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Vecchio 09-12-2013, 20.14.33   #121
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica

@ Paul11
Non ci sono più le grandi fabbriche semplicemente perchè è conveniente spostarle in paesi nei quali il costo
della manodopera è inferiore. Anzi, direi che in questi paesi le fabbriche tendono a diventare sempre più
grandi, visto che la legge economica detta delle "economie di scala" dimostra inequivocabilmente che in una
fabbrica grande il costo dell'unità prodotta è inferiore rispetto ad una fabbrica più piccola (e quindi è
inferiore il prezzo che il consumatore finale paga).
Quindi no, non sono d'accordo sul tuo sostenere la frammentazione economica come, diciamo, "processo". Essa
è semmai una conseguenza (non voluta) che riguarda paesi che, come il nostro, hanno economie deboli. In realtà la
frammentazione economica, essendo dis-economica, va contro quel razionalismo spinto all'estremo che
costituisce il sostrato dell'ideologia che mi piace chiamare "economicismo" (leggo infatti, e concordo, che
le grandi proprietà sono concentrate in poche mani).
Quando dico "mercato libero" non lo intendo certamente come fanno certe "anime belle" che gravitano, più che
altro, nell'area del centro-sinistra. Naturalmente, concetti come quello di "merito"; di pari opportunità; di
regole uguali per tutti sono null'altro che una fiera dei sogni, mentre la realtà della "libertà" economica
è ben altra.
Credo, a tal proposito, che i grandi proprietari di cui sopra conoscano assai bene il significato di "libero
mercato". Esso è l'assenza di regole se non l'unica e fondamentale: la legge del più forte.
Sottotraccia, ma poi mica tanto, è passato il messaggio per cui questo "economicismo" vigente viene identificato
con la scienza economica. Nessuna alternativa è possibile, si dice, perchè fra varie alternative una ed una
sola è quella economica (in questo consiste l'essenza della teoria dell'equilibrio perfetto dei mercati).
Naturalmente il passaggio dalla scienza economica alla scienza politica è breve assai...
Francamente mi meraviglio di come persone dall'indubbia intelligenza non inorridiscano davanti a definizioni
come quelle appena date. Scienza politica (ma anche economica)? Ma siamo impazziti a non vedere l'impossibilità
di una "scienza" di tali materie? Davvero il "sistema" ci ha lobotomizzati al punto da accettare passivamente
simili sciocchezze?
Naturalmente, se esiste una scienza politica non vedo proprio cosa ci stia a fare la democrazia. Perchè perder
tempo e denaro con le consultazioni "popolari" quando le decisioni da prendere possono esser prese in modo
infallibile poichè scientifico? Anche qui, se fra varie alternative una ed una sola è quella giusta perchè
non farcela dire dalla scienza e buonanotte?
E questo connubio di ogni genere di potere e di scientificità che rende questa perniciosa ideologia così
difficile da individuare (figuriamoci da contrastare...). O forse manca solo la voglia di farlo (in tanti
sono ancora col sedere al caldo...).
ciao
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Vecchio 11-12-2013, 23.10.26   #122
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica

@ Maral
Una analisi, la tua, certamente molto profonda; che condivido in larga parte.
In realtà, io penso, le due ideologie traboccano di una ontologia che, come dice Levinas, sembra essere il
destino di tutto l'occidente. Però ho qualche dubbio quando dici che entrambe falliscono.
Il marxismo certamente fallisce (sostanzialmente per i motivi che riporti, anche se sul passaggio fra marxismo
e leninismo dei distinguo sarebbero da fare, perchè non lo vedo così "automatico" come le tue parole farebbero
supporre); ma fallisce anche il "liberismo"? Qui, ritengo, i distinguo da fare sono davvero parecchi.
Innanzitutto ritengo che il termine "liberismo" sia fuorviante (come ho già avuto modo di dire diverse volte
in passato). Secondo il mio punto di vista esiste la "libertà" così come intesa dagli empiristi anglosassoni.
Ogni distinzione fra libertà politica ed economica (e a quest'ultima quel termine rimanda) è, ritengo, capziosa.
Visto che la libertà così intesa è solo e sempre individuale (altrimenti sarebbe "diritto"), sorge,
a livello politico, il problema di trovare il miglior modo di dirimere le controversie fra gli individui. E
non c'è dubbio che il miglior modo di dirimere le controversie fra gli individui "liberi" sia il mercato (è
evidente che così non è se l'individuo è "cittadino". In questo caso il miglior modo è il "diritto civile" -
come nel modello franco-continentale che sta, questo sì, fallendo).
Insomma, credo sia del tutto naturale che dal modello anglosassone, che è oggi dominante ovunque, non possa
che emergere una funzione direi "ontologica" del mercato (quello che a me piace chiamare "mercatismo", o
"economicismo" che dir si voglia). Un mercato di cui, giudizi valoriali a parte, non vedo alcun fallimento
in corso...
