecchio 02-12-2013, 12.49.31   #139
maral
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Non è Oxdeadbeef che l'io diventi elemento creatore (anche se una parte dell'idealismo arriva a pensarlo sostanziando come assoluto quella che è in realtà solo una forma astratta e separata dell'intero e dando così fondamento al solipsismo), ma è parte irrinunciabile dell'intero insieme all'altro concettualizzato come mondo esterno all'io, come forma concettuale del non-io. Se l'io è parte irrinunciabile complementare, né l'io né il non io possono continuare a sussistere da soli, né il soggetto né l'oggetto mondo possono mai separatamente nascere o morire, ma sempre insieme (compreso questo io che sono io e questo tu che sei tu).
Ogni altro, in quanto negazione dell'io, è assolutamente altro (ogni altro è quindi morte dell'io, in quanto esprime il suo non essere. L'apparire dell'altro è l'apparire del proprio non essere, del proprio morire), ma proprio in quanto negazione ogni altro è ciò che fa sì che l'io propriamente sia quello che è, che pertanto lo genera per quello che concretamente è e dunque ne sostiene l'esistenza stessa, perché io compiutamente sono l'altro dell'altro. C'è dunque una contraddizione nel rapporto io-altro che può essere superata solo nella sintesi espressa dall'intero originario (e qui il pensiero di Severino si stacca da quello di Hegel per il quale la sintesi è invece il necessario punto di arrivo a cui perviene via via il pensiero, l'approdo finale dell'intera storia dialettica che prima o poi non manca di saturare l'intero).
In realtà però occorre ancora dire che, come ho sopra accennato, pure ciò che chiamiamo io è solo una posizione formale astratta e per questo essa appare nel suo continuo spostarsi. L'io è solo una storia il cui filo è tenuto dalla memoria degli essenti, perché l'io concreto fanciullo, come anche l'io concreto di questa mattina, ora è già stato oltrepassato, è già "morto", ma non nel senso che è entrato nel niente, che è diventato niente, ma nel senso che è compiuto e dunque non appare se non nel suo compimento. Ciò che tuttora appare è solo quanto (la parte) in comune vi è tra l'essente fanciullo e l'essente attuale, tra l'essente di questa mattina e l'essente di questa sera ed è questa parte in comune, astratta dalla totalità di ogni essente che via via sopraggiunge tra gli essenti, che emerge come "io", trattenuta sul filo incerto di una memoria che le conferisce il senso.
In realtà concretamente l'essente muore a ogni istante, perché a ogni istante la parte astratta e formale (incompiuta) di ogni essente passa ad altro essete e in esso appare, ma in nessun istante nessun essente si trova di fronte al nulla e dunque questo morire non è mai un finire nel nulla, ma un ritrovarsi di ogni essente con ogni altro essente attraverso il reciproco percorsi. Se morire è ritrovarsi e non sentirsi gettati in un nulla che fissa inequivocabile la propria ben definita separazione formale, significa che morire esprime l'incontro dell'essente Mauro-bambino con l'essente Mauro-adulto con l'essente Mauro di questa mattina con l'essente Mauro di questa sera con l'essente Mauro di domani e con l'essente Mauro che è quel riferimento comune astratto sentito come io alla luce del quale Mauro appare a se stesso e al mondo come una narrazione di essenti, che come ogni narrazione deve pur iniziare e finire per poter apparire sensatamente compiuta.
maral is offline  
Vecchio 02-12-2013, 17.13.40   #140
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Devo aggiungere anche un certo accordo con Mariodic (se ho capito bene le sue parole) nel momento in cui afferma come limite dell'Io (quello del gergo comune) il semplice limite conoscitivo: ciò che è meno palese o conosciuto dall'Io si considera altro da esso. Mariodic:La comune percezione che le cose che il senso ed il linguaggio ordinario pongono "fuori" dall'io ordinariamente inteso (non dall'IO),è causata dalla caduta della densità conoscitiva nel graduale distanziarsi dalla singolarità origine I'IO, appunto.

è proprio in base a questo che affermo: la Luna non-è altro da me; essa è una manifestazione del mio Io, per quanto ciò che chiamo Io o "altro" possano cambiare l'Io ci sarà sempre. Questo Io più o meno l'ho anche chiamato "essere", per questo dico che l'essere delle cose non può sparire, ma solo la sua modalità può mutare. Sembrerà, forse, strano, ma la cosa che mi ha convinto di più è aver riflettuto sulla domanda: "chi è che possiede le proprietà?". Cioè, anche Maral dice che A non può essere B se manifestano proprietà diverse, se sono diversi; ma cosa sono questi A e B al di fuori delle proprietà con cui li identifichiamo? Un nome proprio è in realtà il rimando ad una serie di proprietà, che senso ha, dunque, affermare che quelle proprietà sone possedute dal nome proprio? Se le cose che vediamo, cioè delle proprietà particolari (che i metafisici analitici chiamano "tropi") -perché io vedo le caratteristiche delle cose, di Fabio vedo l'altezza, il colore della pelle, ecc.- devono appartenere a qualcuno, allora, tutt'al'più, apparterranno al tutto (insieme "oggetti/contesti") da cui emergono, o semplicmente a nessuno. In ogni caso non sarà esatto affermare che Io non sono Te per delle differenze formali; sotto quelle forme non c'è un nuovo ente (?! mai definito tra l'altro) che le "possiede", tipo Io (o il mio nome proprio) o Voi (con i vostri nomi). L'unica cosa che si può dire è che pezzi di realtà sembrano diversi da altri pezzi di realtà, ma qui riportei l'attenzione verso quell'impossibilità che abbiamo di poter indicare -di per sé- dei "pezzi di realtà". La mia conclusione, come noto ormai..., è che quei "pezzi" siano lo stesso che si manifesta, necessariamente tramite una diversità che dischiude disvelamento e peculiarità, in modi diversi.

La posizione di Maral, invece, non tenta di eludere una diversità nell'essere delle cose, percui ricade, a modo suo (o al modo di Severino), in un sequenzialismo che però salvaguarda gli oggetti dalla cadunta nel non-essere tramite l'affermazione d'una enternità che gli sarebbe propria a causa del legame indissolubile con l'altro (o anche grazie ad esso). Non siamo, comunque, molto distanti.


Scusate se sembro oscuro, cerco di esprimere il mio pensiero, un saluto a tutti
Aggressor is offline  

 



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