Sembra, anzi, che molti vedano la soluzione della crisi nello stesso mercato. Naturalmente ciò vuol dire che
si intende usare come antidoto lo stesso veleno, ma nessuno sembra accorgersene.
Ma perchè nessuno se ne accorge? Certo la risposta: "per ignoranza" è molto consolatoria (oltre che elitista).
No, credo che nessuno se ne accorga semplicemente perchè il mercato è veramente il miglior modo di dirimere
le controversie fra individui liberi.
In realtà a nessuno interessa più la pari dignità di ogni essere umano (o meglio: interessa ancora le persone
di sentimento sensibile e "nobile", ma sono/siete, spero siamo, quattro gatti).
La "libertà" odierna somiglia sempre più a quello stato ferino di cui parlava Hobbes, e in quello stato l'unica
"libertà" è quella che permette al forte di sopraffare il debole.
ciao
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Vecchio 12-12-2013, 15.32.52   #123
maral
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica

Oxdeadbeef, banalizzando a me sembra evidente che proporre più mercato come soluzione alla crisi che il mercato ha determinato (crisi che va ben oltre il suo significato economico che definirei solo sovrastrutturale) equivale a dire che il motivo per cui fa troppo caldo è che non si sono ancora alzati a sufficienza i termosifoni. Beninteso, anche questa di alzare i termosifoni quando fa caldo può essere una soluzione, intendendo per tale il fatto che a furia di alzare il termostato qualcuno non resisterà prima o poi alla tentazione di prendere a martellate i termosifoni per risolvere il problema.
Certamente il mercato può essere un mezzo per spostare la contrapposizione tra individui (me e gli altri in antitesi contraddittoria) a un livello simbolico di rappresentazione, ma preso in sé, staccato dalla realtà effettiva dell'individuo (che trova nell'altro il suo indispensabile fondamento e quindi la sua stessa negazione fondante) questo simbolo diventa feticcio a cui proprio l'individuo (ciò che l'empirismo di ispirazione anglosassone vuole come identità prima e concreta del sociale poiché empiricamente tangibile) viene a essere sacrificato. Il mercato in sé isolato nel suo piano simbolico di un rapporto conflittuale risolvibile solo per selezione dei contendenti (che collaboreranno ogni volta che la collaborazione si mostrerà proficua in termini competitivi) ha lo stesso valore di feticcio che ha avuto il grande partito comunista per la prassi leninista bolscevica con il suo fortissimo elitarismo strutturale. E' la separazione teorica dalla propria necessaria contraddizione (la sua rimozione) che determina la crisi dell'apparire dell'autocontraddizione in seno alla purezza assoluta che si vorrebbe salvaguardare isolata in sé stessa (autocontraddizione sociale per il comunismo e autocontraddizione individuale per il liberismo). Se si tenta di risolvere questa autocontraddizione di nuovo alienandola dal proprio credo anziché comprenderne il motivo fondante, riversandola ancora sull'altro (sui compagni che sbagliano e tradiscono o su chi in fondo è solo individualmente troppo poco competitivo per tenere il passo) ci si continua a illudere di una purezza da perseguire che è solo completa e reiterata catastrofe, anche se la si chiama progresso volendosi rendere ciechi a se stessi, gratificati dal senso di potenza che dà la propria miopia.
D'altra parte non credo che sia più possibile negare che crisi a ondate sempre più forti stiano ripetutamente sconvolgendo il mondo occidentale dalla fine degli anni 60 e anche negli stessi paesi anglosassoni e in particolar modo negli USA ove il liberismo si è fino ad ora più compiutamente e "democraticamente" realizzato. Beninteso tra un'ondata e l'altra potranno pure esserci momenti di bonaccia, momenti in cui la rimozione sembra funzionare, ma funziona solo come preludio per un uragano di potenza ancora maggiore, è inevitabile, perché il rimosso sempre appare facendo parte imprescindibile di ciò che è e più lo si rimuove più risorge in termini distruttivi.
L'idea di una istituzione democratica come barriera per un individualismo ferino che si pretende momento fondante di ogni individualità (negando e rimovendo quindi la propria contraddizione al punto da sostenere con assoluta astrazione che pure l'altruismo è solo il frutto di un naturale egoismo e non la sua ovvia basilare negazione) è inevitabilmente fallimentare, perché la verità la si vuole comunque ferina (la si pretende per forza di cose) e non la si vuole quella della convivenza sociale, dunque la stessa istituzione democratica presa in sé si ritrova all'improvviso costruita proprio sulle nascoste fondamenta di ciò che avrebbe voluto arginare. Se si rifiuta di ammettere che l'uomo non è solo una belva, ma che questa belva è solo un'astrazione dell'uomo, che non è solo un individuo contrapposto, ma che questa stessa contrapposizione implica la concreta necessità di coesistenza sociale come suo indispensabile orizzonte (e viceversa), sarà il livello ontologico delle cose a chiederne conto e il conto che si paga in dolore e sofferenza sarà molto alto perché molto lontano abbiamo voluto spingerci con le nostre logiche isolanti, con il nostro intelletto a scapito della ragione.
Il comunismo è caduto prima del liberismo, perché tutto sommato il marxismo, anche ove inteso come teoria economica, consevava ancora un senso umano, era all'integrità umana divenuta solo mezzo per il capitale che Marx voleva pur sempre riscattare, e la contraddizione sul senso umano appare assai presto evidente agli umani e si riflette nella dimensione umana dell'economia. Il liberismo mercantilistico impostato sullo spostamento della focalizzazione dall'umano al meccanismo tecnicamente funzionante preso in tutta la sua astrattezza autoreferenziale è riuscito a celare più a lungo la contraddizione per la quale il soddisfacimento del piacere individuale è solo un continuo ribadire l'estrema alienante futilità di ogni piacere e quindi di ogni individuo e a cui nessuna istituzione può porre rimedio, perché ogni istituzione, in senso liberista, non può che implicare quella stessa alienazione e credo che la crisi della politica e di partecipazione civica libera e responsabile proprio nei paesi del cosiddetto occidente democratico ne sia la riprova più evidente. Ci sarà infatti pure la possibilità, ma ogni possibilità risulta al modo generale di sentire del tutto superflua, quasi fastidiosa come una perdita di tempo frutto del proprio sentirsi incompetenti e sempre più incompetenti a tutto, incompetenti a vivere.
Se in URSS ogni scelta politica era improponibile perché il pensare altro dal progetto economico sociale della struttura guida elitaria era represso, in Occidente ogni scelta politica mostra la sua intrinseca futilità perché il pensare altro non è vietato, ma se ne persegue la sistematica rimozione a priori, in quanto è inutile e non si riesce a concepire nulla oltre alla dimensione dell'utile come definito dal profitto nel senso più astratto possibile del termine e proprio questa è la tragedia ontologica di cui quella economica, come dicevo all'inizio, è solo sovrastruttura.
Ciao e grazie ancora per la tua e la vostra attenzione e pazienza.
maral is offline  
Vecchio 12-12-2013, 21.57.45   #124
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Riferimento: L'oblio della filosofia politica

@ Maral
Una volta sentii una persona (non ricordo se era un "eminente" bocconiano; certo è che un "eminente" bocconiano
avrebbe potuto dirlo...) dire che il mercato ha bisogno di regole. Ove con il termine "regole" il nostro
intedeva quella serie di fregnacce che vanno tanto di moda fra i giovanotti "liberal" del centro-sinistra (pari
opportunità di partenza, antitrust etc.).
Un'altra volta lessi (e questa la ricordo bene: era il giurista Guido Rossi) che il mercato ha pur sempre
bisogno di uno stato per funzionare (non fosse altro che per garantire le transazioni, diceva Rossi).
Ora, io credo che ambedue le tesi siano abbondantemente "superate". La prima lo è evidentemente, la seconda un
pò meno evidentemente ma lo è lo stesso.
La verità, trovo, è che il mercato è finito col diventare una categoria assolutamente ontologizzante.
La cosa non mi sorprende, ed ha una sua logica intrinseca nel partire proprio dal concetto di "individuo", e
dal relativo concetto di "libertà". In realtà l'individuo: "che trova nell'altro il suo indispensabile
fondamento e quindi la sua stessa negazione fondante" è un individuo inteso "alla francese", ovvero un
individuo nel quale la "libertè" va di pari passo con l'"egalitè", non un individuo inteso alla maniera in
cui ha finito con l'intenderlo la contemporaneità (una maniera che trova nel pensiero anglosassone la propria
radice).
A questo proposito, trovo che di fondamentale importanza per la comprensione della contemporaneità sia il
pensiero di F.A.Von Hayek (il quale, appunto, traccia una distinzione nettissima fra il pensiero anglosassone
e quello che chiama "europeo-continentale").
Tra i tanti e profondissimi concetti (non li condivido "valorialmente", ma ne ammiro comunque la profondità)
che Von Hayek esprime mi piace citarne in particolare uno. Egli parla di: "conseguenze inintenzionali di
atti individuali intenzionali". Il problema delle scienze sociali, secondo Von Hayek, è la spiegazione
teorica della misura in cui un certo ordine emerge come risultato dell'azione dei singoli, senza essere stato
coscientemente perseguito dagli stessi.
In altre parole, il potere politico emerge dall'azione degli individui in maniera "inintenzionale". Ogni "ordine",
secondo Von Hayek, nasce dall'interscambio fra gli individui.
Ora, è chiaro che il "mercatismo" trova in Von Hayek il suo massimo cantore (era, e non certo a caso, l'autore
preferito da M.Thatcher). Tutto si origina DAL mercato, e tutto ritorna NEL mercato: non esistono "regole"
che gli preesistono, così non non esistono "stati" che gli preesistono. E' il mercato che fa e disfa.
E qual'è l'individuo che agisce nel mercato "hayekiano"? Forse quello che trova nell'altro la sua negazione
fondante? Forse, ma comunque fra l'"io" e l'"altro" avviene sempre una sintesi, una sintesi ovviamente
squilibrata in favore dell'individuo più forte (cioè quello nella posizione contrattuale più forte - come
nel "contratto" che "mercatisticamente" avviene fra il detentore di un portafoglio e il bandito con la pistola
che vuole sottrarglierlo).
Magari dirai che io vedo un uomo "naturalmente" cattivo. Beh sì, è quello che vedo (lodevoli eccezioni a parte).
O meglio: quello che vedo io non è un individuo che vede nell'"altro" la sua negazione fondante. Come Levinas, io penso
che la "malattia mortale" dell'occidente sia la riduzione del tutto all'"io", e che quindi non sia tanto
questione di essere "naturalmente cattivi", quanto di essere semplicemente "occidentali", e quindi di non
riconoscere l'"altro" per quello che in realtà è (o dovrebbe essere, ma non apriamo un "fronte di discussione"
estremamente problematico su questo).
In fondo, se ci si riconoscesse come "naturalmente cattivi" si potrebbe pensare anche di non esserlo-più, non
trovi? No, invece non ci riconosciamo affatto come "naturalmente cattivi", e pensiamo che il nostro mondo, il
nostro modo di vivere, sia il migliore fra i tanti possibili.
ciao e grazie a te per interventi sempre profondi ed interessanti.
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 13-12-2013, 00.20.54   #125
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@ Gyta
Ma anche la guerra è "interazione" (pur se, certo, non l'interazione che tu intendi). E cosa intendi per
"reale"? Forse che la guerra non lo è? O forse intendi la guerra come un turbamento dell'ordine naturale
delle cose?
Mi par di capire che tu intendi l'uomo come uno "zoon politikon", cioè come un essere che ha una natura
essenzialmente politica e sociale. Questo è vero, ma la natura essenzialmente politica e sociale dell'uomo
non ha solo risvolti "positivi". Se guardiamo alla ricerca storiografica ed archeologica essa ci dice che
durante la rivoluzione agricola (primo grande periodo di "socialità") le capanne diventano a pianta quadra,
chiaro segno della necessità di difendersi dai nemici esterni.
Questo, naturalmente, senza considerare che la specializzazione del lavoro determina, subito, grandi differenze
di "ceto", con lo svilupparsi di una economia presto basata sul latifondo (con relativo asservimento per
debiti dei più).
Naturalmente, nella storia vi sono stati esempi di società egualitarie, o comunque società nelle quali le
differenze sociali erano limitate (in genere società nomadiche e guerriere). Come poter tracciare "regolarità"?
Forse che queste società egualitarie cooperavano con quelle che si costruivano le capanne a pianta quadra per
difendersi proprio da loro?
Ti confesso di essere molto perplesso dalla tua risposta, perchè ravviso in essa una carica di metafisicità
davvero, diciamo, molto poco digeribile. Parli di "naturale disposizione alla cooperazione"; di "cooperazione
come fondamento del reale"; di "legge intrinseca di natura" senza, a parer mio, renderti conto di stare
delineando un "ordine" tutto da dimostrare (in realtà indimostrabile).
Un "ordine", secondo il mio punto di vista, può essere solo ideale, non certo reale. Perchè il reale è molteplice
(chiedevo: come poter tracciare regolarità?).
E' l'idea che, appunto, ordina il molteplice secondo non ciò che "è", ma secondo ciò che "deve essere" (sulla
base della distinzione kantiana di realtà e razionalità).
ciao
0xdeadbeef is offline  
Vecchio 13-12-2013, 22.05.03   #126
maral
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Citazione:
Originalmente inviato da 0xdeadbeef
A questo proposito, trovo che di fondamentale importanza per la comprensione della contemporaneità sia il
pensiero di F.A.Von Hayek (il quale, appunto, traccia una distinzione nettissima fra il pensiero anglosassone e quello che chiama "europeo-continentale").
Tra i tanti e profondissimi concetti (non li condivido "valorialmente", ma ne ammiro comunque la profondità) che Von Hayek esprime mi piace citarne in particolare uno. Egli parla di: "conseguenze inintenzionali di atti individuali intenzionali". Il problema delle scienze sociali, secondo Von Hayek, è la spiegazione teorica della misura in cui un certo ordine emerge come risultato dell'azione dei singoli, senza essere stato coscientemente perseguito dagli stessi.
In altre parole, il potere politico emerge dall'azione degli individui in maniera "inintenzionale". Ogni "ordine", secondo Von Hayek, nasce dall'interscambio fra gli individui.
Ora, è chiaro che il "mercatismo" trova in Von Hayek il suo massimo cantore (era, e non certo a caso, l'autore preferito da M.Thatcher). Tutto si origina DAL mercato, e tutto ritorna NEL mercato: non esistono "regole"
che gli preesistono, così non non esistono "stati" che gli preesistono. E' il mercato che fa e disfa.
Direi che in questi termini l'idea del mercato di Von Hayek rappresenta in pieno quello che Severino (nel senso hegeliano di concettualizzazione del solo intelletto che vuole escludere la ragione) definisce concetto astratto dell'astratto, ossia il mercato come pura contraddizione nascosto dal suo volersi pretendere assoluta affermazione negando il fondamento antitetico che lo determina. Sono d'accordo sul fatto che gli atti individuali intenzionali abbiano macro conseguenze inintenzionali, fa parte di quella emergenza che si manifesta nei sistemi complessi per cui il prodotto dell'intero sistema non può essere la sola somma di ciò che producono le parti che lo costituiscono e il mercato può ben costituire una sorta di astrazione di questa emergenza che ha a fondamento concreto le interazioni individuali (come il formicaio che non è la somma delle attività delle formiche), ma questo non esaurisce in una sorta di nuova metafisica feticistica che isola in sé il suo particolare contenuto relazionale. Al massimo si può volere che sia così, ossia si può volere il falso.
Non nego che le costruzioni di feticci a mezzo dell'isolamento intellettuale non abbiano un particolare fascino, ma il feticcio resta falso per quanto affascinante nella sua astratta illusoria potenza. La falsità può essere superata solo recuperando ciò che in campo relazionale non è mercato (ossia un dare per avere) e lo nega. Questa negazione che pone l'altro del mercato, riconduce il mercato stesso alla sua forma piena e integra che accoglie la sua negazione come momento fondante inscindibile.
Questo è il ruolo vero dell'altro ente, che è sì radicale antitesi di questo ente, ossia se x è l'ente, NON x è il suo altro (radicale negazione, qualcosa che ci riporta forse proprio a Levinas) ma nel riconoscere il NON x, l'ente può apparire a sé stesso come NON NON x, ossia scorgere il proprio essere in sé isolato come un essere per sé eternamente aperto. Il passaggio fondamentale che solo l'altro può consentire è quello di un in sé che produce il per sé e così guadagna l'interezza dell'essere in sé e per sé. L'altro non è dunque la negazione che annienta l'affermazione e che pertanto va esclusa a mezzo della propria forza per non soccombere, ma è l'essenza fondante della interezza di ogni ente per ciò che interamente è. L'ente che rigetta il proprio altro (sia esso l'io o il concetto astratto di mercato) proclama e vuole se stesso come un falso assoluto in cui per esistere come assoluto feticcio rinnega se stesso, si aliena da se stesso. Il mercato (e allo stesso modo l'io) che non è il tutto relazionale, preso come tutto ribadisce continuamente la contraddizione annientante della propria verità. Ecco perché qualsiasi visione che non prenda a proprio orizzonte l'altro da sé che la riflette (il mercato che non riconosce il non essere mercato) nega in ultima analisi proprio se stessa, si aliena da se stessa idolatrando la propria finzione.
Non c'è nessuna sintesi che possa concretamente apparire come ultima sintesi perché ogni sintesi è tesi per una nuova antitesi che appare al proprio orizzonte e che dovrà comprendere per esserne nuovamente compresa.
Prima o poi la politica e la stessa economia dovranno necessariamente liberarsi dal proprio feticismo di potenza che le isola come idoli vuoti che esigono inesauribili pasti per illudersi per un attimo della propria pienezza peraltro subito negata.
In realtà non è questione di essere buoni o cattivi, nemmeno altruisti o egoisti, ma di potersi riconoscere integralmente senza costruirsi a feticcio di se stessi (proprio come quei Polacchi che aiutarono gli Ebrei, il loro altro fenomenico, solo per potersi riconoscere).
Grazie dunque a te per il tuo indispensabile contraddittorio.
Ciao
maral is offline  
Vecchio 14-12-2013, 04.59.44   #127
gyta
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Non c’è una sola cosa che non sia stata creata (dall’uomo) attraverso la cooperazione fra uomini.
Anche la guerra.. quando si è ciechi e spaventati.
La prova l’abbiamo davanti e dentro i nostri occhi tutti i giorni.
Dal neonato che non può sopravvivere senza madre all’adulto che non può nemmeno coltivare la terra se non avesse a disposizione gli arnesi costruiti dai suoi simili per dissodarla. Nemmeno la distruzione è possibile senza cooperazione.
Mi sembra che la prova che cerchi sia più che evidente.

E se ben valutiamo non si limita al solo genere umano ma all’intero ecosistema. Dal più semplice ossigeno che senza la vegetazione non ci consentirebbe la vita sul pianeta. Ciò che determina la violenza fra gli animali è la natura dei predatori la loro necessità di sopravvivenza e difesa ed anche fra loro la cooperazione è indispensabile.
Noi esseri umani possediamo un intelletto capace di cogliere molto al di là di ciò che ci appare.
Abbiamo il dono di un’intelligenza che ricerca una soddisfazione che non è mera sopravvivenza.
Abbiamo gli strumenti per cogliere il nesso di ciò che lega fra loro le cose.
Un nesso che ci appare solo se siamo disposti a vedere non solo la superficie delle cose e delle lotte.
Quel nesso è che senza gli altri la nostra vita non sarebbe assolutamente possibile.
Quale chiarezza maggiore ci occorre per vedere che è nella nostra natura di essere legati a doppio filo l’uno all’altro?
Se questa chiarezza non è sufficiente per comprendere che la cooperazione è la legge profonda che segnala il percorso,
la legge profonda dalla quale nessuno può sottrarsi, significa semplicemente che la paura ancestrale animale ancora presiede alla nostra facoltà intellettiva.


Citazione:
Naturalmente, nella storia vi sono stati esempi di società egualitarie
Tu tiri le somme. Questo significa sorvolare con lo sguardo.
Mira ai passi compiuti, mira dentro di te le forze contrarie, guarda ed ascolta dove vogliono portarti,
ma soprattutto il perché vorrebbero andarci. Scoprirai allora molto di più sul perché delle difficoltà umane,
allora comprendere la storia sarà vedere negli altri quelle stesse tue difficoltà a.. conoscerti.
Ma non è uno sguardo dall’alto che ti consegna tutto questo.
E nemmeno uno sguardo da dentro se il peso del dolore irrisolto ancora ci accompagna.

Spero di essere stata più chiara..
gyta is offline  
Vecchio 14-12-2013, 15.31.08   #128
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@ Maral
Cerco di affrontare l'argomento dal punto di vista economico e politico (quindi dirò anche dove, a mio parere,
si cela l'ideologia - direi addirittura l'aspetto metafisico).
Dicevo che il pensiero di F.A.Von Hayek è fondamentale per comprendere la contemporaneità. Non capisco perchè
questo pensatore sia ancora così (relativamente) poco conosciuto, perchè è alle sue teorie che bisogna guardare
se si vuole capire cosa sta succedendo (altrimenti si finisce ai "forconi", e al grido giusto ma
fuorviante di "politici ladri!").
Von Hayek è il principale esponente della Scuola Marginalista, cioè di quella corrente di economisti che, per
primi, riconoscono il valore di un bene economico come valore di scambio fra gli attori economici (è qui che
la teoria classica del valore come valore-lavoro viene destrutturata). Ma egli è molto di più che un economista.
Il suo pensare spazia infatti ben oltre l'economia, tanto che non è certamente errato chiamarlo "filosofo".
Von Hayek sostiene che l'"entità collettiva" è null'altro che un'idea. La scienza sociale non può prendere
avvio da un'idea, ma dal "dato" che quest'idea origina: l'individuo (nota come la base di partenza di questa
riflessione sia proprio il concetto di "valore economico" come valore che al bene attribuiscono gli individui).
Senonchè, e qui già comincia a far capolino l'ideologia (la metafisica, su cui ogni ideologia si fonda), Von
Hayek parla di un "ordine" che emerge come risultato dell'azione degli individui (come ti accennavo nella
precedente risposta). Naturalmente lui, che è pensatore profondo, si guarda bene dal definire quest'ordine
come "giusto". Così non faranno certi suoi ammiratori ed epigoni (Friedman e la Scuola di Chicago in primis),
per i quali l'ordine hayekiano sarà anche "giusto" (non indifferente vi è, trovo, la concezione necessitaristica
dell'etica protestante).
Dunque l'ordine che emerge dall'azione degli individui è sempre e comunque un ordine giusto. Von Hayek si
rivolterà nella tomba davanti a tanta superficialità (lo stato per lui era necessario, e non tutto poteva
risolversi nel mercato), ma tant'è: nessuno si ricorda più di queste sue precisazioni, e tutti celebrano la
parte del suo pensiero che gli fa buon pro (a cominciare dagli insopportabili articoli di Ostellino e
Panebianco sul "Corriere della Sera").
Ora, il discorso è vastissimo ed anche discretamente complesso. Mi limito qui a ricordare come una grossa
parte vi gioca la teoria dell'equilibrio dei mercati. Come già fece notare K.Menger (un altro esponente della
Scuola Marginalista) il presupposto fondamentale della teoria dell'equilibrio è un interesse individuale
sempre identico (tutti sono interessati alle stesse cose). Non solo, anche, dice Menger, l'onniscienza e
l'infallibilità dell'uomo in fatto di cose economiche.
In realtà appare chiara l'analogia che sussiste fra la teoria dell'equilibrio perfetto dei mercati e la
meccanica classica (che ritiene di avere un punto privilegiato d'osservazione), eppure siamo ancora a fare
i conti con essa. Cioè siamo ancora a fare i conti con "verità" affermate come se la relatività non fosse
mai stata scoperta (e come se il relativismo riguardasse la sola sfera della religione).
E' agevole, pur nella complessità d'insieme, notare come quel "giusto ordine" di cui dicevo prima possa, come
dire, "saldarsi" alla teoria dell'equilibrio perfetto dei mercati.
In realtà l'ordine che emerge è "giusto" per lo stesso motivo che la teoria dell'equilibrio dei mercati è
"perfetta": vi è sempre sullo sfondo un ordine "naturale"; delle leggi "eterne" e necessarie.
Hai dunque perfettamente ragione a parlare di "feticci". Come d'altronde hai perfettamente ragione a definire
l'"altro": "negazione fondante dell'io". Ma allora ha ragione Levinas quando parla della riduzione del tutto
all'"io" come "malattia mortale dell'occidente"? Ma come fare, se così è, a coniungare tutto questo con la
"volontà di potenza"?
Mi è già capitato di dire che l'occidente avrà, sì, "ucciso Dio"; ma lo ha ricostituito in altre forme (dice
Severino che l'Inflessibile si ricostituisce sempre). Non è forse di un altro Inflessibile che si sta parlando
quando si parla di questo ordine naturale, delle leggi eterne e necessarie che governano la storia (nota
anche il rifiuto radicale di esse da parte di A.Camus ne: "Il mito di Sisifo")?
E dunque, ancora, è all'ontologia dell'occidente che è rivolto il "j'accuse" di Levinas; a questa "reductio
ad unum" di cui sembra non si possa fare a meno.
Come l'"io" non riconosce l'"altro" come sua negazione fondante, così il mercato non riconosce ciò che non
è mercato come l'elemento che, solo, può qualificarlo come tale (molto profonda e condivisibile questa tua
riflessione). E' per questo che un pensatore "vero" come Von Hayek avvertiva che non tutto può essere mercato,
e che vi è una sfera nella quale il mercato non può entrare.
ciao
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Vecchio 14-12-2013, 15.50.44   #129
0xdeadbeef
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@ Gyta
Va bene, ma tu parli dell'interazione dandone sostanzialmente (e necessariamente) un significato positivo.
Ti dicevo appunto che concordo sull'uomo come "zoon politikon", cioè come essere che ha una natura politica
e sociale, ma ti chiedevo se la tua visione dell'interagire dell'uomo considerasse la guerra come parte di
tale interagire. Specificamente, mi interessava sapere se tu consideri la guerra come un "turbamento dell'ordine
naturale delle cose".
Naturalmente dicevo così perchè tutto, nella tua precedente risposta, mi faceva pensare ad una tua considerazione
delle cose del mondo come "naturalmente ordinate", ed ordinate per il meglio. Devo dire che il tuo accenno
alla guerra nell'ultima risposta ("quando si è ciechi e spaventati") mi conferma l'impressione che avevo avuto.
Aspetto tue considerazioni
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Vecchio 14-12-2013, 22.45.54   #130
maral
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Oxdeadbeef, nel tuo come sempre interessante intervento, ci sono diversi spunti di discussione e commento, in particolare leggo:
Citazione:
Von Hayek sostiene che l'"entità collettiva" è null'altro che un'idea. La scienza sociale non può prendere avvio da un'idea, ma dal "dato" che quest'idea origina: l'individuo (nota come la base di partenza di questa
riflessione sia proprio il concetto di "valore economico" come valore che al bene attribuiscono gli individui).
E ci sento già qui una assunzione metafisica voluta a priori (l'ennesimo riaffiorare di ciò che si esige inflessibile). Perché mai infatti l'entità collettiva non dovrebbe essere altro che un'idea che non può prescindere dal dato individuo e non viceversa? Certo oggi in Occidente e quindi ormai nell'intero pianeta, siamo stati convinti che sia così, ma sappiamo bene che non è stato sempre così e non vi è alcuna ragione che dimostri che l'antitesi (ossia che l'individuo sia l'idea prodotta dal dato sociale collettivo) non sia vera. E può certo essere ancora vera oggi: se infatti nelle prime comunità storiche e preistoriche l'emarginazione dell'individuo dal suo ristretto contesto sociale minacciava il concreto annientamento della persona stessa, pure oggi il rigetto sociale da una comunità che non è più certo ristretta da legami di sangue, ma determinata nel prefissare indiscutibilmente il significato di contesto di valori alla luce della sua inflessibile metafisica nascosta, minaccia a ragione la medesima distruzione sull'individuo e prova ne è la disperazione distruttiva e autodistruttiva di chiunque si trovi oggi a essere emarginato, sospinto nell'angolo più buio dell'isolamento e della periferia.
E cos'è poi questo individuo che si vuole dato di partenza per ogni ragionamento sul valore? Non è forse anch'esso un'idea presa a segno astratto di una molteplicità reale di essenti? di una collezione di entità che appaiono nel segno astratto di un io che certo non riesce ad esaurirne la molteplicità? Quanti individui quell'individui astratto che chiamo io? E allora cosa significa perseguire il proprio individuale interesse, se l'individuo è solo un segno astratto di una molteplicità (molteplicità di pensieri, di propensioni, di intendimenti spesso in contrapposizione tra loro)? Perché l'individuo deve prevalere sul collettivo se l'individuo stesso è un collettivo e i suoi valori sono pertanto inevitabilmente contraddittori e riescono a malapena a volte a sussistere insieme? Quali sono i valori dell'individuo? Cosa lo fa stare davvero bene? Siamo sicuri che il suddetto individuo abbia più reale consapevolezza del suo bene rispetto a quella di un gruppo sociale? O che ogni bene fermamente tenuto saldo da un io tirannico e ipertrofico non si risolva all'interno dell'individuo stesso nel suo disfacimento schizofrenico che non vuole assolutamente comprendere la contraddizione che lo abita ma solo cancellarla, rimuoverla? E il santo mercato che non comprende ciò che lo contraddice, ma lo rimuove, non rischia forse la stessa fine?
Sotto questa assunzione dell'individuo come dato sento tutta la pretesa di un neopositivismo logico in stile Carnap in cerca di dati elementari da assumere come punto di partenza senza peraltro mai trovarli, perché ogni volta che pensa di averli trovati essi si rilevano in tutta la loro complessità inter relazionale che non può essere cancellata senza perdere ogni significato. Atomi che non possono essere atomi, particelle elementari che come in fisica si moltiplicano indefinitamente su se stesse senza trovare alcun semplice punto di partenza.
Non c'è nessuno allora che può prefissare il proprio interesse se non nell'orizzonte di una contraddizione che sempre si ripete abbattendo ogni inflessibile che è un'astrazione presa in astratto avente già in sé il germe della propria rovina, mercato compreso, ove il germe è proprio la sua stessa pretesa di inflessibilità.
L'interesse individuale sempre identico non può in alcun modo sussistere a dispetto di quanto vorrebbe Menger, neppure entro l'individuo stesso, a meno di non farne un feticcio, una mera finzione per la quale si possa sostenere "l'onniscienza e l'infallibilità dell'uomo in fatto di cose economiche" che, alla luce degli attuali esiti economici mondiali, sembra una battuta da teatro dell'assurdo. Ma questi signori non vogliono certo passare per clown e tentano allora di rimediare invocando una maggior purezza, una maggior presa dell'astratto dell'intelletto sul concreto della ragione, rendendosi così solo più penosi e un clown penoso, se non è un tiranno che riesce a illudere del suo taumaturgico potere, sempre più difficilmente lo si può sopportare.
La volontà di potenza è la volontà che vuole dire il falso del vero e il vero del falso, mostrando così a se stessa che tutto le è possibile, basta saper indurre a crederci. La volontà di potenza vuole che la parte che ha estratto e isolato dall'intero per farla apparire come incontrastato assoluto sia superiore all'intero stesso, vuole un io al di sopra della complessità esistenziale dell'ente, vuole un mercato al di sopra della complessità concreta delle relazioni di scambio e un valore interamente leggibile come profitto monetario, vuole infine il niente come essenza di tutto. vuole la stessa contraddizione che vuole negare e per questo costruisce continuamente feticci a cui sacrificare l'esistente, per poi essa stessa abbatterli e sostituirli affinché solo essa resti incontrastabile ed eterna. Ma se solo essa resta è niente che resta, perché le viene a mancare la base fondante dell'altro da sé. La volontà di potenza, parafrasando il pensiero gnostico, è la volontà del demiurgo che dice di essere l'unico dio suscitando l'ilarità di tutti gli altri eterni essenti.
Il feticcio del mercato crollerà, come sta crollando il feticcio dell'io, in corrispondenza della sua apparente apoteosi (della sua "Domenica delle Palme" e non prima), è la stessa volontà di potenza che lo vuole perché essa essenzialmente è solo il nulla che vuole di fronte a se stessa, vuole quindi essere il nulla che è, la propria sola totale auto contraddizione che per questo non può riconoscere la reale contraddizione fondante della presenza dell'altro, di ogni altro da sé.


P.S. una postilla importante per chiarire che la volontà di potenza comunque è e non può a sua volta venire rimossa. Se essa è volontà di mentire, volontà di far apparire il falso è a sua volta l'orizzonte indispensabile per l'apparire del vero, essa è positivamente l'altro fondante dell'apparire del vero. Ma la volontà di potenza così compresa nel vero, alla luce di ciò che è, pur dicendo il falso è vera ed è proprio ciò che determina il costante diverso vero apparire di ciò che appare per come appare, ossia come un eterno contraddirsi che viene via via a togliersi.

Ultima modifica di maral : 15-12-2013 alle ore 08.54.13.
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